Il lettore che, per giungere fin qui, ha dovuto immergersi nei meandri della politica polacca e ungherese, incontrando tante persone dai nomi difficili da pronunciare, potrebbe essere tentato di liquidare queste storie come meramente locali. A molti la crisi della democrazia europea può sembrare una sorta di problema «dell’Est», caratteristico di «paesi ex comunisti» che stanno ancora vivendo i postumi della sbornia del 1989. Alcuni attribuiscono il nuovo autoritarismo in Europa orientale al più ampio fallimento regionale nell’affrontare l’eredità del passato.
Ma tali spiegazioni sono inadeguate: questi movimenti, infatti, sono una novità . Ex Iugoslavia a parte, dopo il 1989 in Europa centrale non si assistette a nessuna ondata autoritario-nazionalista e antidemocratica. Il fenomeno è più recente, dell’ultimo decennio. E non è dovuto a mistici «fantasmi del passato», bensì a specifiche azioni di persone cui le loro democrazie non piacevano. Non piacevano perché erano troppo deboli o troppo imitative, troppo indecise o troppo individualiste, o perché al loro interno esse non stavano facendo personalmente carriera abbastanza in fretta. Non c’è nulla «dell’Est» nel risentimento di Jacek Kurski per il successo del fratello e nella sua convinzione di meritare di più. Non c’è nulla di «postcomunista» nella conversione di Mária Schmidt da dissidente a leccapiedi del regime: storie come queste sono antichissime e caratterizzano l’Ovest non meno dell’Est. Non c’è niente di speciale, in questo senso, nei territori che si stendono fra Mosca e Berlino.
Una bella notte, ad Atene, in un ristorante di pesce in una brutta piazza, raccontai la mia festa dell’ultimo dell’anno del 1999 a uno studioso greco di scienze politiche. Rise sommessamente di me. O meglio, rise insieme a me: non voleva essere scortese. Ma quella cosa che io chiamavo polarizzazione, per lui non era una novità . «Il momento liberale post-1989: è stata questa l’eccezione» osservò Stathis Kalyvas. L’anomalia è l’unità . La polarizzazione è normale. Anche lo scetticismo sulla democrazia liberale è normale. E il fascino dell’autoritarismo è eterno.1
Kalyvas è, fra le altre cose, autore di diversi celebri libri su guerre civili, fra cui la guerra civile greca degli anni Quaranta, uno dei tanti momenti della storia europea in cui gruppi politici radicalmente divergenti presero le armi e iniziarono a farsi fuori a vicenda. Ma in Grecia «guerra civile» e «pace civile» sono sempre state, anche nei momenti migliori, espressioni relative. Fra il 1967 e il 1974 il paese fu governato da una giunta militare spietata; nel 2008 scoppiarono ad Atene violente rivolte; pochi anni dopo era al potere, in coalizione con un partito di estrema destra, un partito di estrema sinistra. Mentre stavamo parlando, la Grecia viveva un momento centrista. All’improvviso, mi dissero molti ad Atene, era divenuto di moda essere «liberali», termine con cui essi intendevano né comunisti né autoritari. I giovani più avanzati si definivano «neoliberisti», parola che solo pochi anni prima era anatema. Questa moda si rivelò di non poco conto: un anno dopo la mia visita vinse le elezioni greche, divenendo primo ministro, un liberale centrista, Kyriakos Mitsotakis.
Tuttavia, anche i centristi più ottimisti non erano convinti che la svolta sarebbe durata. «Siamo sopravvissuti agli estremisti di sinistra» riflettevano cupamente diverse persone «e ora ci toccheranno gli estremisti di destra.» Da tempo covava un minaccioso conflitto sullo status della Macedonia settentrionale, l’ex repubblica iugoslava confinante con la Grecia; subito dopo la mia partenza, il governo greco espulse alcuni diplomatici russi accusandoli di avere tentato di fomentare nel Nord del paese un’isteria anti-Macedonia. Qualunque sia l’equilibrio raggiunto da una nazione, c’è sempre qualcuno, in patria o all’estero, che ha motivi per sconvolgerlo.
In Grecia la storia sembra circolare. Adesso c’è la democrazia liberale. Ma potrebbe succederle un’oligarchia, e poi tornare la democrazia liberale. Cui potrebbe fare seguito una sovversione di matrice straniera, un tentativo di colpo di Stato, una guerra civile, una dittatura o forse di nuovo un’oligarchia. È così perché così è sempre stato, fin dalla prima repubblica ateniese.
