Il bambino di polvere
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Il bambino di polvere

  1. 612 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il bambino di polvere

Informazioni su questo libro

Syffo, Merlo, Cardù e Brindilla, quattro piccoli orfani, crescono nel podere della vedova Tarron, lungo le rive del Brune. Il loro mondo è "un'entità caotica da domare giorno per giorno", l'unica cosa su cui possono contare è una ciotola di minestra di rape la sera. Monelli selvaggi, costretti a lottare e a ingegnarsi in mille modi per sopravvivere, a modo loro sono felici.

Fino a un soleggiato giorno d'estate dell'anno 621, quando a Corna-Brune giunge la notizia della morte del re Bai Solistero, primo e ultimo sovrano del Regno-Unificato. Ai quattro ragazzini sembra un evento lontano, che non potrà influire sulle loro vite. Ma anche loro si rendono presto conto che l'atmosfera in città si è fatta più cupa e violenta.

È in questo clima che Syffo, sorpreso a rubare una frittella, per salvarsi si trova costretto a lavorare per il temutissimo Hesse, prima-lama dell'Alto-Brune. Sarà di volta in volta servitore, spia, apprendista chirurgo, conoscerà il carcere, la fuga, il tradimento. Accusato ingiustamente di stregoneria e di omicidio, non avrà che una scelta: abbracciare la dura vita del guerriero.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
Print ISBN
9788804725459
eBook ISBN
9788835707110
LIBRO QUARTO

Passalaigua

Dopo che avemmo fatto rifornimento presso la colonia del lago-grande e che ebbi reclutato una guida tra gli abitanti del posto, presi la decisione di non accostare immediatamente sull’argine nord, come esigeva il mio mandato. I pescatori locali mi parlarono di grandi vestigia simili a quelle vicino alle quali s’innalza la loro palizzata, la cui descrizione mi ha subito ricordato l’architettura del Frangi-Flutti del bacino di Sudella e, allo stesso tempo, quella del faro di Capo-Corto. Abbiamo perciò proseguito in barca risalendo il fiume, cosa che ci valse un ritardo di una settimana e la perdita di un altro cavallo a causa della malattia, ma è mia soddisfazione informarVi che la deviazione ne valeva la pena. A sette giorni a monte del lago, il fiume è attraversato da un immenso ponte fortificato, le cui dimensioni sono tali che farei fatica a descriverle davanti a Voi. L’edificio è costituito da blocchi di pietra nera le cui misure sono a dir poco impressionanti e il cui impiego deve aver avuto bisogno di un qualche miracolo d’ingegneria. Tre carrette ci passerebbero, una accanto all’altra, e anche la più grande delle nostre navi riuscirebbe a vogare sotto i suoi archi bui. Le dieci torri che adornano il ponte sono alte una quarantina di aune e invase dalla vegetazione, ma non ho dubbi che pochi anni di fatica gli farebbero ritrovare tutta la maestosità d’un tempo. Secondo le mie stime, la lunghezza totale di quel venerabile monumento è di novecentottanta aune. La dimensione stessa delle porte e delle feritoie lascia pensare che non siano state concepite per l’uso degli uomini, e altrettanto vale per le altre grandi vestigia che il Consiglio ha repertoriato sulla penisola. Chi sono i giganti che hanno eretto quest’edificio non saprei dirlo. I segni ne sono stati cancellati e il complesso sembra essere disertato da lunghissimi tempi. Abbiamo montato il nostro campo base all’ombra di queste rovine e, come previsto, inizieremo l’esplorazione del territorio circostante nei prossimi giorni. Stando alle congetture che posso avanzare per il momento, il rilievo a est del fiume è costituito da una serie di vaste pianure e colline, che si stendono a perdita d’occhio fino alle montagne lontane. Il terreno mi sembra essere di un’ottima qualità, nero e ferace, coperto da un’erba grassa potenzialmente apprezzabile dal bestiame. Vi invierò un rapporto più dettagliato nel corso delle lune che verranno, ma la mia prima impressione è eccellente e, come tale, mi sembra che la regione offra un suolo fertile e accogliente, adatto all’insediamento di una nuova colonia.
