Il caos che durante l’anno dei miei dieci anni agitava le contee del Brune lasciava presagire un avvenire violento e tumultuoso per i suoi abitanti. Borra e Collinna erano finite a farsi la guerra contendendosi il cantone di Passalaigua e questo primo ritorno agli antichi conflitti, risalenti all’epoca del re Bai, polarizzava tanto gli animi dei nobili quanto quelli dei contadini. Nel corso di tavole rotonde sempre più burrascose, soltanto un pugno di primati faceva ancora appello all’unità , tra questi c’erano Bardo il Giovane, Servenzio Damfré di Copri-Colle e dama Cerezza Floranzia di Ventosolo. Quando non si schieravano apertamente, gli altri aristocratici avevano deciso di ripiegarsi sulle proprie frontiere e sui propri problemi, che esistevano già in numero sufficiente perché essi non si sobbarcassero anche di quelli degli altri. In realtà , Passalaigua non era altro che la punta visibile di un lungo e macabro carnevale, fatto di rancori e di antichi screzi che risuscitavano con la dissoluzione del Regno-Unificato. Il momento presente permetteva già di delineare la tendenza degli anni futuri sotto il segno della guerra.
Un nuovo re degli Olmi era sorto nelle terre di Vax e, durante una battuta di caccia, un gruppo di Ribelli delle Fronde era riuscito ad assassinare il primate Villuno, sprofondando la regione nel conflitto. Ovigia Villuno radunava i vassalli di suo padre e nessuno dubitava sul fatto che, a Spinella, l’operazione di pace si sarebbe trasformata in un bagno di sangue, anche se alcuni dichiaravano apertamente di non sapere chi sarebbe stato a massacrare e chi sarebbe invece stato massacrato. Dietro al trono del re degli Olmi si acquattava l’ombra misteriosa dei Ketei e i terribili racconti della Prima guerra della vite circolavano ancora abbastanza per raffreddare anche le teste calde più fanatiche. A ovest del Brune, le tensioni crescevano tra Sudella e Baia-Lupa e si cristallizzavano attorno al cantone di Picco-Rosso, per il quale, in passato, si erano già combattute due guerre micidiali e il cui solo nome bastava a evocare gli eccessi sanguinari degli antichi conflitti frontalieri. Fingendo la neutralità , i diplomatici di Lago-Franco affilavano pazientemente le lame di quel vecchio conflitto, sperando di poter trarre profitto da una nuova guerra del Picco.
Come al solito, chi per prima pagava il prezzo dei cocci rotti era la gente del popolo e, nonostante le manovre della gilda dei mastri-mugnai di Alumbra, il prezzo del grano borrese aumentava vertiginosamente. Mentre l’economia brunide minacciava di cadere nel precipizio della recessione, le nuove compagnie bagaude fiorivano e, per prevenire gli attacchi della fame, un numero crescente di accattoni e di figli delle famiglie povere andava a ingrossare i ranghi dei soldati di fortuna. I porti del Basso-Brune e della marca di Opula vedevano sbarcare contingenti di mercenari stranieri, vecchi cavalieri di Ameliande, arcieri feroci provenienti da Kjiisa o dai uadi riarsi di Kaj’Alesh, e tutti gli sciabolatori a caccia d’oro e di gloria che potevano fornire le Cinque-Città o i corsari delle Terre-Spezzate. Siccome quest’improvviso afflusso di uomini in armi non poteva essere interamente assorbito dalle tasche dei signori brunidi, il flagello del banditismo non tardò molto a dilagare, per riversarsi nelle campagne come la peste marchese.
