
- 192 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Amor militare
Informazioni su questo libro
Un ragazzino di nove anni vive con i nonni nell'Istria del primissimo dopoguerra. In quella situazione di stallo - non più guerra ma non ancora pace - un reggimento italiano si insedia nella rimessa della villa di famiglia. Partecipando alla vita dei soldati il bambino inizia il suo graduale approdo oltre la "linea d'ombra" dell'infanzia. E percepisce anche la difficile convivenza tra italiani e slavi assistendo a episodi che al suo sguardo risultano incomprensibili. Con il consueto stile cristallino ma anche con grande aderenza emotiva al punto di vista del protagonista, Quarantotti Gambini intreccia in Amor militare (1955) microstoria e macrostoria in un intenso romanzo di formazione.
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Informazioni
Amor militare
I
Poco dopo lo sbarco, quando le truppe venivano anche per via di terra e dappertutto formicolavano soldati con autocarri e biciclette, gli italiani occuparono le case di Semedella; non la casa grande, ma quasi tutte le case all’intorno.
Per Paolo, e per tutti i ragazzi, fu una festa.
Gli italiani parlavano come loro, soltanto più bene e più svelto, e non slavo o tedesco o chissà che altra lingua come gli austriaci. Ed erano o parevano tutti giovani, e allegri; con essi – sebbene non somigliassero a Hans, il più simpatico tra i soldati austriaci che Paolo avesse conosciuto – ci si trovava e si poteva scherzare, come con ragazzi un po’ più grandi.
La cosa che più sorprendeva, a vederli, era la mantellina; cioè una specie di coperta che portavano invece del cappotto, posata sulle spalle come gli scialli delle donne. Le mantelline erano ampie, e divertiva com’erano fatte: se qualcuno per gioco stendeva la sua a terra, essa formava tutto un cerchio. Pareva che gli italiani le amassero. E tuttavia quando soffiava la bora non li riparavano per niente, sebbene se le avvolgessero – con un curioso colpo del braccio, che sotto quel panno non si vedeva – tutt’in giro al viso e contro la bocca. Con la bora, le mantelline si sollevavano in aria come le gonne delle ragazze, e finivano quasi sempre per avvolgere le teste dei soldati, che brancolavano accecati quasi avessero il capo in un sacco.
La prima a essere occupata, a Semedella, fu la “casetta del guzzo”. Vi si installarono alcuni “plotoni” di fanteria, poi alcuni automobilisti, che portavano sulla manica una piccola automobile ricamata in nero, poi un “reparto” del genio telegrafisti che non si mosse più.
Subito dopo la casetta, furono occupate la villa grande sullo stradone e l’altra villa lì accanto; per una sartoria di reggimento. Infine, verso la primavera, un altro gruppo di automobilisti si stabilì, con gioia di Paolo, nella rimessa delle carrozze, proprio a fianco della casa. Non erano in molti; e ora mancava l’uno e ora l’altro, sicché non se ne vedevano mai più di tre o quattro. Sistemarono le brande nella rimessa, e lì stavano anche di giorno, al fresco; ma i camion li tenevano all’aperto, sotto il grande pergolato.
Non tutti, però, dormivano nella rimessa, dove c’era un odore di carburo, di cuoio, di sudore, e anche di qualcos’altro, acidulo. Quando le notti cominciarono a farsi più calde, alcuni preferirono distendersi la sera sui camion, e lì prendevano sonno.
«Dormire all’aperto» borbottò un mattino un soldato biondastro dalla voce grossa e dal viso come gonfio, uno dei telegrafisti (portava ricamate a zigzag sulla manica alcune scintille) «tien freschi, mondo boia, e fa più femmina la femmina e più maschio il maschio.»
«Taci, Crippa» esclamò senza degnarlo di uno sguardo uno dalla figura sottile e dal naso adunco, che di solito non parlava, scuotendo e poi stendendo al sole il materassino che aveva tolto dal camion. «Io son maschio, lo sono e lo resto anche se mi chiudi la notte in un bidone, ma dormire all’aperto, sai che fa? Fabbrica idee e fa pulizia.»
«Fa più femmina la femmina e più maschio il maschio!» replicò con la sua voce rauca il soldato Crippa, e se ne andò dondolando la testa grossa.
Due, specialmente, dormivano all’aperto sui camion: quello dal naso adunco, che usava un paio di fasce color cachi, e un altro – più piccolo – che pareva il suo aiutante.