La storia sembra essersi fatta improvvisamente circolare anche in altre regioni d’Europa. La divisione che ha mandato in pezzi la Polonia somiglia a quella che spaccò la Germania di Weimar. Il linguaggio usato dall’estrema destra europea, con il suo appello alla «rivoluzione» contro le «élite» e i suoi sogni di violenza «purificatrice» e scontri culturali apocalittici, è talmente simile al linguaggio utilizzato un tempo dall’estrema sinistra europea da destare inquietudine. La presenza di intellettuali insoddisfatti e scontenti, che sentono che le regole non sono giuste e che ad avere influenza sono le persone sbagliate, non è neanche un’esclusiva dell’Europa. Moisés NaÃm, scrittore venezuelano, visitò Varsavia pochi mesi dopo l’ascesa al potere del partito Diritto e Giustizia, e mi chiese di descrivergli i nuovi leader polacchi: com’erano, come persone? Avanzai alcuni aggettivi: arrabbiati, vendicativi, risentiti. «Proprio come i chavisti, si direbbe» osservò. Ho visitato il Venezuela all’inizio del 2020 e sono rimasta colpita dalla miriade di modi in cui assomiglia non solo ai vecchi Stati marxisti-leninisti, ma anche ai nuovi regimi nazionalisti. Da un lato catastrofe economica e una carestia occultata, di cui non si parlava; dall’altro attacchi allo Stato di diritto, alla stampa, al mondo accademico e alle mitiche «élite». La televisione di Stato trasmetteva un’insistente propaganda e sfacciate bugie; la polarizzazione era così profonda da essere visibile nella stessa geografia di Caracas. In questo senso la città mi ha ricordato non solo l’Europa orientale del passato, ma alcune regioni del mondo occidentale del presente.
Una volta rifiutata l’aristocrazia, quando non si crede più che la leadership sia ereditata alla nascita, quando non si presume più che la classe dirigente goda del favore divino, la discussione su chi giunge a governare, su chi è l’élite, non ha mai fine. Per molto tempo alcuni in Europa e Nord America hanno pensato che l’alternativa più giusta al potere per eredità o per decreto fosse costituita da varie forme di competizione democratica, meritocratica ed economica. Ma democrazia e libero mercato possono dare esiti insoddisfacenti anche in paesi mai occupati dall’Armata Rossa e mai governati da populisti latinoamericani, specialmente se sono mal regolamentati, o quando nessuno si fida di chi stabilisce le regole, o quando le persone entrano nella competizione da punti di partenza estremamente diversi. In queste competizioni i perdenti sono destinati, prima o poi, a mettere in discussione il valore della competizione stessa.
Soprattutto, i principi della concorrenza, anche quando promuovono il talento e creano una mobilità verso l’alto, non rispondono a domande più profonde sull’identità nazionale o personale. Non soddisfano il desiderio di unità e armonia. E, cosa ancora più importante, non soddisfano il desiderio di alcuni di appartenere a una comunità speciale, una comunità unica, una comunità superiore. Questo non è un problema che riguarda solo la Polonia, l’Ungheria, il Venezuela o la Grecia. Può presentarsi in alcune delle democrazie più antiche e stabili del mondo.
Incontrai per la prima volta Boris Johnson una sera di molto tempo fa a Bruxelles in compagnia di mio marito, suo amico dai tempi di Oxford, anche se in questo caso la parola «amico» è ambigua. Per essere più precisi, erano entrambi membri del Bullingdon Club, un’istituzione squisitamente oxfordiana che fiorì negli anni Ottanta. Non sono sicura che i membri del Bullingdon fossero necessariamente «amici»: erano rivali, compagni di bevute, ma non credo che nei momenti difficili molti di loro piangessero sulle spalle l’uno dell’altro.