Nonostante tutto, anche se alcuni rari privilegiati disponevano ancora del lusso di poter contemplare gli eventi da lontano, nessuno ignorava che l’alto seriffo di Carme aveva rinnegato il trattato delle Isole-Prossime. Di fatto, l’ombra di una quarta invasione aleggiava oramai sulle contee. Grisarma e Alumbra si erano lanciate in una serie di vasti cantieri volti a rinforzare le loro piazzeforti, ma in caso di guerra la cosa non sarebbe servita molto. Un manipolo di signori disorganizzati non aveva nessuna speranza di resistere a Carme, se i casati carmidi avessero deciso di mobilitare contro di loro tutta la potenza delle proprie legioni. A un osservatore esterno, le contee dovevano sembrare dei frutti pronti per essere raccolti e i Brunidi, fedeli alla loro reputazione, persistevano con caparbietà nelle loro tradizioni individualistiche, preferendo la discordia alle alleanze e le piccole divergenze ai grandi punti comuni. Nonostante la mia giovane età e la comprensione approssimativa che avevo di tutte queste problematiche, mi ricordo di essere spesso giunto a chiedermi, mettendo le cose in prospettiva, come avessero fatto le contee ad andare avanti per così tanto tempo. Quando condividevo le mie riflessioni con lui, Uldrick esibiva il suo ghigno feroce e mi confermava che ciò era dovuto a qualcosa di non molto dissimile da un miracolo.
Le successive ondate di cattive notizie che continuavano ad abbattersi sulle contee furono oggetto di discussioni frequenti tra me e il Varo nel corso del nostro viaggio in direzione di Gorsalce. Mentre spronavamo i cavalli ogni giorno di più nella speranza di raggiungere il vaïdroerk e, attorno a noi, l’autunno rivestiva la foresta di Vax con una cappa variopinta, Uldrick tentava di farmi prendere coscienza della fragilità del mondo che conoscevo e della fortuna che avevo avuto, da un certo punto di vista, a nascere sotto il segno pacifico del regno di Bai Solistero. Mi rendevo conto lentamente, quasi un pezzo alla volta, che ero cresciuto in un mondo a parte, una sorta di tranquilla anomalia, e che Corna-Brune era stata, nonostante la sua dose di perturbazioni, qualcosa di diverso, un’oasi di pace slegata dalle contee del sud e dalla loro lunga storia d’antagonismo. Mi tornava in mente come Hesse avesse spesso evocato questo stato di fatto ma all’epoca, sconvolto dalla perdita di Merlo e di Brindilla e poi di Nahirsipal, avevo rifiutato ogni parola – la sua in modo particolare – che avesse potuto farmi relativizzare la mia sofferenza. In sella, avevo tutto il tempo di rifletterci e, talvolta, i miei pensieri erravano fino alla soglia dell’orfanotrofio Tarron, da cui dovevo strapparmi con la forza quando arrivavo al ricordo profumato dei capelli di Brindilla.
Cavalcammo con i primi rovesci della mezza stagione e le ore si assomigliavano tutte sciaguratamente. La pioggia poteva essere battente e far curvare la schiena alle nostre cavalcature e inzuppare i loro mantelli infangati, gettando sul tragitto già in sé difficile un’atmosfera ancora più tetra. Erano giornate sfiancanti, a livello sia nervoso sia fisico. Uldrick, impaziente di ritrovare i suoi, dettava il ritmo più sostenuto a cui osava sottoporre i cavalli, i quali, per lo sforzo, perdevano a vista d’occhio il grasso dell’estate e diventavano irritabili e capricciosi. Un mattino, nel momento più difficile della nostra impresa, Pikke arrivò persino a mostrarmi i denti, ma i loro sforzi quotidiani costituivano un male necessario: eravamo in corsa contro il tempo e loro era da due anni che non praticavano l’esercizio necessario. Bredda non aveva combattuto da troppo tempo e Uldrick sperava di vederla in condizioni migliori quando avremmo finalmente raggiunto la protezione degli altri vaïdrogan.
