Stanotte è quella giusta per ricordare tutto, per aprire spazi di memoria che mi hanno condotta fin qui. Le immagini mi trascinano via dal mio letto.
Mario, mio marito, dorme stretto a mia figlia. Ho coperto le gambe di Bruno che sfuggono sempre al piumone e gli ho dato un bacio, poi ancora un altro. Continuo a guardarlo dormire incredula. Lui è tornato a casa, lui è qui, vivo. La sua testolina senza capelli è appoggiata a un cuscino ricamato del mio corredo da sposa felice. Lui è nel mio letto, è con me che dorme tutte le notti, e si spinge sempre nell’incavo del mio corpo come a volerci rientrare. È così impaurito, così spaventato. Apro ancora una volta la stanza di Ina, così Bruno chiama sua sorella, il suo corpicino di bimba si è allungato, nel sonno così avvinghiata al padre sembra una fata. La notte tutto è semplicemente normale. In questa stessa notte, dieci anni fa, per la prima volta mi perdevo negli occhi di Sofia.
Sono le 21.30 e non riesco a star ferma nel letto. Voglio scrivermi. Desidero scrivere a quella ragazza che ero. Voglio dirmi che ce la farò. Voglio tranquillizzarmi, prendermi per mano, accarezzarmi la fronte e sussurrarmi che quel dolore che nei prossimi anni mi strapperà la pelle di dosso non durerà per sempre. Anzi voglio gridarmelo: ce la farai, Mariangela. Non morirai di dolore. Ho come l’assurda sensazione di poter tornare indietro e cambiare il mio destino. Mi vedo aleggiare come spirito in un luogo fermo a dieci anni fa. Vedo me stessa nei nove mesi precedenti, le mani sul pancione, i nomi da trovare, i libri letti sul perfetto genitore... e vedo i sogni. Troppi. Sogni frantumati, schiacciati. Cammino senza essere percepita tra mio marito e i miei parenti che attendono fuori dalla sala travaglio. Mi insinuo tra gli amici che fantasticano su somiglianze fisiche e caratteriali. Guardo mia sorella e i miei genitori, i miei suoceri e mia cognata. Su nessun viso c’è traccia del dolore che verrà. E poi entro dove sono io, in sala parto, e mi guardo spingere e spingere senza sapere che un giorno ripartorirò mia figlia e me stessa. Mi osservo stremata ma convinta di avercela fatta, sicura di aver ricominciato a respirare senza fiatone, certa che a uno squarcio del quadro non possa seguirne un altro.
Mi sento sperare e mi tengo per mano perché so che a quella ragazza arriveranno contrazioni inaspettate e partorirà ancora e ancora suo figlio con dolore indicibile, e purtroppo non ci saranno manuali sul perfetto genitore ad aiutarla.
Mia madre, come quasi tutte le mamme del mondo, mi ha sempre detto: «Quando sarai madre, capirai!».
Quando sono diventata madre ho capito. Ho capito i suoi occhi puntati sull’orologio alle due di notte aspettando il mio rientro, e ho capito l’unica coscia di pollo nel mio piatto, sistemato accanto al suo, vuoto, mentre mi dice che non ha fame. Io non lo so spiegare questo bene infinito che sento, non ho parole adeguate, posso solo dire che guardare il cielo o entrare con i piedi in mare non hanno più lo stesso valore se non ci sono i bambini con me. Sono loro due che ridanno il nome alle cose del mondo. Insomma, il mare si chiama così solo perché ci si tuffano Bruno e Sofia. Io esisto ancora, ma sono la parte migliore di me stessa. L’essere madre mi ha dato una lente sulle priorità della vita, mi ha riportato alla donna che immaginavo di voler essere, mi ha riconnesso con la mia, di madre, e ha creato un ponte con mia suocera. Non c’è nessuno che possa prepararti a questo. Diciamolo. Nemmeno le altre mamme.
Ho letto almeno dieci libri durante la gravidanza. Convinta di poter forgiare le chiavi della FAMIGLIA PERFETTA. Ci ho creduto. Ho creduto che il mio ego e la mia personalità avrebbero sicuramente generato bambini straordinari: i migliori. In effetti lo sono, eccome, anche se la loro storia non è scritta in alcun libro e il mio ego è stato fatto a pezzi dal dolore. Pretendevo che il mondo ruotasse attorno a me, che le persone facessero quello che volevo, rispondessero ai miei gesti e ai miei pensieri nel modo che io avevo tracciato per loro. L’essere divenuta madre di Sofia prima e di Bruno poi mi ha insegnato a scomparire e a ritrovarmi non più sole ma stella, pianeti, buchi neri.
