Il mio avversario era un mercante di mezza età di nome Brom Baltus che si era fermato alla Taverna del Canarino Silenzioso nella speranza di trovare un po’ di compagnia femminile e giocare un paio di partite di “Né l’uno né l’altro” prima di fare l’ultimo tratto di strada con la sua merce: un carretto di mele, formaggi e vini pregiati. Per lui fu una sventura sedersi al tavolo da gioco con me; alla fine della partita sarebbe stato fortunato ad andarsene con i soldi sufficienti per pagarsi un passaggio a casa dalla moglie infelice, non certo per comprare un’ora o due del tempo prezioso di una ragazza della taverna. Mi sarebbe dispiaciuto privarle di un buon affare, ma a giudicare da quanto puzzava, nessuna di loro l’avrebbe rimpianto.
Brom si chinò in avanti per scoprire la sua penultima mano. Il suo sorriso compiaciuto rivelò una bocca piena di denti macchiati di tabacco. «Tom il Triste» disse, spingendo la carta verso di me. «È ora di alzare la posta, signorina, o di ritirarsi.»
Guardai accigliata la carta, che rappresentava un ragazzo dall’aria mesta e gli occhi in giù, che stringeva una margherita a quattro petali appassita. Era una mossa sorprendentemente saggia per un uomo che si era bruciato i baffi cercando di accendere la pipa non più di cinque minuti prima. Avevo già giocato quasi tutto quello che avevo deciso di puntare (dodici corone d’oro guadagnate in due mesi di giocate attente) e mi era rimasto poco con cui arricchire il piatto. Se non avessi dato a Tom il Triste qualcosa per tirarlo su di morale, avrei perso tutto, anche il carretto.
Esitai solo un attimo prima di prendere dalla tasca l’ultima cosa di valore che avevo: un bell’anello d’oro bianco con una splendida gemma. Non lo portavo da mesi, ma in qualche modo non riuscivo a metterlo via. Anche ora, mentre lo mettevo al centro del tavolo e la pietra rifrangeva la luce della candela in mille frammenti di arcobaleno, trepidavo all’idea di perderlo. Ma avevo dei piani da seguire, piani costosi, e la merce di Brom avrebbe contribuito notevolmente a coprire le perdite.
«La migliore gioielleria di Achlev» dissi. «Pura pietra di luneocite, sapientemente tagliata e incastonata ad arte.»
«E cosa ti fa pensare che valga…?»
«Apparteneva alla defunta regina Irena de Achlev» dissi. «Ci sono incise le sue iniziali e il sigillo dei de Achlev.» Unii le punte delle dita e mi sporsi in avanti, con la testa un po’ inclinata e gli occhi ancora nascosti dal cappuccio scuro. «Immagina cosa pagherebbero le dame di corte a Syric per un simile souvenir.»
A Brom brillavano gli occhi: sapeva esattamente che prezzo avrebbe ottenuto. Le reliquie della dinastia caduta dei de Achlev erano diventate molto ambite tra i ricchi di Syric.
E se era dell’ultima regina, poi… doveva valere il doppio della pila di monete sul tavolo. Dissi con calma: «Sicuramente Tom il Triste non è più così triste».
«In effetti no» disse lui con un sorriso soddisfatto. «Vedo le tue carte. Fai la tua prossima mossa, signorinella.»
Signorinella. Se un uomo avesse alzato la posta in quel modo, sarebbe stato accolto con sospetto. Perfino quello sciocco si sarebbe almeno chiesto: “Che tipo di mano giustificherebbe una posta così stravagante?”. Ma poiché ero una donna, e anche giovane, Brom Baltus vedeva la mossa come il segno che aveva già avuto la meglio su di me. Che mi aveva messo all’angolo e che avevo ingenuamente gettato via la mia ultima esca, solo per restare in gioco.
Cosa aveva detto Delphinia? “Non si giocano le carte, ma il giocatore.”