Per farsi obbedire, a quello dal naso adunco bastava meno che uno sguardo. «Piveroni,» lo si udiva «fa’ così e così! Piveroni, sbrigati!» E l’altro correva, faceva tutto.
Un giorno che in casa lo avevano incaricato di chiedere qualche goccia di benzina al sergente, Paolo andò dritto in cerca di quello dal naso adunco. Ma non lo trovò, e non c’era neanche Piveroni.
«Cerchi quello col naso da prete?» gli domandò uno che girava in mutande per la rimessa. «Macché sergente! Quello è Frangisacchi, soldato come me, e il più fesso dei fessi, anche se piace alle mule. Ma vieni qua, che la benzina te la do io.»
Paolo restò male a sentire che Frangisacchi era un soldato come gli altri. A quella frase dettagli in casa: “Vai dal sergente!” aveva pensato subito a lui.
Invece Frangisacchi non era nulla, con la sua giacca attillata e l’orologio al polso; un soldato semplice. Ma chi era, allora, il sergente? Apprese, e ne provò quasi piacere, che lì, in quel reparto che aveva il pergolato per autorimessa, non c’era alcun sergente, e neanche l’ombra di un caporale. Erano tutti soldati; un piccolo reparto che nessuno comandava, e non si capiva come ciò potesse avvenire.
Frangisacchi aveva la riga in parte. Il grande momento ogni mattina era quando, dopo essersi rasato davanti a uno specchietto appeso al tronco del glicine, estraeva dai calzoni il pettine, lo ripuliva sull’asciugamano, vi soffiava sopra, e incominciava a pettinare e a distribuire di qua e di là della scriminatura i capelli lisci bagnati. Coi soli calzoni e un paio di vecchie scarpe, e l’asciugamano posato come un collare sulle spalle un po’ arrossate, stava a gambe larghe davanti al glicine guardandosi nello specchio, e muoveva le mani sui capelli con gesti ampi e leggeri. Di solito fischiettava, ma in quei momenti taceva. Riprendeva a fischiettare a pettinatura compiuta; e sembrava, allora, che fischiasse in modo particolare, tra lieto e arrogante.
“Ora fischia” si diceva Paolo, non appena, lasciato il pettine, Frangisacchi si dava sui capelli, rapido, pochi colpetti e alcune lisciatine con le dita. “Ha finito, e ora fischierà.”
Ma non sempre era così. Avvenne un giorno che Frangisacchi, dopo che si era dato quegli ultimi colpetti, si scompigliasse e arruffasse all’improvviso tutti i capelli, furiosamente. “Iiihhh!” aveva gridato pestando i piedi. Paolo, che lo guardava dal terrapieno davanti la casa, si era tratto dietro il tronco di una delle acacie, e lo sentì ancora gridare: “Caporale d’un Cristo!”. Paolo si guardò tutt’in giro, e si segnò quasi vergognandosi e temendo per lui; ma non c’era nessuno. Poi lo vide ricominciare; si pettinò, si rifece la riga; ma non lento come sempre: un po’ rapido, e con malagrazia.
Presto rimise il pettine in tasca; ma quel giorno non fischiettò. Andando su e giù tra il cofano aperto del camion (dove con Piveroni curvo e sudato andava riparando qualcosa) e la rimessa (dalla quale tornava ogni volta con un nuovo arnese), non mancava di guardarsi un attimo, scuro in viso, nei vetri della rimessa o nello specchietto rimasto appeso al glicine.
Ma di solito era soddisfatto di sé. Riponeva allora con cura il pettine, dopo averlo ripulito sull’asciugamano e dopo avervi soffiato sopra, nella tasca posteriore dei calzoni; staccava lo specchietto dal tronco, soffiava anche su quello (talvolta un camion, partendo o rientrando, sollevava un nuvolo di polvere); e infine lo infilava in una custodia, una specie di saccoccino di tela, e andava a rimetterlo, o a nasconderlo come dicevano gli altri, nel suo camion.
Poi finiva di vestirsi: prima gli stivali, ch’erano piccoli e leggeri, da borghese, ma pieni di screpolature, che si notavano ancor più perché li teneva sempre spolverati e lucidi; poi le fasce di quel colore cachi («Le ha arrangiate a un inglese» dicevano in giro), che facevano un’impressione curiosa tanto sul grigioverde quanto sulla divisa estiva di tela grigiolina; e infine la giubba, che indossava senza camicia né altro, con la sola fascetta intorno al collo.
