Benedetto sia il padre
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Benedetto sia il padre

  1. 240 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Benedetto sia il padre

Informazioni su questo libro

Quanto di quel che abbiamo vissuto da bambini ci rimane attaccato alla pelle? Ci si può salvare dal male che abbiamo respirato crescendo?

Rosa è nata nel quartiere San Nicola, il più antico e malfamato di Bari, un affollarsi di case bianche solcate da vichi stretti che corrono verso il mare, un posto dove la violenza "ti veniva cucita addosso non appena venivi al mondo". E a insegnarla a lei e ai suoi fratelli è stato il padre, soprannominato da tutti Faccia d'angelo per la finezza dei lineamenti, il portamento elegante e i denti bianchissimi; tanto quanto nera - " gniera gniera come un pozzo profondo" - aveva l'anima.

Faccia d'angelo ha riversato sui figli e soprattutto sulla moglie - una donna orgogliosa ma fragilissima, consumata dall'amore e dal desiderio che la tenevano legata a lui - la sua furia cieca, l'altalena dei suoi umori, tutte le sue menzogne e tradimenti.

Ma Rosa è convinta di essersi salvata: ha incontrato Marco, ha creduto di riconoscere in lui un profugo come lei, è fuggita a Roma con lui, ha persino storpiato il proprio nome. Oggi, però, mentre il suo matrimonio sta naufragando, riceve la telefonata più difficile, quella davanti alla quale non può più sottrarsi alla memoria. Ed è costretta ad affrontare il viaggio a ritroso, verso la sua terra e la sua adolescenza, alla ricerca delle radici dell'odio per il padre ma anche di quelle del desiderio, scoperto attraverso l'amicizia proibita con una prostituta e l'attrazione segreta per un uomo più grande. E, ancora, alla ricerca del coraggio per liberarsi finalmente da un'eredità oscura e difficilissima da estirpare.

Rosa Ventrella ha scritto un romanzo coraggioso, animato dalla volontà di smascherare la violenza che affonda le sue radici, dure e nodose come quelle degli olivi, nella storia di tante famiglie. Ma, con la sua lingua capace di dolcezza e ferocia, ha saputo mettere in scena a ogni pagina l'istinto vitale, la capacità di perdonare e rinascere.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
Print ISBN
9788804736004
eBook ISBN
9788835708339

LIMBO

Ci resta sempre in fondo al cuore il rimpianto di un’ora,
di un’estate,
di un fuggevole istante
in cui la giovinezza si schiude come una gemma.
IRÈNE NÉMIROVSKY