Eravamo ancora a due mosse dalla fine, ma avevo già vinto.
Aspettai che Brom si sentisse sicuro, usando il mio turno successivo per giocare il Fabbro Elegante, sontuoso dalla grande barba marrone e le vesti con i fronzoli, tutto preso a martellare felice nella sua fucina. Il mio avversario fece proprio ciò che pensavo e scambiò la carta dell’equilibrio con una carta scisma e poi giocò la Dama Spietata. Si appoggiò allo schienale con un ghigno, sicuro di aver appena vinto. «La Dama Spietata ha appena messo il tuo Fabbro nella fornace» mi disse. «È ora di pagare.»
«Ah» dissi, «ma il fabbro se ne sta per conto suo. Non ha bisogno dell’approvazione della Dama Spietata.» Mi sono concessa un accenno di sorriso. «Il che significa che ho una carta in più da giocare.»
Scoprii l’ultima carta con deliberata lentezza, gustandomi molto più del necessario il cambiamento dell’espressione di Brom – disinteresse, seguito subito da sgomento, stupore e disdetta – mentre si rendeva conto di quello che avevo fatto.
A fissarlo c’era la Regina Bifronte.
La carta raffigurava due versioni della stessa donna, una con i capelli scuri come la notte su uno sfondo innevato, l’altra con i capelli bianchi come ghiaccio sullo sfondo di una foresta nera. Erano nella stessa posizione, come se la linea che le divideva e bisecava la carta fosse uno specchio. E in effetti, la carta stessa si comportava come uno specchio, rimandando ai giocatori il loro stesso gioco. Le mie carte erano state tutte di equilibrio, mentre le sue erano state uno scisma dopo l’altro. Aveva, in effetti, annientato se stesso.
Ripresi l’anello dal mucchio di monete e lo feci roteare intorno alle punte delle dita, concedendomi un solo momento di malinconia prima di rimetterlo in tasca. «Molto bene» dissi, in tono brusco ed efficiente, «dove ritiro la mia vincita?»
Mentre Brom andava a lamentarsi di me da Hicks, il proprietario della taverna, io salii nella mia piccola stanza per nascondere un po’ delle mie vincite. Era poco più di un ripostiglio, soprattutto se paragonata ai sontuosi alloggi occupati dalle ragazze in fondo al corridoio; ma aveva una grande finestra che dava sulla facciata anteriore della taverna e sull’ampia distesa erbosa della campagna Renaltana. A volte mi prendeva il panico se le cose si facevano troppo buie o troppo silenziose; questa stanza e il trambusto della taverna mi andavano benissimo.
Le ragazze non capivano la mia testardaggine nel tenere quella camera, nonostante potessi permettermene una più grande con tutte le mie vincite a carte, ma in effetti loro si preoccupavano sempre per me. Era facile voler bene a quelle ragazze e, nonostante la mia iniziale reticenza, eravamo diventate subito amiche. Mi avevano insegnato le strategie di gioco e, durante le mie partite, a volte mi suggerivano qualche indizio sulla mano del mio avversario. Le ricambiavo con qualche moneta ogni volta che i loro suggerimenti si rivelavano particolarmente preziosi. Erano tutte nate con nomi diversi, ma quando, una dopo l’altra, erano venute a lavorare al Canarino Silenzioso, ognuna di loro aveva scelto un nuovo nome. Ora si facevano chiamare Lorelai, Rafaella, Delphinia e Jessamine, nomi che suonavano bene; pronunciarli insieme era come lasciar cadere tra le dita gemme dai colori sgargianti.
Costruito all’incrocio tra quattro delle province più remote di Renalt, al Canarino Silenzioso si facevano sempre affari, sia sopra il tavolo sia sotto; era un porto sicuro tanto per il commerciante onesto quanto per il tagliagole di strada. Era abbastanza lontano da Syric da renderne scomodo il controllo, ma abbastanza centrale da essere un punto di passaggio facile per i mercanti e i viaggiatori che attraversavano il paese. Era un posto dove potevi essere chiunque volessi: nessuno ti avrebbe messo in dubbio e a nessuno importava. Sapevano esattamente chi ero, ma non mi facevano sentire diversa.
