Il principe del mondo
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Il principe del mondo

  1. 300 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il principe del mondo

Informazioni su questo libro

New York, ottobre 1927 Sono i giorni in cui Sam Warner, il più autorevole dei Warner Bros, con l'introduzione del sonoro, sta cambiando per sempre la storia del cinema e della cultura del Novecento.

Assistente del grande produttore cinematografico è il giovane Jake Singer, che dopo la morte improvvisa di Warner passerà al servizio di Joe Kennedy, il capostipite della più importante famiglia americana del XX secolo.

Kennedy è un uomo controverso, duro, discusso, smodatamente ambizioso e disposto a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi. Ma è anche intelligentissimo, visionario e coraggioso. La sua, e quella dei suoi figli, sarà una storia leggendaria e drammatica, di cui Jake Singer è testimone privilegiato e narratore, e col suo racconto, serrato e avvincente, ci restituisce luci, ombre, atmosfere e protagonisti di una famiglia che è diventata mito.

Con Il principe del mondo Antonio Monda continua la sua ricostruzione romanzesca di New York, la "capitale del mondo", la città dove tutto accade, il cuore pulsante del secolo americano.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
Print ISBN
9788804735984
eBook ISBN
9788835708032

1

Alla fine lo indossarono tutti, lo smoking, a costo di affittarlo.
L’invito l’aveva scritto personalmente Sam Warner, con la sua calligrafia minuta, incomprensibile, era una delle tante manifestazioni di potere.
Lo stava esaminando per l’ennesima volta, e quando si rese conto che non riuscivo a decifrarlo, mi spiegò, con insofferenza: «“Cravatta Nera” deve essere stampato con lettere a sbalzo».
Fece una pausa. «D’oro» sottolineò, poi aggiunse: «Devi farlo sognare, il pubblico, sempre».
Conosceva come nessuno i desideri degli spettatori, perché erano anche i suoi, il pubblico non era una massa informe, ma una comunità di individui, ognuno con una personalità distinta: «Dobbiamo parlare a ogni singolo spettatore, saranno tutti felici di far parte di un’esperienza collettiva, ma ognuno, nel proprio intimo, crederà di viverla in maniera diversa, e migliore di tutti gli altri».
«Yeder»1 diceva, con enfasi, poi concludeva con un sorriso: «Siamo venditori di illusioni, non dimenticarlo mai, ma questo non è un male, anzi: siamo dei benefattori».
Era tormentato da qualche giorno da un terribile mal di testa, ma la sua attenzione era tutta per la prima di The Jazz Singer, non aveva tempo per pensare ai dottori. Nell’ultima settimana era rimasto a dormire in ufficio: controllava e ricontrollava ogni minimo dettaglio, e pretendeva che io fossi a disposizione dalle sette del mattino. Riteneva che fosse un privilegio lavorare al suo fianco, e aveva ragione, mai come in quel momento.
La stanchezza e il dolore continuo alle tempie lo rendevano irritabile al minimo disguido, ma sorrideva come un bambino mentre esaminava i diversi tipi di cartoncino che gli sottoponevo per l’invito. «Non badare a spese» mi aveva intimato, «ogni invitato dovrà sentirsi un privilegiato. E capire che i riti si rispettano, sempre.»
Parlava a fatica, ma nel suo sguardo c’era la gioia di chi pregustava il trionfo. Lo disse anche in yiddish, “sempre” era la sua parola preferita: «Alle mohl».
Poi si mise a controllare il poster del film, nel quale Al Jolson cantava in ginocchio sul palcoscenico di un grande teatro. Aveva il volto dipinto di nero e invitava il pubblico a tributargli il successo per cui aveva abbandonato le proprie tradizioni. Anzi, a veder bene, lo supplicava.