1

Era l’estate del 1978. Il terzo trasloco.
«Questo sarà l’ultimo» aveva sentenziato papà. Era una frase che diceva sempre quando l’ansia del cambiamento lo prendeva. Avevo imparato a interpretarne i segnali, il modo vorticoso in cui girava intorno al tavolo, si fermava poi tornava indietro per ripercorrere quel moto circolare dal principio. Gli occhi rugginosi dell’insofferenza scrutavano gli angoli della casa, andavano alla ricerca di difetti insopportabili. Per un po’ non parlava, covava dentro il fuoco, aspettando solo il momento in cui avrebbe eruttato. All’inizio pensavo fosse colpa delle case. Anch’io odiavo la nostra prima casa, i suoi soffitti a volta altissimi che anziché trasmettermi una sensazione di ampiezza e facilitarmi il respiro, mi incutevano un terrore claustrofobico. Di notte vedevo pipistrelli e uomini dalla testa mozzata. Mi infilavo sotto le coperte e strizzavo forte gli occhi, in attesa che, da un istante all’altro, un lungo artiglio venisse ad agguantarmi. Non raccontavo a nessuno delle mie visioni. Parlavo poco ma ero brava ad ascoltare. A scuola questa dote mi consentiva di apprendere meglio dei miei compagni.
«Rosa, sei una spugna» mi diceva alle elementari la maestra. Immagazzinavo ogni parola e poi la tiravo fuori all’occorrenza, usando i termini forbiti che di tanto in tanto la maestra Imperiale dispensava durante le lezioni. La mia parola preferita era “pusillanime”: irresoluto, rinunciatario. Mi sembrava che calzasse a pennello su di lui, mio padre. Tutte le volte che lasciava un lavoro per un altro, quella parola mi ritornava sulle labbra. Non penso di essere nata con il dono dell’ascolto, penso piuttosto di averlo appreso e sperimentato nel tempo della mia infanzia, un esercizio dell’anima grazie al quale avevo imparato non soltanto ad ascoltare la voce ma anche i silenzi: l’orecchio alla porta della camera padronale, il battito del cuore accelerato, un filo unico che legava la mia vita a quella di mia madre. Se soffriva lei, soffrivo io.
Quando papà si disse intenzionato a lasciare quella casa degli orrori ne fui felice. Pensai persino che le strane creature che abitavano le mie notti si facessero vive anche davanti a lui. Ci trasferimmo a casa di nonno Antonio. Era vedovo e gli faceva piacere trascorrere più tempo con sua figlia e i suoi nipoti. La mamma, dal canto suo, viveva quei cambiamenti con la rinnovata speranza che tutto potesse aggiustarsi come una bambola rotta. Quando papà sentiva addosso quell’ansia strana lei provava ad alzare la voce, ma ogni tentativo era vano. Sbarcava il lunario con qualche lavoretto di sartoria, bussando a ogni porta di Bari vecchia. Chiedeva a tutti se avessero pantaloni da rammendare, vestitini per bambini appena nati da confezionare a maglia. Qualunque cosa le permettesse di sfamare i suoi figli.
Con il tempo, quell’insofferenza aveva riagguantato mio padre e la casa del nonno si era trasformata in un luogo detestabile. Forse – pensavo – i corpi senza testa e i pipistrelli avevano ripreso a fargli visita e di nuovo doveva scappare. Considerava la casa del nonno poco più di un dormitorio, un ammasso sgangherato di mattoni sbeccati e di muri scrostati dalla forza del vento salmastro. A dirla tutta la chiamava “il cesso”, definizione che portava tutte le volte la mamma sull’orlo del pianto. Una specie di tugurio che puzzava di marcio, di piscio e di pesce andato a male, probabilmente perché a pochi metri si teneva il mercato ittico. Forse invece erano quelle creature venute da chissà quale mondo nero e malvagio a iniettargli nel sangue il veleno che lo alimentava. Mi auguravo che nessuno dei miei fratelli diventasse come mio padre. Una carne che non si doveva perpetuare. Papà si chiamava Giuseppe. Un padre bellissimo, di una bellezza rara a trovarsi dalle mie parti. Una bellezza che non si piegava ad alcun altruismo e a nessuna indulgenza. Amabile e irresistibile, come solo le cose malvagie sanno essere.
Forse non era neanche colpa sua. Forse erano i tempi a trasformare le persone in qualcosa di diverso dagli adulti perfetti che una vita differente avrebbe potuto forgiare. Come tanti ragazzini della sua età, era cresciuto in balia di se stesso, quasi analfabeta e con tante pretese. Raccontava sempre di quando, da bambino, sua madre aveva tentato di indirizzarlo verso gli studi e di trasmettergli l’amore per la scuola. Sognava che diventasse una persona importante. Bello com’era, se Giuseppe fosse stato dotato anche di intelligenza e soprattutto di cultura, avrebbe meritato la benevolenza e il rispetto di chiunque. Quel figlio, però, non aveva voluto saperne degli ammonimenti materni. Marinava la scuola per inseguire gli altri discoli come lui per le chianche di quella Bari normanna che gli sembrava una babele di divertimenti. La pelle brunita dal sole, i capelli schiariti dalla salsedine: erano belli quei bambini, diceva sempre Giuseppe, ma lui lo era di più. La consapevolezza di quel dono, di quel privilegio, lo aveva reso spavaldo e fiero.
La sera prima che lasciassimo la casa del nonno avevo spiato la mamma mentre si guardava allo specchio, in camera da letto. Si era osservata a lungo, attentamente: il volto allungato e bianco, i capelli con la tinta da rifare, sbiaditi e sciupati, che le scendevano sul collo e lungo le guance, in lingue separate e tese, sudate. Canticchiava a voce bassa Ma che freddo fa, pronunciando alcuni versi e poi limitandosi a intonare la musica a denti stretti. Era uno dei suoi pezzi preferiti e piaceva anche a me. Lo avevo imparato da lei. Sapevo cosa significava quando quella canzone le veniva in soccorso: ricominciava a sperare. Era così per mia madre: sprofondava giù, in un substrato velenoso e fetido, ma poi – non si sa come – ritornava in superficie.
Quando io, Salvatore e Michele – i miei fratelli – eravamo andati a dormire, ci aveva rassicurati dalla soglia: «State tranquilli bambini, nella casa nuova staremo benissimo». Dietro di lei, nonno Antonio con le mani nelle tasche e gli occhi lucidi. Anche quelli della mamma lo erano, carichi di un’acquerugiola trattenuta a forza. La bocca però sorrideva. Due facce stampate sulla stessa carne, per metà gioia e per metà dolore. Avrei voluto dirle che anche quella volta non sarebbe durata, ma non lo feci. Papà invece era felice di andarsene. Aveva trovato un nuovo lavoro: cuciva reti da pesca. Questo poteva significare che per un lasso di tempo sarebbe stato di buon umore. Quindi anche la mamma lo sarebbe stata, e per la legge che concatenava lo stato d’animo di ogni componente della famiglia, tutti gli altri lo sarebbero stati. Mio padre era il puntello intorno a cui ruotava il destino della famiglia Abbinante. I giorni tristi e i giorni grigi inanellati alle sue altalene umorali.