Quella fascetta, sempre candida (gliela lavava Piveroni), era alta in modo quasi inverosimile, perché anche il collo di Frangisacchi era lungo, ed egli se l’avvolgeva fin sotto la mascella; e spiccava quindi talmente da essere, assieme alle fasce cachi e al naso adunco, una delle prime cose che di lui si notassero.
Egli aveva le gambe un po’ arcuate, e le fasce cachi, che staccavano sul resto della divisa, facevano risaltare ancor più quel difetto. «Fate scattare Frangisacchi sull’attenti, e mettetegli un bidone dietro le gambe: e vedrete sempre il bidone, come in una cornice ovale» diceva un soldato che chiamavano il “pittore”.
C’era in Frangisacchi, nel far risaltare così le proprie gambe storte, quasi una spavalderia; e Paolo, se avesse avuto dieci anni di più, avrebbe forse compreso che proprio quella spavalderia finiva per attenuare agli occhi altrui il suo difetto.
Infatti, non pareva neanche canzonatoria la frase che un autista napoletano, Anielluccio, ripeteva guardando a mezz’aria:
«Il signorino più grazioso, tra noi, è Frangisacchi che ha belle gambe.»
Prima di radersi e di pettinarsi, Frangisacchi faceva ogni mattina le sue abluzioni o il “bagno asciutto”, com’egli lo chiamava, passandosi una spugna prima sul dorso e poi sulle gambe. Non scendeva però sino al pozzo; l’acqua gliela portava lì su, davanti alla rimessa, Piveroni, entro due vecchie latte da benzina scoperchiate, cui aveva infilato in alto, come manico, due grossi fili di ferro.
“La pulizia” soleva ripetere Frangisacchi “è la prima virtù dell’uomo.” E bastò questa frase, riferita in casa da Paolo, a conquistargli di colpo la simpatia della nonna, che d’altronde non lo conosceva bene e continuava a confonderlo con Piveroni. (La nonna, inoltre, non sapeva ancora che cosa Frangisacchi avesse risposto quando gli avevano chiesto quale fosse la prima virtù della donna.)
Ch’egli si lavasse tanto, piaceva naturalmente anche a Paolo, il quale però non riusciva a capire perché mai Frangisacchi non facesse bagni di mare. Dopo aver assistito ad alcuni di quei bagni asciutti, Paolo cominciò anche a ripetersi la prima frase che avesse udita da lui: «Dormire all’aperto fabbrica idee e fa pulizia». Cominciava a spiegarsela, in parte; ma non del tutto: quanto alla pulizia, capiva; ma che idee poteva fabbricare il dormire all’aperto? Più ci pensava e più era ansioso di dormire all’aperto anche lui.
«Prova a domandare a Frangisacchi» gli disse un giorno il nonno «di che paese è.»
Paolo restò contrariato. Questa di sapere da quale regione, e da quale città o provincia, e talvolta da quale paesucolo ognuno provenisse, era una fissazione del nonno. Già una volta egli lo aveva mandato a interrogare una carovana di zingari che si erano accampati sul prato, e quelli lo avevano fatto correre via gridandogli: “Angusigolo!” (Paolo difatti era troppo magro: lungo e sottile come un’aguglia.) E qualche giorno innanzi Tommasone, un camionista pugliese, alla domanda di dove fosse si era rabbuiato e gli aveva risposto chiamandolo “polentone”: questa era un’ingiuria, gli spiegarono, per tutti i settentrionali, sebbene Tommasone avesse voluto anche alludere ai suoi capelli biondi. A quell’incarico del nonno, egli restò dunque seccato; oltre il resto, quei nomi – piemontese, abruzzese, siciliano, lombardo – non gli dicevano nulla; tuttavia corse da Frangisacchi.
«Di che paese sono? Di nessun paese» rispose quello allontanandosi.
Questo non era possibile, e Paolo glielo disse.
«Ma che paese e non paese!» gridò allora Frangisacchi voltandosi di scatto, ed era rosso in viso. «Quando uno è vissuto nella capitale, non è più questione di paese.»
Paolo corse a riferire al nonno, lieto anche di deludere la sua curiosità.
Ma il vecchio rise di gusto, alzando il capo e facendo tremolare la moschetta; rise di gusto come Paolo non lo aveva mai veduto. «Non mi occorre altro» disse. «È permaloso e insolente: ho capito ch’è toscano, e Dio sa di quale Bogliunz dell’Appennino.»
II
Il nonno di Paolo era ritornato da diversi mesi, dal principio dell’inverno.
Non era r...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Prefazione. di Massimo Raffaeli
- Nota al testo
- AMOR MILITARE
- Copyright