Non c’era nulla, di quell’evento, che i suoi fratelli condividessero, ma era impossibile dissuadere Sam quando si metteva in mente una cosa.
Aveva scommesso sulla Vitaphone, la tecnologia che avrebbe rivoluzionato il mondo, e ne aveva acquistato il brevetto dal capo della Paramount, Adolph Zukor, nonostante il parere contrario di tutti i fratelli. «Non c’è futuro per le chiacchiere al cinema» gli diceva Harry, «la settima arte è nata e deve rimanere muta.»
Anche Jack scuoteva la testa perplesso, era convinto che quella fissazione per il sonoro li avrebbe ridotti sul lastrico. «Bastano le facce» ripeteva, «le facce», e alzava la voce, dandosi un buffetto sulle guance. Poi concludeva sconsolato: «Anzi, a volte sono addirittura troppo».
Era stato affidato ad Albert il tentativo di convincere Sam sul piano artistico, un gioco delle parti ripetuto infinite volte, e lui ce l’aveva messa tutta, parlando in modo accorato: «Stai levando il mistero al cinema, Sam, e quindi il suo fascino, a questo hai pensato?». Glielo ripeteva come se stesse commettendo un sacrilegio: «Non bisogna mai dare troppo allo spettatore: lascialo divertire a immaginare il suo film».
Albert era l’unico da cui Sam accettava queste prediche, era il più colto tra i fratelli, e per questo aveva voluto che facesse il tesoriere della società: un modo per tenerlo lontano dal suo campo naturale. Ma quella volta non c’era nulla da fare: The Jazz Singer era diventato il progetto della sua vita, e quindi anche della vita dei fratelli.
«Il sonoro non offrirà solo parole» si infervorava, «ma anche musica, perché la vita è una festa.» Sgranava gli occhi, con la malinconia di chi è costretto a combattere da solo, ma anche la certezza che presto lo avrebbero ringraziato, come tante volte in passato: quello che stava regalando al mondo era la più seducente delle illusioni.
Il film raccontava la storia di un ebreo ortodosso che voleva fare l’artista, e Sam per la prima aveva scelto la data del 6 ottobre, Yom Kippur: «Sarà un elemento pubblicitario in più» spiegava, ma i fratelli erano sempre più sconcertati.
«Questo è un paese protestante, Sam» disse Jack, «rischiamo di chiuderci in un ghetto.»
«La storia di un ebreo ortodosso che si trucca da nero per cantare il jazz mi sembra già un’idea sufficientemente rischiosa» rincarò Albert, e sia Harry che Jack annuirono. A quel punto Sam replicò, irritato: «Allora non avremmo neanche dovuto produrlo. A questo punto dobbiamo giocare sino in fondo».
In realtà aveva deciso tutto lui, ma non sopportava chi era bravo a criticare in ritardo, e, soprattutto, chi non sapeva rischiare: «Con questa mentalità faremmo ancora i ciabattini come nostro padre, accontentandoci del nulla che ci verrebbe elemosinato da chi ha più iniziativa di noi. Vivremmo in un lago tranquillo, di questo potete star certi, sul quale non ha mai soffiato né mai soffierà un alito di vento. E ci accorgeremmo troppo tardi che si tratta di una palude».
Erano rimasti tutti in silenzio, e lui aveva aggiunto: «Questo paese è unico perché è sferzato ogni giorno da due oceani. Pensateci, ogni tanto».
Il dolore alle tempie era diventato intollerabile, e fu costretto a sedersi.
Era riuscito a non alzare la voce, ma concluse con tono avvilito: «Viviamo nel nuovo mondo, Abraham». Usava sempre il vero nome in situazioni come queste.
«Non c’è bisogno di ricordare a tutti, e in ogni momento, che siamo ebrei» replicò improvvisamente Harry, e a quel punto ebbi paura che Sam esplodesse, ma invece si limitò a fissarlo negli occhi senza rispondere. Faceva paura quando non parlava, e Harry abbassò lo sguardo: provai vergogna, per lui.
«La data è decisa e non si torna indietro, spero che vogliate essere alla prima insieme a me» disse, e uscì dalla sala riunioni, chiedendomi di seguirlo.