«Rosa, ricordati la cesta di vimini che ti ha regalato nonna. E lo scatolone con i vestiti di Michele, rimasto in cantina.» Regnava un gran trambusto in casa del nonno dopo la nostra permanenza, e si faceva fatica a ritrovare quel poco che apparteneva agli Abbinante. Nonno Antonio aspettava fuori, pronto a caricare le ultime cose su un carretto che un suo vicino gli aveva prestato. Anche il carretto spandeva il terribile odore che contrassegnava la sua casa, perché Tanino, il vicino, lo usava per trascinare pesci e molluschi dal porticciolo al mercato. Il nonno sembrava non badare più alla puzza. Certe cose, con il tempo, finiscono per infistolirsi sotto la pelle, diventando esse stesse carne, e te le porti dietro senza renderti conto che agli altri possono dare fastidio.
I traslochi erano un affare di grande interesse per il vicinato e per la gente del rione. Bari vecchia in fondo era un piccolo mondo dentro un grande mondo, uno di quei paesaggi racchiusi in una sfera di cristallo. E mentre sul lungomare sorgevano palazzi nuovi e fieri, dalle facciate chiare e i lineamenti rigidi, lei rimaneva uno scrigno segreto, vecchio e infranto. Consegnavo gli ultimi pacchi al nonno e mi concessi una rapida occhiata alle figure assiepate intorno al carretto. Riconobbi Tanino, intento a verificare che il peso non lo scalfisse. Intravidi sua moglie, la piccola testa fare capolino da dietro una figura intenta a rovistare tra i resti di alcuni rifiuti che le ruote del carro avevano sparso qua e là. Era luglio. Le massaie accaldate si sventolavano il collo con ventagli di cartone, mentre alcuni uomini si aggiravano intorno al carretto in canottiera. Più in là, sbirciai il lungo viso cavallino di un uomo sulla quarantina. Una coppola sulla testa per proteggersi dal sole e una faccia scura scura. Più scura di quella di mio padre. Mi stava osservando. D’istinto abbassai lo sguardo, ma poi la curiosità mi spinse ad alzare di nuovo gli occhi. Era una faccia qualunque, senza lusinga e senza niente da dire. Elementare, come il disegno della casa o dell’albero nell’abbecedario. Notai che era ancora lì, con gli occhi fissi su di me. Non erano più concentrati però su un punto in particolare, piuttosto oscillavano con movimenti convulsi, ora sui piedi, ora sul viso, infine sulle mani. Arrossii, non ero abituata a occhiate del genere. Mi guardai anche intorno perché non volevo che altri notassero quella smania, ma tutti parevano assorti nel loro fabulare. La moglie di Tanino parlava con il pescivendolo, nonno Antonio con un paio di comari assise su una sedia impagliata davanti all’uscio di casa. A nessuno infatti veniva voglia di languire immerso nell’afa di quei tuguri. Il luogo dei discorsi, dove si discorreva di ricordi, di affanni e di piccole conquiste, dove si progettavano addirittura matrimoni, era in modo indiscusso la strada. Erano tutti là, spuntavano dalle case di calce, covi di straccioni e moribondi, di mosche carognose, di marciume e decadenza. Tutti là, a gustarsi lo spettacolo della famiglia Abbinante che traslocava ancora. A fare commenti, forse, su quel che Giuseppe avrebbe combinato alla prossima occasione. E in mezzo a quel vociare sommesso, a quel bombire di api che giungeva alle mie orecchie come un rumore di passi da lontano, quella faccia qualunque continuava a scrutarmi e a tradire una curiosità e un interesse che mi lusingavano e terrorizzavano nello stesso tempo.
«Rosa, è meglio se rientri in casa» mi ammonì dolcemente la mamma. E nel tono c’era una nota di avvertimento. I suoi occhi del colore delle ortiche stavano scrutando l’uomo dalla faccia cavallina, lo avevano scovato. Difficile dire se fosse bello o brutto. Il mento lungo e spigoloso gli conferiva un aspetto selvaggio che costituiva anche il suo strano fascino. La carne mi tremò. E al posto della pelle sentii piume. Ero leggera, come l’aria resa rarefatta dal vento del favonio. Non mi capacitavo che guardasse proprio me. Ero magra, ossa aguzze, pelle morbidissima. Scura come quella di mio padre. E due occhi grandi che avevano imparato ad annotare ogni cosa. Mi scrutò per un’ultima volta, e per qualche istante fummo occhi negli occhi.
«È forestiero» bisbigliò comare Nannina, chinandosi verso l’orecchio della mamma. «Viene dall’entroterra. Un contadino» esclamò alla fine, alzando il tono di voce. Un tono sprezzante, accentuato dal gesto di sollevare il mento e spingere il naso puntuto verso l’alto. La gente di mare non amava granché quelli delle campagne. Erano gretti e burberi. La mamma fece solo schioccare la lingua, poi mi afferrò il braccio e mi fece entrare. Forse lei aveva capito ogni cosa, avvertendo in quegli occhi piccoli e incavati intenti subdoli che non potevano portare a niente di buono. Vidi che Tanino controllava che le ruote fossero in buone condizioni, e subito dopo nonno Antonio si incamminò in direzione della nostra nuova casa, un paio di isolati più in là, verso San Nicola. Una volta dentro, abbracciai Michele e Salvo, con la mente annebbiata da decine di pensieri. Confusi e grigi. Una sensazione molesta e spinosa mi pungeva la pancia, tra le labbra assaporavo uno strano gusto metallico. Michele si lasciò abbracciare, ma Salvatore si divincolò rapido dalla mia stretta.
«Non sono una femminuccia» brontolò, passandosi una mano sulla faccia. Ma i suoi occhi nascondevano qualcosa, un baluginio acquoso simile a una lacrima trattenuta. Capii che tutti, in modo più o meno consapevole, eravamo stati punti dallo stesso interrogativo. Quanto tempo sarebbe andata avanti questa volta? Per quanti mesi Giuseppe Abbinante avrebbe continuato a tessere reti da pesca, prima che quell’insofferenza, quell’inestinguibile desiderio di altrove lo costringessero a un nuovo colpo di testa? Dove saremmo finiti alla nuova occasione? La verità era che avevo paura, anche se non riuscivo a confessarlo ad alta voce. Quella parola – paura – si staccò dalla confusione delle mie emozioni per un attimo. La vedevo, la potevo toccare e rigirare tra le mani, come un vaso, un bicchiere, un oggetto che puoi osservare in tutte le sue parti. Senza volerlo, una lacrima, una soltanto, prese a rigarmi la guancia, mentre la stretta su Michele aumentava, e il suo viso paffuto trovava rifugio nel mio grembo, le sue piccole mani afferravano i miei capelli che, indisciplinati e scuri, erano più materni per lui della nostra stessa madre.
«Andrà tutto bene» gli mormorai chinandomi verso la sua chioma riccioluta.
Michele si abbandonò prima a uno strano gemito, come stesse risucchiando aria. In quel momento sembrava più piccolo dei suoi cinque anni. «Non è vero» bisbigliò subito dopo, e sentii il vestito bagnato di saliva e lacrime.
«Certo che è vero» lo rassicurai prendendo la sua faccia tra le mani e costringendolo a guardarmi, «andrà tutto bene. Ogni cosa al suo posto.»

