Marco Maletti aveva trentacinque anni e passava metà del suo tempo a chiedersi: “Tutto qui?”.
Non che potesse lamentarsi. L’Italia era stretta da anni fra crisi economica e precariato diffuso, ma lui aveva trovato un posto stabile come informatico subito dopo la laurea, e su quello aveva costruito con facilità un piccolo impero: una casa grande, una bella moglie, due figli in salute, un’auto invidiabile, un discreto conto in banca. Da qualche tempo i soldi avevano smesso di aumentare, vero, ma nemmeno calavano, e a conti fatti gli avrebbero garantito sonni tranquilli per tre, quattro anni anche se ogni cosa intorno a lui fosse andata improvvisamente storta.
Eppure passava metà del suo tempo a chiedersi “Tutto qui?”, e l’altra metà a sperare che ogni cosa intorno a lui andasse improvvisamente storta.
Non poteva lamentarsi, questo no.
Ma giorno dopo giorno si svegliava sempre più svuotato.
Quel freddo lunedì di fine marzo la radiosveglia era puntata alle sei e mezzo, ma lui era in piedi già dalle quattro: Ricky, il suo primogenito, si era svegliato urlando, e Marco si era alzato come sempre per portarlo in bagno, dargli da bere e rimetterlo a letto. Quando era riuscito a riaddormentarlo, una buona mezz’ora dopo, era stato il turno di Edo, il secondogenito, che ancora prendeva il latte e aveva deciso di non averne abbastanza in corpo. Marco lo aveva raccolto dalla culla e dondolato tra le braccia per quasi un’ora prima di arrendersi e portarlo con sé nel letto matrimoniale, dove Elsie, la sua statuaria moglie danese, dormiva il sonno stremato delle madri. Il piccolo si era fatto strada verso di lei e aveva trovato da solo ciò che gli serviva. Succhiando il latte faceva tanto rumore che Marco non era riuscito a chiudere occhio, anche a causa di un pensiero ignobile che lo assillava da settimane: quel poppante aveva accesso a sua moglie e lui no.
Ci stava ancora pensando un’ora dopo, mentre sedevano tutti insieme intorno al tavolo della cucina per fare colazione, storditi dai cartoni animati a tutto volume e dai capricci alternati dei bambini. Marco guardava sua moglie, cercando di ignorare il pigiama di flanella con i cuoricini che da qualche anno aveva eletto a tenuta da casa. Un tempo Elsie era stata molte cose: elegante, appassionata, divertente, stimolante, energica. Poi erano intervenuti il matrimonio e le due gravidanze, e da tante cose ne era diventata una sola: stanca. «Sono stanca» diceva a Marco svegliandosi la mattina. “Sono stanca” gli scriveva via email durante il giorno. Alla sera, rientrando dal lavoro, lo salutava dicendo «Non sai come sono stanca», e quando i bimbi avevano cenato, fatto il bagno, letto le storie e preso finalmente sonno, nell’intimità faticosamente ritrovata lei gli confessava in un sussurro: «Sono così stanca…». Poi si metteva a russare, leggermente ma implacabilmente.
Non si contavano le sere che Marco aveva iniziato un discorso per poi scoprire dopo svariati minuti che Elsie si era addormentata da chissà quanto. Un tempo era stata una forte lettrice, ma ormai leggeva solo a letto la sera, e dopo poche righe la testa le cadeva sul libro, che Marco le sfilava con delicatezza e delusione dalle mani per riporlo sul comodino. Erano sei mesi che Elsie aveva iniziato Anna Karenina, e non era andata oltre pagina 42. Una volta Marco aveva fatto una battuta al riguardo: con il matrimonio alcuni si sposano, le aveva detto, altri invece si spossano. Ma era una battuta amara, e nessuno dei due aveva riso granché.
«Be’» disse lei ora, notando il suo sguardo sopra il caffè. «Cos’hai?»
«Nulla» rispose Marco. Nulla che possa dire, almeno.
«Ti ricordi che oggi devi chiamare il commercialista per la dichiarazione dei redditi? Poi ci sono le analisi da ritirare durante la pausa pranzo. E non dimenticare di stendere, prima di uscire. Ieri ti sei scordato e ho dovuto risciacquare tutto il bucato. Ah, nella mia macchina si è accesa una spia strana, scriviti che dobbiamo controllarla. E ci sono sempre quei soldi fermi sul conto, dovresti chiedere a qualche collega come investirli…»
Marco prendeva nota di tutto e intanto pensava: Quando è stato? Quando è successo che il nostro matrimonio è passato dall’amore alla logistica?