Ho imparato a stare sola e a cercare la compagnia di chi amo profondamente e veramente. Ho conquistato la spettacolare capacità di ascoltare e di mettermi nei panni degli altri. Il mio ego l’ho conservato e asservito ad azioni utili. Sono quella che ero destinata a essere. Chi crede che le madri siano delle sante sbaglia. Sono borderline, funamboli che non cadono. E da lassù le infinite piccole cose insignificanti scompaiono. Prima dell’equilibrio imperfetto e per un lungo tratto, però, rischiamo di smarrirci. Ci perdiamo tutte a un certo punto e dimentichiamo i nostri nomi. Lo riteniamo necessario, ci crediamo sacrificabili sull’altare di un amore più grande, ed è così. Ma avere memoria di sé sarà l’odore di vero che ricorderanno i nostri figli insieme a quello del borotalco.
Io sono una mamma borderline, in bilico tra dolore e ricostruzione. Sono una mamma richiamata a essere donna dalla malattia di un figlio. Sono una madre che ha dovuto bussare con nocche insanguinate sul suo stesso corpo per cercare di svegliarsi, per poter salvare quello che poteva, gridando a ogni pugno sul petto il proprio nome. E quando la porta di sé si è spalancata ha provato vergogna per quel brivido di gioia nell’essersi riabbracciata, ritrovata in tutto quell’io che non si può rifiutare. Io ero una donna che sognava e che deve continuare a sognare per regalare spiragli di luce a chi ama. Questo alle madri fa paura, provoca vergogna. Noi che dovremmo invece perderci nella nostra famiglia e mettere ordine nei cassetti dei nostri figli dobbiamo necessariamente imparare a farlo mettendo prima in ordine il nostro cassetto. Sono i figli che lo domandano.
I figli, nel bene e nel male, tirano fuori il meglio dell’essere umano, e il meglio è la verità di se stessi. Sofia e Bruno hanno provocato la mia evoluzione, loro con tutta la loro storia. Accettare di essersi evoluti in qualcosa di positivo a causa della malattia di un figlio provoca nausea all’inizio. La malattia di mia figlia io la odio, odio la sindrome di Rett, se fosse una persona la farei a pezzi. E odio con tutte le mie forze il medulloblastoma che ha colpito il mio unico figlio sano. Ma proprio il dolore mi ha reso la più vincente tra i perdenti. La prima grande vittoria è stata riconoscermi sana, riguardarmi da una prospettiva diversa e constatare, infilandomi un pugnale nella pancia, che sono i miei bambini quelli malati, non io. Allora devo saltar giù dal letto e piantare bene i piedi per terra, perché io sono tutto quello che hanno. E quello che hanno è una persona che con loro rinomina il mondo.
Ho un taccuino nella borsa. Ci sono pagine con appunti di momenti in cui ho avuto freddo. Su tre righe sottolineate dalla matita c’è scritto: “Nessun consiglio di classe per me, peccato, ne avrei avuto bisogno”. Alcune persone hanno necessità di scrivere quello che sentono, devono dare una casa alle emozioni che prendono a rincorrersi lì, dentro al corpo, ogni volta che, fuori, la vita degli altri le invade. Io ai consigli di classe della scuola di Sofia non vado. La maestra Daniela ci prova sempre, me lo scrive sul libretto e su foglietti che infila nello zaino paiettato di Sofia. Ma io non ci vado più. Alla prima diserzione ho sperato che qualcuno si accorgesse del mio posto vuoto. Me ne sono stata come un innamorato con il telefono in mano aspettando un messaggio, una frase che mi riportasse al mio ruolo di madre e donna e membro di una piccola comunità scolastica. Quel messaggio non è mai arrivato. Se qualcuno mi avesse chiesto opinioni sui libri o sui pennarelli avrei parlato, mi sarei alzata in piedi sul mio metro e settantacinque e avrei sorriso consigliando vocabolari, matite dalla presa perfetta e gite scolastiche da lasciare senza fiato.