Jeremia Raleno, cartografo, estratto di un rapporto preliminare indirizzato al Consiglio. Riguardo all’esplorazione della Porta di Ponente e della regione di Borra, nel 56° anno prima dell’introduzione del calendario di Capo-Corto. Tradotto dal parso antico.
Mi interrogo ancora su ciò che sono sul punto di intraprendere e, nonostante tutto, mi sorprendo talvolta a credere che le generazioni future sapranno portare sulla mia decisione uno sguardo clemente. Le mie genti muoiono, i miei sciaiffi temono oramai dei sollevamenti e la follia sembra essersi definitivamente impossessata del primate Collinna, dal quale non mi aspetto più alcun aiuto. Il nostro ultimo colloquio ha avuto come risultato il mio licenziamento, delle lunghe prediche deliranti e la minaccia di strapparmi il titolo, le terre e le viscere. Per molto tempo, ho meditato intorno ai giuramenti fatti a Collinna, che ho onorato per tutti questi anni e che la mia famiglia onora dai tempi dell’insediamento del suo casato. Come può la mia fedeltà andare ancora a quest’uomo che non mi offre nient’altro che fame, che mi schiaccia sotto un’imposta di guerra quando non c’è nessuna guerra in corso e il cui spirito vacilla periodicamente sull’orlo della demenza? La risposta mi sembra ormai chiara. Non può più farlo. (…) Molondo è tornato oggi da Capo-Corto. Ormai sono passate due lune da quando l’ho mandato a rovistare negli archivi del Faro in tutta segretezza ma, adesso che ho finalmente il documento tra le mani, la cosa mi sembra più una sconfitta che una vittoria. Mi sembra assurdo aver pensato di potermi servire di una cagione così debole e così banale per giustificare un tradimento. E tuttavia. La carta cade a pezzi ma la scrittura è chiara e il sigillo, per quanto liso, non potrà essere contestato. Nell’anno 173, il mio avo Giustavo, primo vassallo di Passalaigua e uomo-libero dei Collinna, fu unito in matrimonio a Felucia Pallae, cugina del primate di Borra. (…) In virtù delle antiche leggi che permettevano di ereditare titoli e beni tramite la figlia femmina, la mia intenzione è di cedere legittimamente il mio cantone a Borra, di prestare giuramento ai Corgiogo e di salvare i miei sudditi da un mostro tormentato che li abbandona alla carestia. Borra mi ha assicurato di sostenere la mia posizione quando bisognerà esprimersi alla tavola rotonda. Il Signore Corgiogo mi promette ugualmente dei rinforzi rapidi per aiutarmi a tenere la città e ancora più uomini per la primavera successiva. Collinna avrà finalmente la guerra che ha tanto sognato, Passalaigua ne sarà il fronte, ma i miei sciaiffi sono dalla mia parte. A ogni modo, non abbiamo più scelta e il grano borrese è oramai la nostra ultima speranza per superare un altro inverno.
Tristofo Cavaglio, tredicesimo vassallo del cantone di Passalaigua, estratto del suo diario. Riguardante l’annessione del cantone da parte della contea di Borra che avvenne dopo vent’anni di conflitti durante la Prima guerra del Passo. Datato al 487° anno del calendario di Capo-Corto.
Un popolo libero non deve cercare conforto nel sangue versato, che sia il suo o quello dello straniero. Ci vantiamo di aver spezzato le nostre catene, ma non vedo in tutto questo nient’altro che vanità e accecamento. Da questo punto di vista, non valiamo di più dei nostri vicini e coloro che affermano il contrario hanno già perso la ragione. Una catena è una catena, che abbia il peso del metallo freddo o la morbidezza carezzevole della seta. Vini dolci di Sudella e di Vaas! Cristalleria bigarrea di Ascolia! Spezie muschiate dell’Astro-Terra! Pepi incantevoli delle Cinque-Città! Vi dichiaro veleni, vi dichiaro catene. Per questi piaceri i nostri figli muoiono e uccidono e l’oro sacrificale che portano indietro non cimenta la nostra libertà, ma ci sottomette a dei lussi che non ci appartengono.