Dopo la colazione venivano le docce. Riccardo era abbastanza grande da lavarsi da solo, in piedi, ma questo significava introdursi per metà nel box per bagnarlo, insaponarlo e poi sciacquarlo, un’operazione lunga e faticosa che toccava a Marco perché Elsie aveva la schiena a pezzi. Edoardo invece faceva la doccia in braccio, e siccome pesava quasi quanto il fratello maggiore pur avendo due anni di meno, solo Marco era in grado di reggerlo.
Tra colazione, doccia, asciugatura e vestizione, i bimbi gli portavano via ogni mattina un’ora abbondante, durante la quale preparava anche se stesso a rotta di collo mentre Elsie, nell’altro bagno, si faceva bella per il lavoro. Insegnava Sociologia delle relazioni all’università, e questo comportava una cura nel vestire e nel truccarsi che Marco capiva. Un po’ meno capiva per quale motivo sua moglie sentisse il bisogno di essere bella solo fuori casa, ma questo, aveva imparato, non era un argomento di conversazione a quell’ora del mattino.
Alle otto e mezzo arrivò la baby-sitter per ritirare i bambini e portarli all’asilo. Marco la ringraziò e li baciò, facendo attenzione a non invertire le due azioni. Poi si preparò al confronto con la moglie, che arrivò pochi secondi dopo con la solita frenesia mattutina.
«Non trovo la mia pashmina, l’hai vista?» gli chiese furiosa.
«Non so neanche cosa sia» rispose lui.
«Fai poco il furbo. Sono stanca morta, e sono in ritardo. Potrei morderti.»
Marco sapeva per esperienza che era possibile, ma non poteva tirarsi indietro. Contò mentalmente fino a cinque, poi si buttò: «Senti, venerdì sera ci sarebbe una cena con i colleghi…».
Elsie si voltò di scatto, lo trapassò con lo sguardo. «Venerdì? Starai scherzando. È l’unica sera che siamo in casa insieme, e dobbiamo controllare tutti gli scontrini dell’anno scorso. Per non dire che non hai ancora prenotato le ferie, e ormai è tardi, non troveremo più nulla. Ma tanto, se non ci penso io, non andiamo da nessuna parte, vero?»
«Elsie, non esco da due mesi.»
«E io non esco da due anni. Succede, quando hai figli. Non mi fai pena» disse lei. Discorso chiuso. «Ora vado» aggiunse decisa, e sporse le labbra. Lui si fece avanti per intercettarle, ma lei stava già aprendo la porta e finì per sfiorargli soltanto una guancia con i lunghi capelli biondi. Poi si voltò e in un attimo era oltre la soglia, i tacchi che battevano rapidi come grandine giù per le scale esterne.
Marco rimase impalato davanti alla porta aperta, con le labbra ancora schiuse e un senso di vuoto che si espandeva rapido nel petto.
Il silenzio improvviso lo sprofondò in una sensazione di irrimediabile solitudine. Gli tornò in mente una frase di Thoreau, il profeta di Walden: la maggior parte delle persone trascorre vite di pacata disperazione. La prima volta che l’aveva letta, da ragazzo, aveva sentito l’orrore insinuarsi dentro di lui, e aveva giurato a se stesso che mai, mai, mai si sarebbe ridotto così. Non era tanto la disperazione a spaventarlo, quanto la pacatezza. La rassegnazione pacifica. L’accettazione del vuoto.
Ora, nella grande casa finalmente deserta, Marco pensò che era scappato tutta la vita da quello spauracchio solo per gettarsi dritto nelle sue fauci. Aveva creduto che il benessere potesse salvarlo, e perciò si era impegnato, a lungo e duramente, per ottenere il benessere; era stato saggio e accorto nelle spese e negli investimenti; aveva meditato su ogni nuovo acquisto o nuovo passo. Il matrimonio solo per amore. Il lavoro solo per passione. I figli quando erano davvero desiderati. La casa grande ma non impossibile da gestire. Troppo tardi si era accorto che a ogni passo accorto, a ogni scelta ponderata, a ogni saggia decisione della sua impeccabile gestione si era chiuso sempre più in un angolo. E ora eccolo lì, descritto dalla stessa maledetta frase dello stesso maledetto Thoreau. Solo con una piccola correzione: la sua disperazione non era pacata, ma ben pagata.