C’era sempre una grande tensione quando si riunivano tutti insieme, ed io ero l’unico a cui era consentito di assistere: era Sam a imporlo, contro il volere degli altri, e mi chiedeva di conservare gli appunti in un archivio che studiava costantemente. «Con il tempo le cose assumono un altro sapore» mi spiegò il primo giorno di lavoro, «e quando te ne accorgi rimani sorpreso, spaesato, ma poi capisci che quel nuovo sapore è quello della realtà.»
Ero il depositario della sua fiducia, l’unico, e attraverso quegli appunti avevo la responsabilità di fargli assaporare la verità dell’esistenza, o creare almeno il miraggio che fosse possibile comprenderne il senso.
Non ho mai capito cosa trovasse in me, forse l’abnegazione nel lavoro a cui mi ha abituato mio padre, forse scambiava la mia timidezza per riservatezza. O più facilmente il fatto che fossi anch’io ebreo: era l’unico a chiamarmi Jacob, al di fuori della mia famiglia, il nome con cui sono conosciuto nel mondo nuovo è Jake. Solo quando iniziammo a lavorare a The Jazz Singer mi resi conto che la mia storia era simile a quella del protagonista del film, ma tuttavia Sam non fece alcun riferimento alla pellicola, ed era invece curioso di sapere cosa significasse esser parte di una famiglia ortodossa e, soprattutto, cosa comportasse aver rinunciato a quella realtà. Ammesso che sia possibile farlo.
«È come far finta di non avere l’anima» mi disse una volta, e mi chiese di mio padre Avigdor, mite e silenzioso, di nonno Mordecai, ucciso dai cosacchi, e di suo fratello Yitskhok, il macellaio di Radzymin che era andato a letto con tutte le donne del villaggio. Voleva sapere di mia madre Dvorah, che parlava anche per mio padre, e poi delle donne di casa. Riteneva che le parrucche rituali avessero la nobiltà delle corone, poi mi chiese di ripetere tutti i loro nomi: Shoshele, Sarah, Esther, Rachel, Leeba, e Avigal, mia sorella. «Significa gioia del padre» mi spiegò, e io finsi di non saperlo: volevo farlo felice.
Sam non parlava mai con nessuno, di queste cose, me lo confidò dopo essere stato costretto a sdraiarsi sul letto per il mal di testa. «Io li amo, i miei fratelli» disse all’improvviso con un filo di voce, e poi li nominò uno ad uno con il nome con cui erano nati: «Abraham, Hirsch Moses. E Jacob, come te. Fanno i moderni ma hanno lasciato il cuore, e a volte anche il cervello, nel vecchio mondo».
Era pallido, stremato, ma non aveva perso un briciolo della sua passione: «Quanta gente credi che verrebbe alla prima se invece di Sam Warner mi firmassi Szmuel Wonskolaser?». Si sforzò di sorridere, poi concluse: «E sappiamo entrambi che non basta cambiare il nome».
Fece una pausa lunga, poi si appoggiò al mio braccio e riuscì a fatica ad alzarsi. Mi chiese di seguirlo nella sala di proiezione, dove ricontrollò per l’ennesima volta il montaggio del film. «Questo regista è convinto di essere lui a decidere» disse con una risata. «In società si presenta come Alan Crosland: si sente un discendente dei Padri Fondatori e veste come un dandy, ma il suo vero nome è Leib Chanoch e i genitori vendevano pellicce a Lublino. Hanno tentato di fare lo stesso qui, ma questo paese sa essere crudele, e sono finiti in miseria. Nonostante l’umiliazione ha mantenuto l’aria del più ricco del villaggio, perché ha capito che l’apparenza a volte è sostanza. Io glielo consento, perché mi fa anche simpatia, ma da qui a lasciargli le decisioni sul film...» Scosse la testa, con una nuova risata, poi disse che per quella sera avevamo lavorato abbastanza, e mi congedò mettendosi a riposare, almeno per qualche ora, sul letto allestito nel suo ufficio.
1. Yiddish per “ognuno”.