Walfhere, filosofo varo, estratto di un discorso pubblico proferito davanti al Peopperund di Varheld, nel corso del quale denunciò il servizio mercenario dei vaïdrogan e stabilì le basi della Naudenekke, la filosofia degli asceti vari. Datato al 516° anno del calendario di Capo-Corto. Tradotto dal varo.

47.

Il caos che durante l’anno dei miei dieci anni agitava le contee del Brune lasciava presagire un avvenire violento e tumultuoso per i suoi abitanti. Borra e Collinna erano finite a farsi la guerra contendendosi il cantone di Passalaigua e questo primo ritorno agli antichi conflitti, risalenti all’epoca del re Bai, polarizzava tanto gli animi dei nobili quanto quelli dei contadini. Nel corso di tavole rotonde sempre più burrascose, soltanto un pugno di primati faceva ancora appello all’unità, tra questi c’erano Bardo il Giovane, Servenzio Damfré di Copri-Colle e dama Cerezza Floranzia di Ventosolo. Quando non si schieravano apertamente, gli altri aristocratici avevano deciso di ripiegarsi sulle proprie frontiere e sui propri problemi, che esistevano già in numero sufficiente perché essi non si sobbarcassero anche di quelli degli altri. In realtà, Passalaigua non era altro che la punta visibile di un lungo e macabro carnevale, fatto di rancori e di antichi screzi che risuscitavano con la dissoluzione del Regno-Unificato. Il momento presente permetteva già di delineare la tendenza degli anni futuri sotto il segno della guerra.
Un nuovo re degli Olmi era sorto nelle terre di Vax e, durante una battuta di caccia, un gruppo di Ribelli delle Fronde era riuscito ad assassinare il primate Villuno, sprofondando la regione nel conflitto. Ovigia Villuno radunava i vassalli di suo padre e nessuno dubitava sul fatto che, a Spinella, l’operazione di pace si sarebbe trasformata in un bagno di sangue, anche se alcuni dichiaravano apertamente di non sapere chi sarebbe stato a massacrare e chi sarebbe invece stato massacrato. Dietro al trono del re degli Olmi si acquattava l’ombra misteriosa dei Ketei e i terribili racconti della Prima guerra della vite circolavano ancora abbastanza per raffreddare anche le teste calde più fanatiche. A ovest del Brune, le tensioni crescevano tra Sudella e Baia-Lupa e si cristallizzavano attorno al cantone di Picco-Rosso, per il quale, in passato, si erano già combattute due guerre micidiali e il cui solo nome bastava a evocare gli eccessi sanguinari degli antichi conflitti frontalieri. Fingendo la neutralità, i diplomatici di Lago-Franco affilavano pazientemente le lame di quel vecchio conflitto, sperando di poter trarre profitto da una nuova guerra del Picco.
Come al solito, chi per prima pagava il prezzo dei cocci rotti era la gente del popolo e, nonostante le manovre della gilda dei mastri-mugnai di Alumbra, il prezzo del grano borrese aumentava vertiginosamente. Mentre l’economia brunide minacciava di cadere nel precipizio della recessione, le nuove compagnie bagaude fiorivano e, per prevenire gli attacchi della fame, un numero crescente di accattoni e di figli delle famiglie povere andava a ingrossare i ranghi dei soldati di fortuna. I porti del Basso-Brune e della marca di Opula vedevano sbarcare contingenti di mercenari stranieri, vecchi cavalieri di Ameliande, arcieri feroci provenienti da Kjiisa o dai uadi riarsi di Kaj’Alesh, e tutti gli sciabolatori a caccia d’oro e di gloria che potevano fornire le Cinque-Città o i corsari delle Terre-Spezzate. Siccome quest’improvviso afflusso di uomini in armi non poteva essere interamente assorbito dalle tasche dei signori brunidi, il flagello del banditismo non tardò molto a dilagare, per riversarsi nelle campagne come la peste marchese.
