«Non va bene» bofonchiò Merik mentre si avventurava insieme a Cam nell’umido sottosuolo alla luce di una vecchia torcia. Dall’ingresso alle Cisterne erano scesi di due piani, gremiti entrambi di una folla di disperati e di ratti i cui occhi brillavano nel buio. «Non si vede il cielo.»
«Non mi aspettavo che avesse paura, signore.» Cam si gettò un’occhiata maliziosa sopra la spalla.
«Non ho paura» replicò lui avvampando. «Qui non c’è aria, ragazzo. Nemmeno un soffio. Mi sento… soffocare.»
«Be’, ci siamo abbassati di poco, perciò è meglio che si abitui. Via Fetente è molto più giù… e lì la puzza è molto più forte.»
La ragazza non stava esagerando: dopo essere scesi di altri sei piani, l’aria cominciò a farsi maleodorante. Anche se i passaggi erano più ampi e i soffitti più alti, presto la puzza divenne così forte da stringere la gola, e così acre da far bruciare gli occhi.
Cam si trovò piegata in due a tossire e a dare di stomaco, spargendo la luce della torcia in tutte le direzioni. «Merda» disse, e Merik non capì se imprecasse per il tanfo o semplicemente ne menzionasse l’origine. In entrambi i casi, concordava con lei.
Dopo altri tre tornanti, raggiunsero la famigerata Via Fetente. La ragazza si coprì la bocca con una mano, sollevando la torcia. La luce si rifletté su una distesa grumosa di liquami e deiezioni. C’era anche qualcosa di scuro e unto che colava da una crepa tra i mattoni del soffitto.
Ancora peggio di quello spettacolo, però, era il plop plop delle gocce che cadevano nello scarico… e le bolle che risalivano gorgogliando.
«Può trasportarci in volo, signore?»
Merik valutò la possibilità mentre si teneva calato il cappuccio sulla bocca.
Alla fine, però, scosse la testa. «Per volare mi occorre evocare i venti. E, anche se posso provarci, non c’è abbastanza aria per portarci lontano.»
«Sempre meglio coprire in volo metà della distanza che farsela tutta a piedi» osservò Cam. «La galleria è quasi piena, signore! Quella linea indica l’altezza che raggiungono le acque di scolo prima che passi il flusso di scarico a ripulirle» puntò il dito verso la parete opposta. «Potrebbero già arrivarci alle ginocchia!»
Merik tacque mentre rifletteva su quanto desiderasse avere risposte riguardo alle faccende di sua sorella nelle Cisterne. Solo che… non importava ciò che voleva lui. Gli abitanti della città avevano bisogno del suo aiuto.
Serrò la mascella. La X sulla mappa era proprio davanti a lui, e così non poteva far altro che avanzare.
«Mi ha sentito?» chiese Cam. «Quelle maledette acque di scolo sono già parecchio alte, signore! Il che significa…» S’interruppe, strizzò gli occhi e si mostrò ancora più disgustata. «Che presto questo posto verrà sommerso.»
«Merda» disse Merik, e lui intendeva proprio imprecare. «Cam, voglio che tu vada ad aspettarmi in qualche galleria più sicura.»
«Non la lascio solo. So che mi lamento sempre, ma questa volta è colpa mia, vede? Ho detto che quegli orari indicavano le piene, ma pensavo che segnalassero il loro termine, non l’inizio!»
«Non è colpa tua, ragazzo.» Il tono del principe era carico d’urgenza. «Sono io quello che pensava che fosse l’orario di un appuntamento… e potrebbe esserlo ancora. Ma per te non è prudente avanzare oltre.»
«Nemmeno per lei» replicò Cam. «E poi, se non l’accompagno finirà per combinare qualche sciocchezza.» Sporse il petto in avanti. «Non può fermarmi, signore.»
Seguì una pausa carica di tensione. Sotto quella luce, la ragazza sembrava così piccola. E anche così ostinata.
Filip lo sciocco portò Daret il cieco
nel fondo della caverna scura.
Era la casa della Regina dei Granchi
ma non per questo aveva paura.
«Se ti fai male…» iniziò Merik.
«Non succederà.»
«… ti rovinerai gli stivali nuovi.»
«Tanto non mi sono mai piaciute le scarpe.»
«Bene» si limitò a dire lui, e Cam scoprì i denti in un sorriso di vittoria. Fu la fine della discussione, anche se il principe quasi avrebbe voluto che si protraesse, perché a quel punto non restava altro da fare che marciare tra gli escrementi umani.
Che le acque dell’inferno lo sommergessero, non aveva mai immaginato di trovarsi un giorno a scarpinare nelle fogne. Ma, d’altro canto, non aveva mai immaginato nemmeno di essere un morto in fuga dalla propria famiglia.
Quando finalmente apparve una parete o, almeno, quando Cam esclamò: «Il luogo dell’incontro è su per quei gradini, signore», Merik quasi gridò di sollievo. In quel punto, dove una biforcazione della galleria divideva il flusso delle acque di scolo, nella parete si apriva una bassa arcata rischiarata dalla fioca luce di una torcia. Il principe si arrampicò su una piattaforma e aiutò Cam a liberarsi dalle grinfie di Via Fetente.