Era passato più di un anno da quando avevamo scoperto che sulla mia testa era ancora appesa una taglia. Era un pensiero strano per me, quello di sapermi sempre ricercato, sempre in balia dell’odio dei Misolla, anche se mi trovavo così lontano da casa mia. Da quando avevamo lasciato la sicurezza tutta relativa dell’altipiano, ognuno dei miei atti, e ognuno degli atti di Uldrick, era condizionato anzitutto da questa preoccupazione costante. Avevamo già ucciso per proteggere il nostro anonimato l’anno precedente e temevamo che il problema potesse presentarsi di nuovo. Una volta, avevamo seriamente pensato di fare marcia indietro per sgozzare un guardiano di porci che ci era capitato sul collo per caso e il cui sguardo ci era parso, a tutti e due, un po’ troppo insistente. Alla fine avevamo accordato al pastore il beneficio del dubbio, ma questa tensione ci intralciava di continuo e ci rodeva in silenzio a ogni minima svolta. Proprio quando, in teoria, la nostra vita di eremiti era arrivata alla fine, non mi ero mai sentito così solo. Una cosa era essere l’oggetto del disprezzo permanente dei propri pari, come lo ero stato a Castello-Corna, tutt’altra era accettare che un solo sguardo, una sola parola, una sola chiacchiera priva di malizia potesse strapparmi la libertà o costare la vita a Uldrick.
Siccome avevamo preso la decisione di evitare le strade, il viaggio che avrebbe potuto essere una questione di qualche giorno ci prese quasi due settimane. Tale constatazione non aiutava affatto a risollevare l’umore generale: ci sapevamo già in ritardo e, mentre imboccavamo pesantemente le deviazioni sinuose e scivolose dei sentieri della selvaggina, quel ritardo si accumulava senza che noi potessimo farci nulla. Inoltre, facevamo altrettanti sforzi per evitare ogni contatto umano e questa prudenza ci rallentava ancora di più del resto. Se la cosa fu abbastanza facile all’inizio, tutto cambiò quando lasciammo le alture del cantone di Cullongo per raggiungere la topografia più clemente del centro della contea e, poi, di Gorsalce. I poderi isolati divennero più frequenti e anche gli accampamenti di taglialegna e i mansi, sicché il nostro compito si fece più arduo. Vivevo quest’apprensione perpetua dell’altro come uno strazio supplementare. Oltre al rischio che dei cacciatori di teste si mettessero sulle mie tracce grazie alle voci benigne in circolazione, potevamo sempre incappare nei banditi. Come se non bastasse, considerando il nostro aspetto generale e l’attuale contesto politico, non eravamo affatto sicuri che, in caso di incontro con una pattuglia della milizia patronale, questa non avrebbe tirato prima di farci qualsiasi domanda.
Non vedevo più la fine di quelle giornate impervie e difficili, in cui la foresta lasciava interminabilmente il posto ad altra foresta. Tuttavia, un poco alla volta, avanzavamo, malgrado l’impressione tenace di girare in tondo sotto gli alberi. Raggiungere il vaïdroerk era diventata un’ossessione che non ci lasciava mai, il punto focale di ogni passo e di ogni scossone, una redenzione verso la quale correvamo come due assetati. Durante la dodicesima sera, mentre le nuvole violacee sopra di noi venivano trafitte da un unico raggio di luce dorata e i rami ombrosi dei castagni si tendevano al cielo come le lance di un esercito di scheletri, Uldrick mi annunciò che eravamo finalmente arrivati. Avevamo fatto una pausa vicino a un ruscello argilloso che scorreva dalle alture più a sud e, anchilosato dalla fatica, aiutai il Varo a sistemare la nostra tela catramata tra due rami di faggio. «Domani» disse, senza rivolgermi uno sguardo. «Domani saremo alla chiatta di Gorsalce. Poi prenderemo la strada fino a Granaia. I cavalli dovranno forzare il passo e non dovremmo metterci più di due giorni.» Annuii mollemente, stringendo un nodo con i denti.