Nonostante tutto, anche se alcuni rari privilegiati disponevano ancora del lusso di poter contemplare gli eventi da lontano, nessuno ignorava che l’alto seriffo di Carme aveva rinnegato il trattato delle Isole-Prossime. Di fatto, l’ombra di una quarta invasione aleggiava oramai sulle contee. Grisarma e Alumbra si erano lanciate in una serie di vasti cantieri volti a rinforzare le loro piazzeforti, ma in caso di guerra la cosa non sarebbe servita molto. Un manipolo di signori disorganizzati non aveva nessuna speranza di resistere a Carme, se i casati carmidi avessero deciso di mobilitare contro di loro tutta la potenza delle proprie legioni. A un osservatore esterno, le contee dovevano sembrare dei frutti pronti per essere raccolti e i Brunidi, fedeli alla loro reputazione, persistevano con caparbietà nelle loro tradizioni individualistiche, preferendo la discordia alle alleanze e le piccole divergenze ai grandi punti comuni. Nonostante la mia giovane età e la comprensione approssimativa che avevo di tutte queste problematiche, mi ricordo di essere spesso giunto a chiedermi, mettendo le cose in prospettiva, come avessero fatto le contee ad andare avanti per così tanto tempo. Quando condividevo le mie riflessioni con lui, Uldrick esibiva il suo ghigno feroce e mi confermava che ciò era dovuto a qualcosa di non molto dissimile da un miracolo.
Le successive ondate di cattive notizie che continuavano ad abbattersi sulle contee furono oggetto di discussioni frequenti tra me e il Varo nel corso del nostro viaggio in direzione di Gorsalce. Mentre spronavamo i cavalli ogni giorno di più nella speranza di raggiungere il vaïdroerk e, attorno a noi, l’autunno rivestiva la foresta di Vax con una cappa variopinta, Uldrick tentava di farmi prendere coscienza della fragilità del mondo che conoscevo e della fortuna che avevo avuto, da un certo punto di vista, a nascere sotto il segno pacifico del regno di Bai Solistero. Mi rendevo conto lentamente, quasi un pezzo alla volta, che ero cresciuto in un mondo a parte, una sorta di tranquilla anomalia, e che Corna-Brune era stata, nonostante la sua dose di perturbazioni, qualcosa di diverso, un’oasi di pace slegata dalle contee del sud e dalla loro lunga storia d’antagonismo. Mi tornava in mente come Hesse avesse spesso evocato questo stato di fatto ma all’epoca, sconvolto dalla perdita di Merlo e di Brindilla e poi di Nahirsipal, avevo rifiutato ogni parola – la sua in modo particolare – che avesse potuto farmi relativizzare la mia sofferenza. In sella, avevo tutto il tempo di rifletterci e, talvolta, i miei pensieri erravano fino alla soglia dell’orfanotrofio Tarron, da cui dovevo strapparmi con la forza quando arrivavo al ricordo profumato dei capelli di Brindilla.
Cavalcammo con i primi rovesci della mezza stagione e le ore si assomigliavano tutte sciaguratamente. La pioggia poteva essere battente e far curvare la schiena alle nostre cavalcature e inzuppare i loro mantelli infangati, gettando sul tragitto già in sé difficile un’atmosfera ancora più tetra. Erano giornate sfiancanti, a livello sia nervoso sia fisico. Uldrick, impaziente di ritrovare i suoi, dettava il ritmo più sostenuto a cui osava sottoporre i cavalli, i quali, per lo sforzo, perdevano a vista d’occhio il grasso dell’estate e diventavano irritabili e capricciosi. Un mattino, nel momento più difficile della nostra impresa, Pikke arrivò persino a mostrarmi i denti, ma i loro sforzi quotidiani costituivano un male necessario: eravamo in corsa contro il tempo e loro era da due anni che non praticavano l’esercizio necessario. Bredda non aveva combattuto da troppo tempo e Uldrick sperava di vederla in condizioni migliori quando avremmo finalmente raggiunto la protezione degli altri vaïdrogan.