Se non avesse prodotto due primi ministri, Johnson e David Cameron, oltre a un cancelliere dello Scacchiere, il Bullingdon sarebbe svanito in una meritata oscurità . Già negli anni Ottanta era una parodia di se stesso, ed Evelyn Waugh l’aveva messo in ridicolo mezzo secolo prima, nel 1928, nel romanzo Declino e caduta. Il libro inizia con una famosa descrizione della «festa annuale del Bollinger Club»:
Un suono più lacerante si udì a un tratto provenire dall’alloggio di Sir Alistair; da far rabbrividire al solo ricordo, a distanza di anni; il baccano delle famiglie inglesi di provincia quando strepitano a vuoto.2
So per certo che alcuni compagni di Johnson nel club sono ora profondamente imbarazzati dal Bullingdon, con la sua uniforme da dandy in stile Regency – frac, gilet di seta giallo, papillon blu –, le sue sbronze a base di champagne, la sua fama di luogo in cui si facevano a pezzi mobili e finestre, i suoi pretenziosi legami, o meglio pretesi legami, con la vecchia aristocrazia. Ma altri, e credo che in questa categoria rientrino sia mio marito sia Johnson, lo ricordavano come una sorta di gioco prolungato. Con poche eccezioni, i suoi membri non erano aristocratici o, se lo erano, non erano alti aristocratici. Johnson era figlio di un burocrate della UE ed era cresciuto in parte a Bruxelles. Mio marito Radek era un profugo proveniente dalla Polonia comunista, anche se dotato di un senso dell’umorismo britannico. Entrambi giocavano con le vecchie forme del sistema di classe inglese, recitandone alcuni ruoli perché li divertiva. Al Bullingdon se la spassavano non malgrado, ma proprio per la feroce parodia che ne aveva fatto Waugh.
Quando cenammo con Johnson, egli era il corrispondente da Bruxelles del «Daily Telegraph», di fatto il quotidiano del Partito conservatore britannico. Dopo un paio d’anni in quel ruolo s’era già fatto un nome. La sua specialità erano storie divertenti, semivere, costruite a partire da un granello (e a volte meno) di verità , che mettevano in ridicolo la UE dipingendola invariabilmente come una fabbrica di follie normative. I suoi articoli avevano titoli quali Minaccia per le salsicce rosa britanniche, e riferivano (false) voci secondo cui i burocrati di Bruxelles, per esempio, si apprestavano a mettere al bando gli autobus a due piani o le patatine al cocktail di gamberi. Benché chi sapeva come stavano le cose ne ridesse, quelle frottole avevano un impatto. Altri direttori chiesero ai propri corrispondenti da Bruxelles di scoprire storie dello stesso genere; e i tabloid si affrettarono a mettersi al passo. Anno dopo anno, quel tipo di narrazione contribuì a diffondere un sentimento di sfiducia per la UE che avrebbe aperto la strada, molto tempo dopo, alla Brexit. Di tale influenza Johnson era ben consapevole, e ne godeva. «Lanciavo quei sassi, per dir così, al di là del muro del giardino e stavo ad ascoltare quel meraviglioso rumore di vetri rotti che proveniva dalla serra accanto, in Inghilterra» avrebbe confessato alla BBC anni dopo in un’intervista straordinariamente schietta. «Tutto quello che scrivevo da Bruxelles aveva un incredibile effetto esplosivo sul Partito conservatore; e mi dava davvero, direi, un curioso senso di potere.»3
A Londra quel «meraviglioso rumore di vetri rotti» faceva inoltre vendere i giornali, e anche per questo Johnson, pur suscitando risolini, fu tollerato tanto a lungo. Ma un’altra ragione, più profonda, era che quelle storie non propriamente corrette facevano leva sugli istinti radicati di una certa specie di conservatori nostalgici, lettori e redattori del «Daily Telegraph», del «Sunday Telegraph» e del periodico a essi affine, lo «Spectator», allora tutti e tre di proprietà del medesimo uomo d’affari canadese, Conrad Black. Io conoscevo molto bene quel mondo. Più volte scrissi corsivi per il «Telegraph» e il «Sunday Telegraph»; e lavorai allo «Spectator», divenendone infine vicedirettore dal 1992 al 1996, periodo in cui esso era guidato da Dominic Lawson, un direttore brillante, fra i migliori che abbia mai avuto. A quel tempo il periodico aveva sede in Doughty Street, in locali malandati non ristrutturati da decenni. Ma le nostre feste estive e i nostri pranzi, che duravano a volte tutto il pomeriggio, attiravano lo stesso un’eccentrica gamma di ospiti di spicco, da Alec Guinness e Clive James a Auberon Waugh, figlio di Evelyn, e alla duchessa del Devonshire.