2

Era stata della mamma l’idea di passare a salutare nostro padre al suo nuovo posto di lavoro. Cucire reti da pesca poteva considerarsi affare da donne, ma molti padri di famiglia si procuravano da vivere dedicandosi a quell’arte secolare. Il papà aveva imparato a farlo da piccolo per merito di sua nonna, che doveva essere stata una donna davvero notevole, visto che era riuscita a lasciare il seme di qualcosa in uno come lui. L’ansa di San Vito si poteva definire un incredibile luogo di incontri, crocicchio millenario, porta d’ingresso verso il mio quartiere, il San Nicola, la parte più antica di Bari. Un affollarsi di case minute e bianche.
Per quella visita a sorpresa, la mamma aveva rinnovato il suo abbigliamento, concedendosi una gonna a fiori acquistata con la prima settimana di paga del papà. Le arrivava ai polpacci, era stretta sui fianchi ed esaltava la sua vita snella. Si vestì in fretta, annaspando per trovare le calze sottili di nylon e il rossetto che non usava mai. Un’occhiata rapida allo specchio fumé della camera da letto. Era bella, e gli occhi di quel verde infinito avevano il potere di illuminarle il volto. Ho sempre pensato che ci fosse una luce speciale dentro di lei, mentre al contrario io mi sono sempre sentita opaca, refrattaria a ogni slancio. Cupa come la pece.
«Vedrete come sarà contento vostro padre. Gli faremo una bella sorpresa.»
Si fermò un altro istante, questa volta davanti al secrétaire dove stava la foto del loro matrimonio. Si fece contemplativa e io credevo di sapere il perché. Ogni volta che la testa le giocava il brutto tiro di soppesare quella foto, il come e il quando era diventata la signora Abbinante, di tutto il resto e di ogni giorno della sua vita dimenticava il fango e la ferocia, riandando a quel...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Benedetto sia il padre
  4. LIMBO
  5. FUORI DAL LIMBO
  6. RUGGINE
  7. Ringraziamenti
  8. Copyright