Era passato più di un anno da quando avevamo scoperto che sulla mia testa era ancora appesa una taglia. Era un pensiero strano per me, quello di sapermi sempre ricercato, sempre in balia dell’odio dei Misolla, anche se mi trovavo così lontano da casa mia. Da quando avevamo lasciato la sicurezza tutta relativa dell’altipiano, ognuno dei miei atti, e ognuno degli atti di Uldrick, era condizionato anzitutto da questa preoccupazione costante. Avevamo già ucciso per proteggere il nostro anonimato l’anno precedente e temevamo che il problema potesse presentarsi di nuovo. Una volta, avevamo seriamente pensato di fare marcia indietro per sgozzare un guardiano di porci che ci era capitato sul collo per caso e il cui sguardo ci era parso, a tutti e due, un po’ troppo insistente. Alla fine avevamo accordato al pastore il beneficio del dubbio, ma questa tensione ci intralciava di continuo e ci rodeva in silenzio a ogni minima svolta. Proprio quando, in teoria, la nostra vita di eremiti era arrivata alla fine, non mi ero mai sentito così solo. Una cosa era essere l’oggetto del disprezzo permanente dei propri pari, come lo ero stato a Castello-Corna, tutt’altra era accettare che un solo sguardo, una sola parola, una sola chiacchiera priva di malizia potesse strapparmi la libertà o costare la vita a Uldrick.
Siccome avevamo preso la decisione di evitare le strade, il viaggio che avrebbe potuto essere una questione di qualche giorno ci prese quasi due settimane. Tale constatazione non aiutava affatto a risollevare l’umore generale: ci sapevamo già in ritardo e, mentre imboccavamo pesantemente le deviazioni sinuose e scivolose dei sentieri della selvaggina, quel ritardo si accumulava senza che noi potessimo farci nulla. Inoltre, facevamo altrettanti sforzi per evitare ogni contatto umano e questa prudenza ci rallentava ancora di più del resto. Se la cosa fu abbastanza facile all’inizio, tutto cambiò quando lasciammo le alture del cantone di Cullongo per raggiungere la topografia più clemente del centro della contea e, poi, di Gorsalce. I poderi isolati divennero più frequenti e anche gli accampamenti di taglialegna e i mansi, sicché il nostro compito si fece più arduo. Vivevo quest’apprensione perpetua dell’altro come uno strazio supplementare. Oltre al rischio che dei cacciatori di teste si mettessero sulle mie tracce grazie alle voci benigne in circolazione, potevamo sempre incappare nei banditi. Come se non bastasse, considerando il nostro aspetto generale e l’attuale contesto politico, non eravamo affatto sicuri che, in caso di incontro con una pattuglia della milizia patronale, questa non avrebbe tirato prima di farci qualsiasi domanda.
Non vedevo più la fine di quelle giornate impervie e difficili, in cui la foresta lasciava interminabilmente il posto ad altra foresta. Tuttavia, un poco alla volta, avanzavamo, malgrado l’impressione tenace di girare in tondo sotto gli alberi. Raggiungere il vaïdroerk era diventata un’ossessione che non ci lasciava mai, il punto focale di ogni passo e di ogni scossone, una redenzione verso la quale correvamo come due assetati. Durante la dodicesima sera, mentre le nuvole violacee sopra di noi venivano trafitte da un unico raggio di luce dorata e i rami ombrosi dei castagni si tendevano al cielo come le lance di un esercito di scheletri, Uldrick mi annunciò che eravamo finalmente arrivati. Avevamo fatto una pausa vicino a un ruscello argilloso che scorreva dalle alture più a sud e, anchilosato dalla fatica, aiutai il Varo a sistemare la nostra tela catramata tra due rami di faggio. «Domani» disse, senza rivolgermi uno sguardo. «Domani saremo alla chiatta di Gorsalce. Poi prenderemo la strada fino a Granaia. I cavalli dovranno forzare il passo e non dovremmo metterci più di due giorni.» Annuii mollemente, stringendo un nodo con i denti.