Erano entrambi disgustati, coperti da uno strato troppo viscido perché Merik potesse esaminarlo senza dare di stomaco. Lui e la ragazza batterono con forza i piedi cercando di scrollarsi di dosso il sudiciume, ma non ottennero grandi risultati.
Dopo poco passarono sotto l’arcata e si sentirono sfiorare da un sibilo di magia, proprio come quando erano entrati nelle Cisterne.
A quanto pareva, si disse il principe, gli incantesimi non servivano solo a tener fuori la gente, ma anche a non lasciare uscire la piena.
«Capita mai che qualcuno venga travolto dalle acque?» chiese.
Cam scrollò le spalle e infine si abbassò il cappuccio. «Certo che capita, signore. Capita eccome.» Poi girò di scatto la testa verso le scale illuminate dalla torcia e, senza verificare se Merik la seguisse, si mise in marcia.
Vivia camminava tra i pruni dei giardini reali, dopo avere indossato l’uniforme pulita che teneva sempre pronta dietro i cespugli di mirtilli, quando sentì qualcosa muoversi.
Rallentò, si voltò e vide il re dirigersi verso il giardino della regina. Lo seguivano guardie e servi, nonché due guaritori nelle loro caratteristiche vesti marroni.
Quello sì che era strano. Di rado il re lasciava le sue stanze, e non entrava mai nel giardino della regina.
Mai.
Quando Vivia ebbe raggiunto le mura ricoperte d’edera, ogni componente del seguito aveva già preso posto all’esterno e il re, la cui sedia a rotelle era spinta da Ratto, era già entrato nel giardino.
Ratto uscì in tutta fretta dal cancello. Evitò lo sguardo della principessa mentre accennava un inchino sgraziato, e lei evitò il suo mentre correva dentro.
Il re le dava le spalle, seduto davanti al laghetto. I capelli bianchi e vaporosi gli coprivano a malapena il cranio e indossava ancora la camicia da notte, cosa che Vivia riteneva inconcepibile alla presenza di tutta quella gente. Proprio il genere di comportamento per cui il sovrano era solito rimproverare sua madre.
La principessa tenne la schiena dritta come l’albero di una nave mentre si avvicinava a Serafin. “Tutto questo è normale” voleva che dicesse il suo corpo. “Qui non c’è nulla di cui preoccuparsi.”
Era una bugia. Il suo corpo mentiva. La sua mente ripercorreva frenetica ogni passo da quando, pochi minuti prima, era uscita dal sottosuolo. Aveva chiuso la botola fino in fondo? I cespugli di mirtilli erano stati riposizionati correttamente? E gli iris, non ne aveva calpestato nessuno per errore, vero?
«Rayet?» chiese il re con voce stridula.
«No, Maestà» rispose lei. «Sono Vivia.»
«Oh, che piacevole sorpresa.» Serafin piegò la testa di lato quel tanto che bastava perché lei scorgesse la forma frastagliata di un orecchio. «Aiutami ad alzarmi.»
«Signore?» chiese lei precipitandosi in avanti e pregando che non tentasse di farlo da solo. «È sicuro che sia prudente?»
Lui sollevò lo sguardo.
La principessa nascose a fatica lo sgomento. Nel buio degli appartamenti reali, non si era accorta di quanto fosse diventato giallastro il volto del sovrano, né di come si fossero infossati i suoi occhi.
«Voglio sedermi sulla panchina di Jana» le spiegò lui. Quando però Vivia non accennò ad aiutarlo, ringhiò: «Subito». Il corpo poteva essere sofferente, ma lo spirito conservava la collera dei Nihar.
Lei gli sorresse la schiena con una mano. Lui sibilò per il dolore, socchiudendo gli occhi. “Uno scheletro” pensò la principessa. Sotto le dita sentiva solo ossa.
La vergogna tornò a montare in lei. La soluzione per risanare suo padre forse era proprio sotto di loro. Non poteva negargliela.
Gli avrebbe parlato del lago. Certo che l’avrebbe fatto.
Dopo quattro passi malfermi, arrivarono alla panchina. Era lurida, ma quando Vivia provò a spazzare via lo strato di terra, semi e pollini, Serafin le mormorò di lasciar stare.
Una volta seduto, però, lei si accorse della sua espressione. Delle sue labbra tirate, delle narici frementi.
All’inizio pensò che sulla panchina fosse rimasto dello sporco. Poi vide che gli occhi del vecchio erano fissi sulla sua uniforme. «Non porti ancora la giacca da ammiraglio?»
«Non ho avuto tempo» mormorò. «Prima di sera mi procurerò una giacca grigia.»
«Oh, a me non importa» replicò lui con un movimento brusco delle spalle. «Mi preoccupo solo per te, Vivia. I vizer ti daranno della “sciatta” e la servitù dirà che sei tale e quale a tua madre. E non è quello che vogliamo, vero?»
«No» ammise la principessa, anche se non poté fare a meno di pensare che in realtà era lui a sembrare sciatto… lui quello che aveva l’aria di essere un po’ “disturbato”.
«Ci sono notizie sulla morte di Merik?» chiese il re, distogliendo finalmente lo sguardo da lei e tornando a osservare il laghetto. «Non sa...