A quell’epoca il tono di ogni conversazione e di ogni riunione di redazione era ironico, di ogni colloquio professionale divertente; non c’era un momento in cui lo scherzo finisse o l’ironia cessasse. Anche gli articoli più convenzionali avevano titoli fantasiosamente spiritosi. Fra le tante m’è rimasta impressa una trovata di Lawson per quello che doveva senza dubbio essere un articolo mortalmente serio sulla Polonia: «Gdansking su ghiaccio sottile».a Era un momento storico singolare, in cui per esempio Enoch Powell, controverso politico tory antimmigrazione di una generazione precedente, era contemporaneamente un occasionale ospite a pranzo, un’autorità riverita e anche, per qualche ragione, un personaggio di cui tutti ridevano. C’erano giornalisti tory e parlamentari tory che facevano a gara attorno al tavolo da pranzo su chi riuscisse a fare la migliore imitazione di Enoch. Forse lo fanno ancora.
Sarebbe profondamente inesatto dire che la cerchia di persone che gravitava attorno allo «Spectator», se è lecito affermare che facessero qualcosa di così impetuoso come «gravitare», fosse in realtà nostalgica del passato imperiale della Gran Bretagna. Nessuno negli anni Novanta desiderava riavere l’India, come nessuno lo desidera oggi. Ma c’era nostalgia per qualcos’altro: un mondo in cui a dettare le regole era l’Inghilterra. Forse «nostalgia» non è la parola giusta, perché i miei amici dello e attorno allo «Spectator» non pensavano di stare guardando all’indietro. Erano convinti che fosse ancora possibile per l’Inghilterra dettare le regole, fossero quelle del commercio, dell’economia o della politica estera: i suoi leader dovevano soltanto prendere il toro per le corna, prendere in mano la situazione; non dovevano fare nient’altro.
Ora penso che, fondamentalmente, fosse questo che apprezzassero in Margaret Thatcher: che andava nel mondo e faceva accadere le cose. L’apprezzavano quando agitava la borsetta in faccia agli europei, chiedeva uno sconto al bilancio della UE, mandava una task force a rioccupare le isole Falkland. Alcuni dei risultati che ottenne si sarebbero rivelati puramente simbolici o non particolarmente utili: finita la guerra, per esempio, nelle Falkland non si recò quasi nessuno e nessuno pensò più granché a quel pezzo di terra. Ma fu l’atto di sfida, la determinazione a essere chi decide, non meramente chi negozia, a conquistarle la loro ammirazione.
A quel tempo pensavo anche che i miei amici credessero nella diffusione della democrazia e del libero scambio in tutta Europa, e forse ci credevano. Certamente ci credeva la Thatcher. La lotta al comunismo fu una vera battaglia che, sia retoricamente sia geostrategicamente, la Lady di Ferro contribuì a far vincere. Il mercato unico europeo, la grande zona di scambio in cui le regole sono coordinate in modo che produzione e commercio non incontrino ostacoli in tutto il continente, fu in realtà un’idea thatcheriana, e frutto in gran parte della diplomazia britannica. È l’accordo di libero scambio più profondo mai concepito, e proprio per questo la sinistra protezionista dello spettro politico europeo l’ha sempre detestato.
Più recentemente sono giunta a sospettare che la «democrazia», almeno come causa internazionale, fosse per un certo tipo di conservatori nostalgici molto meno importante del mantenimento di un mondo in cui l’Inghilterra continuasse a svolgere un ruolo privilegiato: un mondo in cui essa non fosse una potenza di media grandezza qualunque, come la Francia o la Germania; un mondo in cui essa fosse speciale, e magari anche superiore. Anche per questo alcuni conservatori nostalgici hanno sempre nutrito diffidenza per il mercato unico che la Gran Bretagna contribuì in così larga misura a creare. L’Inghilterra era, ai loro occhi, l’unico paese europeo che poteva legittimamente rivendicare la vittoria nella seconda guerra mondiale, il paese che non era mai stato invaso, che non s’era mai arreso, che aveva scelto di stare dalla parte giusta fin dal primo momento, e l’idea che avrebbe potuto, nel XXI secolo, stabilire le sue regole solo insieme ad altri paesi europei era per loro semplicemente inaccettabile. E mi sto riferendo all’Inghilterra, non alla Gran Bretagna. Se negli anni Novanta i britannici stavano ancora combattendo contro l’IRA a Belfast e i miei amici tory si definivano sempre «unionisti», il nazionalismo inglese era già in crescita e, accanto a esso, era in crescita il nazionalismo scozzese, che avrebbe portato pochi anni dopo alla devolution e ad appelli all’indipendenza della Scozia.
Retrospettivamente è chiaro che gran parte di quanto i miei amici dicevano e scrivevano allora sul mercato unico era, come gli articoli di Johnson sul «Telegraph», pura fantasia. Nessuno nella UE imponeva regole alla Gran Bretagna: le direttive eu...