2

Era stato Sam a convincere i fratelli, venti anni prima, a investire nello spettacolo: «Potete levare tutto, alla gente, ma non lo svago: è l’unica cosa per cui ci sarà sempre richiesta».
I fratelli erano riluttanti. «È un mondo volatile e pieno di persone vuote e arroganti» aveva detto Harry: era quello che pensava anche Sam, e sapeva che era un argomento valido.
Ma come sempre andò avanti per la sua strada: «Basta saper gestire i guitti che ne fanno parte, Hirsch. Non dirmi che non ne abbiamo i mezzi, siamo sopravvissuti ai pogrom, possiamo farci mettere in scacco da un gruppo di artisti?».
Mai come in quella occasione l’uso del nome ebraico era stato convincente: «Lo spettacolo è quello che vogliamo tutti, Hirsch, perché la vita che vediamo rappresentata, almeno quella, sembra che abbia una logica. Altrimenti, per trovare qualcosa di meno illusorio devi andare in direzione opposta: l’unica altra attività che avrà sempre clienti è quella delle pompe funebri. Ecco, quella è un’altra cosa certa, Hirsch, ma ammetterai che è un po’ meno glamour».
Li aveva fatti diventare ricchi e potenti, e tra i pochi a essere ammessi nei club wasp dove gli ebrei non erano accettati. Szmuel Wonskolaser sapeva bene di vivere in un paese protestante, anzi puritano, ma aveva capito molto prima dei fratelli che in questo mondo nuovo il successo è in grado di abbattere ogni barriera. Li aveva trasformati in americani, almeno agli occhi degli altri, ma proprio quel successo aveva posto i fratelli in una situazione di costante soggezione nei suoi confronti, e ogni volta che li vedevo insieme capivo come non esista nulla di più imperdonabile della gratitudine.
Era il terzo, in ordine di età, ma il più autorevole: te ne accorgevi dal fatto che non alzava mai la voce, e che gli altri non consideravano conclusa una discussione finché lui non avesse preso la parola. Anche quando contestavano, anzi detestavano le sue idee. E forse, in cuor loro, detestavano anche lui.
Amava parlare yiddish, Sam, proprio perché aveva voluto chiamarsi Warner: nulla, neanche quella terra meravigliosa che li aveva accolti, avrebbe cambiato la loro storia e la loro realtà. Ed era l’unico della famiglia che aveva conservato quella tradizione.
La prima volta che si erano riuniti per discutere il progetto del Jazz Singer aveva chiuso la discussione con le parole: «Men tor nisht moyre hobn fun vus vet zayn».1 I fratelli si limitarono ad annuire, e lui sorrise quando si rese conto che avevo compreso.
Ci credeva sino in fondo nel cinema sonoro, ma era prima di tutto un uomo d’affari: aveva acquistato la Vitaphone dalla Paramount sull’orlo del fallimento per la morte di Rodolfo Valentino. E Adolph Zukor, che ci credeva quanto lui, aveva dovuto svendere il futuro.
Era giunto il momento di seguire la liturgia e celebrare il rito: io ero il primo responsabile dei dettagli che avrebbero reso la serata indimenticabile.
1. “Non possiamo aver paura del futuro.”

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il principe del mondo
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43
  47. 44
  48. 45
  49. 46
  50. 47
  51. 48
  52. 49
  53. 50
  54. 51
  55. 52
  56. 53
  57. 54
  58. 55
  59. 56
  60. Personaggi della saga. (in corsivo quelli realmente esistiti)
  61. Nota dell’autore
  62. Ringraziamenti
  63. Copyright