Quando parcheggiò la BMW lucida nel piazzale della Banca Popolare di Mutina erano appena le otto e cinquantacinque, Marco però si sentiva come se avesse già vissuto una giornata intera. Spense il motore, tolse la chiave dal quadro, abbassò l’autoradio fino a un brusio smorzato. La pioggia batteva leggera sul parabrezza. Nell’abitacolo faceva freddo. E lui rimaneva lì, con gli occhi che pungevano e un vago senso di nausea.
Avanti, si disse. Al lavoro. Il lavoro ti piace.
Inspirò a fondo. Sospirò.
«D’accordo» sussurrò a se stesso. Poi con una rapida sequenza di gesti spense la radio, si slacciò la cintura, tirò la leva della portiera e si spinse fuori dall’auto. Una volta in piedi si aggiustò il cappotto, chiuse con energia la portiera e premette il pulsante sulla chiave. La BMW squittì felice, e lui pensò che chi aveva scelto quel suono tra milioni sapeva il fatto suo: era un suono che dava energia.
Si voltò per incamminarsi verso l’ingresso degli uffici, ragionando se quella pioggia leggera non richiedesse comunque l’uso dell’ombrello che teneva nel bagagliaio, quando all’improvviso lo vide.
Dritto davanti a lui, piantato in mezzo al parcheggio come una visione, vestito di nero da capo a piedi, neanche fosse un becchino o un malvagio dei fumetti.
Lans.
Marco sentì un brivido scuotergli la spina dorsale.
Lans Iula.
Lì davanti a lui.
Dopo tutto quel tempo.
Il primo pensiero fu: Sono otto anni che non lo vedo.
Il secondo: È sempre bello in modo irreale.
Come se gli avesse letto nella mente, l’uomo in nero sorrise. «Ti trovo bene» disse con voce grave.
Era lontano una decina di metri, e il suo era stato poco più che un sussurro, Marco però lo sentì perfettamente, come se gli avesse parlato per telepatia. «Anche tu sei in forma» disse. «Che ci fai qui? Quando sei…?»
«A ottobre» rispose l’uomo in nero muovendosi verso di lui. «Scusa se non ti ho cercato prima, ma non è stato facile.»
Marco non credeva ai suoi occhi: erano otto anni che non vedeva il suo miglior amico di tutta una vita, e dieci mesi da quando gli aveva scritto l’ultima lettera. Di solito ne spediva una ogni tre settimane e riceveva risposta a breve giro. Poi, un anno prima, la corrispondenza si era interrotta senza spiegazioni. Marco aveva scritto altre due lettere temendo che l’ultima fosse andata smarrita, ma nulla. Lans non aveva più risposto.
Lo guardò. Si era fermato a un metro da lui e lo fissava negli occhi con quel lieve sorriso a labbra chiuse. È cambiato, si disse Marco con stupore. Da vicino si notano le rughe. Sembra sempre un attore del cinema, ma è invecchiato, e non solo di otto anni.
«Be’, è bello vederti» gli disse. Sorrise a sua volta, gli tese la mano.
Lans scosse la testa, poi si avventò su di lui, serrandolo in un abbraccio.
«Ehi» disse Marco assorbendo l’impatto. «Ehi» ripeté battendogli le mani sulla schiena. Dopo l’imbarazzo iniziale, sentì i muscoli sciogliersi nel calore della stretta. I suoi occhi tornarono a pungere.
«Mi sei mancato» disse Lans.
«Anche tu» si trovò a rispondere Marco.
L’altro si staccò e tornò a guardarlo negli occhi. Marco ebbe l’impressione che stesse cercando di leggere qualcosa, qualcosa che prima non c’era e si aspettava di trovare adesso, dopo l’abbraccio.
Ma Lans non disse nulla al riguardo. Aveva altro per la testa.
«Ho bisogno del tuo aiuto.»
«Qualsiasi cosa.»
«C’è stato un omicidio.»
La frase colpì Marco come un pugno.
«Una ragazza. Uccisa in casa sua. La polizia accusa un uomo, un mio amico, ma io so che è innocente. Devi aiutarmi.»
«Aiutarti?» chiese Marco in un fiato.
«A dimostrare che non è stato lui.»
«Un tuo amico del Sant’Agnese?»
C’era diffidenza nella voce di Marco. Lans si adombrò. Era normale, ma faceva lo stesso male. «Sì» disse. «Un mio compagno. Ma non è stato lui.»
«Hai le prove?»
Lans scosse di nuovo la testa. «Lo conosco. È impossibile che l’abbia uccisa. Se lo incontrassi diresti lo stesso. E lo incontrerai. Prima però devo spiegarti di cosa si tratta. Come puoi aiutar...