Quella notte ci autorizzammo ad accendere il nostro primo falò da quando avevamo lasciato Cullongo. Era da giorni che portavamo vestiti umidi e puzzavamo tutti e due di cuoio bagnato e di muffa. Il calore e l’acqua calda furono accolti come due piaceri semplici di cui avevamo fatto a meno per troppo tempo: persino i cavalli si strinsero in fretta attorno al timido braciere. Dopo aver assaporato un brodo bollente, il Varo tirò fuori la pietra per affilare e si mise all’opera sulla sua piccola lama utilitaria. Dato che, una volta attraversato il Gorzo, la velocità sarebbe stata un fattore più importante della dissimulazione della nostra identità, Uldrick decise che era il momento di occuparci del nostro aspetto. Due cacciatori avrebbero potuto essere notati e interrogati dalla guardia locale, invece c’erano molte probabilità che un guerriero-varo e il suo yungling fossero lasciati in pace. Perciò, la barba incolta di Uldrick sparì quasi del tutto nelle fiamme. Bredda tornò a sfoggiare la coda corta e la criniera a spazzola di una giumenta da guerra. Io stesso fui alleggerito di un bel pezzo delle mie trecce aggrovigliate. Mentre la lama del pugnale andava e veniva, guardavo impassibile le mie trecce più ispide torcersi sfrigolando sui ceppi. L’odore del pelo e dei capelli bruciati fluttuava nell’aria come una foschia nauseabonda.
Quando fu soddisfatto del risultato, Uldrick mi fece brevemente vedere il mio nuovo aspetto nel frammento di specchio che si portava in giro nella bisaccia vuota. I suoi tagli al coltello avevano tolto i nodi neri della mia criniera per dare alla mia tonsura maggiore eleganza, senza, tuttavia, che avessi dovuto rinunciare a tutte le mie trecce. I lati erano stati rasati corti al fine di darmi l’aspetto di un Varo. Con la mia lancia in mano, le mie maglie, la rondaccia e la daga carmide che mi pendeva dalla cintura, non avevo un’aria propriamente impressionante ma vi si poteva scorgere il germe di un guerriero. Nonostante l’auna e mezza che ancora misuravo, nella mia postura e nel mio sguardo c’era stato un cambiamento. Dovetti sorridere o atteggiarmi, poiché riuscii ad attirarmi i rimproveri di Uldrick.
«Forse hai l’aria di un guerriero magrolino, yungling, ma ricordati che è una spada a doppio taglio» mi redarguì cupamente. «Ciò può proteggerti. Ma può altrettanto fare di te un bersaglio.» Passammo qualche altra ora a mangiucchiare la salsiccia secca in silenzio, lustrando le nostre armi e le armature con quel che restava del sego che avevamo portato via dalla capanna. Puzzavamo ancora di rancido, ma quando andammo a dormire, il nostro portamento era marziale e il nostro equipaggiamento curato bene. L’indomani, nessuno ci avrebbe confuso con quel paio di pezzenti comuni ai quali assomigliavamo poco prima.
Mentre cercavo di trovare una posizione comoda sotto la coperta foracchiata, le chiuse del cielo tornarono ad aprirsi e, per la centesima volta in quella sola settimana, la tela catramata si mise a crepitare. Fuori, Pikke protestò con un nitrito indignato, mentre la pioggia faceva sibilare il falò agonizzante. Tentai di accoccolarmi nella posizione più confortevole possibile contro il cuoio della mia sella. La tela aveva sofferto gli anni nelle alture e l’uso costante che ne avevamo fatto e, talvolta, l’acqua riusciva a filtrare attraverso la fibra per venire a inzuppare le nostre coperte. «Detesto questo paese» inveii ad alta voce, rigirandomi goffamente. «Detesto tutti questi alberi e tutta quest’acqua e detesto… e detesto più di chiunque altro questi scemi dei Vaxesi. Sono idioti e superstiziosi… e falsi e…»
Uldrick...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. IL BAMBINO DI POLVERE
  4. LIBRO PRIMO. Il morto
  5. LIBRO SECONDO. Lo Storpio
  6. LIBRO TERZO. Il guerriero-varo
  7. LIBRO QUARTO. Passalaigua
  8. Ringraziamenti
  9. Copyright