Quella notte ci autorizzammo ad accendere il nostro primo falò da quando avevamo lasciato Cullongo. Era da giorni che portavamo vestiti umidi e puzzavamo tutti e due di cuoio bagnato e di muffa. Il calore e l’acqua calda furono accolti come due piaceri semplici di cui avevamo fatto a meno per troppo tempo: persino i cavalli si strinsero in fretta attorno al timido braciere. Dopo aver assaporato un brodo bollente, il Varo tirò fuori la pietra per affilare e si mise all’opera sulla sua piccola lama utilitaria. Dato che, una volta attraversato il Gorzo, la velocità sarebbe stata un fattore più importante della dissimulazione della nostra identità , Uldrick decise che era il momento di occuparci del nostro aspetto. Due cacciatori avrebbero potuto essere notati e interrogati dalla guardia locale, invece c’erano molte probabilità che un guerriero-varo e il suo yungling fossero lasciati in pace. Perciò, la barba incolta di Uldrick sparì quasi del tutto nelle fiamme. Bredda tornò a sfoggiare la coda corta e la criniera a spazzola di una giumenta da guerra. Io stesso fui alleggerito di un bel pezzo delle mie trecce aggrovigliate. Mentre la lama del pugnale andava e veniva, guardavo impassibile le mie trecce più ispide torcersi sfrigolando sui ceppi. L’odore del pelo e dei capelli bruciati fluttuava nell’aria come una foschia nauseabonda.
Quando fu soddisfatto del risultato, Uldrick mi fece brevemente vedere il mio nuovo aspetto nel frammento di specchio che si portava in giro nella bisaccia vuota. I suoi tagli al coltello avevano tolto i nodi neri della mia criniera per dare alla mia tonsura maggiore eleganza, senza, tuttavia, che avessi dovuto rinunciare a tutte le mie trecce. I lati erano stati rasati corti al fine di darmi l’aspetto di un Varo. Con la mia lancia in mano, le mie maglie, la rondaccia e la daga carmide che mi pendeva dalla cintura, non avevo un’aria propriamente impressionante ma vi si poteva scorgere il germe di un guerriero. Nonostante l’auna e mezza che ancora misuravo, nella mia postura e nel mio sguardo c’era stato un cambiamento. Dovetti sorridere o atteggiarmi, poiché riuscii ad attirarmi i rimproveri di Uldrick.
«Forse hai l’aria di un guerriero magrolino, yungling, ma ricordati che è una spada a doppio taglio» mi redarguì cupamente. «Ciò può proteggerti. Ma può altrettanto fare di te un bersaglio.» Passammo qualche altra ora a mangiucchiare la salsiccia secca in silenzio, lustrando le nostre armi e le armature con quel che restava del sego che avevamo portato via dalla capanna. Puzzavamo ancora di rancido, ma quando andammo a dormire, il nostro portamento era marziale e il nostro equipaggiamento curato bene. L’indomani, nessuno ci avrebbe confuso con quel paio di pezzenti comuni ai quali assomigliavamo poco prima.
Mentre cercavo di trovare una posizione comoda sotto la coperta foracchiata, le chiuse del cielo tornarono ad aprirsi e, per la centesima volta in quella sola settimana, la tela catramata si mise a crepitare. Fuori, Pikke protestò con un nitrito indignato, mentre la pioggia faceva sibilare il falò agonizzante. Tentai di accoccolarmi nella posizione più confortevole possibile contro il cuoio della mia sella. La tela aveva sofferto gli anni nelle alture e l’uso costante che ne avevamo fatto e, talvolta, l’acqua riusciva a filtrare attraverso la fibra per venire a inzuppare le nostre coperte. «Detesto questo paese» inveii ad alta voce, rigirandomi goffamente. «Detesto tutti questi alberi e tutta quest’acqua e detesto… e detesto più di chiunque altro questi scemi dei Vaxesi. Sono idioti e superstiziosi… e falsi e…»
Uldrick...