Se fossi stata presente alle riunioni avrei potuto portare tutta la mia esperienza di docente, avrei potuto usare quello che so senza tenerlo rinchiuso tra i pannolini di Sofia. Avrei detto ad alta voce quello che invece di solito scrivo su pizzini tra una medicina e l’altra.
Poi mi sarei trattenuta con gli altri genitori fuori da scuola a prendere un caffè e avremmo parlato delle maestre e dei nostri figli. Ché anche una come me desidera esternare la bellezza delle proprie creature. Se quel messaggio fosse arrivato io e Sofia saremmo state parte di qualcosa anche senza usare penne e quaderni, saremmo state di carne e di ossa. Tutti avrebbero potuto sapere dei suoi progressi a scuola con la sua super maestra, dei suoi sorrisi ogni volta che durante la cena prendiamo la foto di classe e indichiamo i suoi compagni. Avrei detto loro che secondo me Sofia è innamorata di Claudio, perché ogni volta che lo nomino la sua bocca si apre in un sorriso nuovo che non avevo mai visto. Se quel messaggio fosse arrivato allora anche gli altri, quelli normali, sarebbero entrati senza paura nel mio mondo, li avrei tenuti per mano e portati a non aver alcun timore delle crisi epilettiche o dei pianti di Sofia. Forse un giorno qualcuno di loro avrebbe perfino mandato un invito con i fiori stampati in rilievo per una merenda tra bambine, o addirittura un invito a un compleanno. Invece il silenzio del telefono mi ha lasciata lì come chi si è messo in ghingheri per un appuntamento e ha beccato anche la pioggia oltre l’offesa. Ammetto di essere un innamorato arrabbiato per delusione. Quindi diserto. Sono in ribellione. Faccio lo sciopero silenzioso. Non se ne accorge nessuno. E poiché soffro, allora me ne vado a spulciare poesie di sofferenza, per ritrovarmi. Leggo e rileggo tragedie shakespeariane per trovare amici, e prendo appunti, rileggo i filosofi per scovarmi nei loro pensieri, canto Caffè nero bollente della Mannoia come se fossi a un rave, traduco tutto quello che mi manda Angelo, il mio migliore amico, il mio spacciatore di testi stranieri. Gli scrivo un messaggio con quello che mi frulla in testa e lui mi costringe a tradurre autori che non conosco per cercare risposte. Io facevo lo stesso con mia sorella quando mi chiedeva di scriverle le lettere d’amore per i suoi fidanzatini.
In ciò che è già stato scritto c’è l’animo umano intero, ci sono le affinità con le emozioni, ci sono le case in cui mettersi a riposare. Il mio taccuino trattiene la rabbia e mi ricorda che oltre la mia versione dei fatti ce ne sarà sicuramente un’altra che mi sfugge, una in cui c’è un motivo per il ritardo all’appuntamento. Allora mi trascino dal taccuino a Emily Dickinson, che dà voce alla mia melanconia. Se avessi scoperto da bambina che qualcun altro, da qualche parte, aveva già trovato il modo di dare un nome a ciò che mi accadeva avrei sicuramente preso le sue parole e bussato alla porta del mio maestro di scuola dicendo: “Ecco, non rispondo dal banco perché mi sento così, maestro, mi sento come è scritto in questo libro!”. Gli avrei detto che il fiocco nero comparso improvvisamente sui capelli della mia compagna di banco mi inquietava, perché lei aveva perso il papà, e io avevo paura di perdere il mio ma non trovavo le parole per dirlo e “Non so cosa dire a lei, maestro”, e non so più niente perché a novi anni della morte non si parla.
Per questo leggiamo e scriviamo, per riviverci dentro i personaggi, per giudicarci e assolverci e comprenderci, per comunicare quello che la voce non riesce a fare quando è contratta dalle emozioni, per parlare della vita e della morte. Lo faccio anche con i miei bambini. Non so quanto Sofia riesca a trattenere di quello che le dico, ma quando mi sente fare Ofelia disperata in stanza sorride sempre su: «Povera me che ho visto quello che ho visto e vedo quello che vedo!».
La malinconia fa parte di me da sempre, sento il bello e il brutto del mondo troppo forti sulla mia pelle. È come se avessi un potere, e non sempre mi piace.
La tristezza degli altri la sento, la vedo in piccolissimi gesti di cui poche persone si accorgono. Riesco a sentire il disagio di un amico o la paura della vecchiaia di mio padre o la necessità di parlare del passato di mia madre. Quello che sento negli altri poi lo assecondo. Mi sposto verso di loro e provo a segnare la strada per lasciarli parlare. Sono una che parla con la tv, una che piange per ogni incidente d’auto che si poteva evitare e ogni bambino abusato che si poteva salvare.
Credo di essere nata con un animo senza corazza. Come se qualcuno si fosse dimenticato di mettermi una coperta. Sento i brividi anche se sotto la neve non ci sono io. Per questo peso sempre le mie parole, anche quando credo di aver ragione, per non ferire e a mia volta sentirmi ferita da quello che non sono riuscita a trattenere. Non è ipocrisia, non è buonismo, è l’opposto di quella cattiveria, travestita da sincerità, che qualcuno a volte ti sputa contro. È sentire la vita degli altri e cercare di capire cosa porti gli esseri umani a fare quello che fanno, anche nel male. È gioire in modo spudorato anche per la felicità non tua.
Un aggettivo ha sempre accompagnato i miei passi: bambina fragile, ragazza fragile, donna fragile. Io lo cambierei con nuda. In effetti credo di esserlo, un po’ stramba, ma questo mi ha regalato occhi per vedere oltre il dolore. Ho passato quasi tutta l’adolescenza a desiderare di morire e a far impazzire i miei genitori e mia sorella. Io mi innamoravo troppo e quel troppo straripava sempre in azioni sbagliate. Mi sono trascinata in quello stato melodrammatico ben oltre l’adolescenza e poi quando, anni dopo, ho sperimentato che tutto poteva finire davvero qualcosa è accaduto, mi è venuta una gran voglia di vivere. Non ho merito per questo, è accaduto perché non sono sola. È accaduto mentre attraversavo l’inferno. Potrei essere la donna con il bambino in braccio nel dipinto di Pellizza da Volpedo, Il quarto stato. Accanto a me Mario, e tutte le persone che mi permettono di avere la forza di protestare contro il destino o semplicemente di accettarlo. Prima di questo momento, di questa immagine, c’è stato il buio in cui mi ero persa. In cui tutti noi ci eravamo smarriti perché quando si ammala un bambino si ammala tutta la famiglia e congela passato e presente. Non mamma, non nonno, non zia, non bambino, non cugino. E si diventa invisibili.
Non ci si abitua a essere invisibili. Io non riesco ad abituarmici. Io e Sofia non rientriamo in nessuna categoria madre-figlia. Per un lungo periodo non ci sono stati gruppi in cui sentirmi confortata. Non frequentavo scuole di danza o di teatro. Non chiacchieravo con altre mamme e bambine di maestre e compiti. Non fantasticavo sul prossimo viaggio in Inghilterra o di quello che avrebbe fatto mia figlia da grande. Sofia non diventerà grande e io non sarò mai la mamma di una bambina di nove anni che ripete tabelline, di dieci che fa danza, di quindici che ha il primo fidanzato, di venti che studia all’estero. Semplicemente le tappe che contraddistinguono l’essere umano e che rendono le mamme un branco di donne con leggi comuni non mi appartengono. Io ne sono tagliata fuori. E tante grazie. Non c’è un posto per me sulla panchina del parco dove ci sono altri genitori che fanno amicizia tra di loro, perché io non posso sedermi se c’è Sofia con me. Sono in una chat in cui si scambiano compiti a ritmi frenetici senza che mai nessuno si chieda quali possano essere le mie reazioni ai non compiti di Sofia. In realtà non ho reazioni. Questo è il nostro mondo, un luogo dove a modo nostro entrano anche il teatro e la danza. E ho anche io un branco, fatto di altre mamme invisibili. Qualche volta però, in silenzio, a Natale o davanti a una torta con un’altra candelina, devo fare i conti con il fatto che il mondo normale vince 10 a 0 contro gli invisibili. E per non essere totalmente trasparente allora scrivo, canto e recito da sola in casa, perché l’arte e il bello mi hanno salvata dal buio, e salvano anche i miei figli.