Delphinia stava scendendo le scale con un cliente mentre io salivo. «Buonasera, Delphinia. Padre Cesare» dissi loro mentre passavamo.
«Sei di buon umore. Serata interessante?» chiese Delphinia.
«Molto» dissi. «Avevi ragione sull’uso della Regina Bifronte. Brom Baltus non se l’aspettava proprio.»
Il sorriso di Delphinia si spense un poco. «Non ti fidare di quell’uomo, Aurelia. È cattivo… non è un tipo da prendere in giro.»
La rassicurai. «È furioso, naturalmente, ma Hicks se lo leverà dai piedi in men che non si dica.»
Quel sant’uomo di Hicks aveva sviluppato una flemma imperturbabile da quando era proprietario del Canarino Silenzioso. Se nessuno era morto o stava morendo, Hicks preferiva essere lasciato al suo hobby di intagliare giocattoli e gingilli, come la scatola rompicapo che avevo comprato da lui per regalarla a Conrad. Di certo non avrebbe alzato un mignolo per interferire con i risultati di una bella partita di “Né l’uno né l’altro”.
Delphinia non sembrava convinta, ma io mi voltai verso padre Cesare. «Qualche novità per me oggi?»
L’affabile sacerdote cominciò a tastarsi la toga. «Sì, mia cara» disse. «In effetti, stamattina è arrivato al sanctorium un pacco per te, da parte di un certo Simon Silvis. È per questo che sono venuto stasera.» Al sorriso compiaciuto di Delphinia aggiunse: «Be’, uno dei motivi».
«Simon?» dissi, incredula. All’indomani della caduta di Achlev, Simon aveva deciso di ritirarsi nella solitudine del palazzo dell’Assemblea abbandonato, dicendoci che preferiva dedicare il resto dei suoi anni allo studio, libero dai dolori quotidiani e dalla tensione di un regno in guerra con se stesso.
Che avesse scelto di ritirarsi nell’unico posto al mondo che non poteva essere trovato a meno di non sapere già dove si trovava era significativo: voleva essere lasciato in pace. Non potevo certo biasimarlo, ma non avrei mai pensato di avere ancora sue notizie. «Perché le avrebbe mandato qualcosa per me?»
Padre Cesare mi consegnò un pacchetto e disse: «Succede più spesso di quanto si pensi. Noi del sanctorium Stella Regina siamo noti per la nostra… discrezione… in certe questioni. Abbiamo una mentalità più aperta della maggior parte dei nostri confratelli, soprattutto quelli del braccio giudiziario della fede». Inarcò le sopracciglia in modo eloquente; si riferiva al Tribunale.
Slegai lo spago e tirai via la carta. All’interno c’era un libro di età indeterminata, rilegato in pelle di un profondo verde smeraldo e intarsiata con un disegno in oro rosa pallido che ricordava dei rami sottili. Lo aprii e cominciai a sfogliare lentamente le pagine delicate.
Erano piene di disegni arcaici di motivi circolari e di strane figure, con annotazioni in una lingua che non riconoscevo. «Non capisco» dissi alla fine. «Perché Simon me l’ha mandato? Non riesco a leggerlo.»
«Sono l’archivista del sanctorium.» Cesare si chinò, e osservò il libro da vicino, con gli occhiali che teneva appesi al collo. «Non sono così colto come un uomo dell’Assemblea, certo, ma non credo sia immodesto dire che ho un certo talento per il volgare antico. Ah, sì! Questo è scritto nel dialetto preAssemblea preferito dai clan femminili di Ebonwilde. Direi circa 450 PA.»
«Stai dicendo che quel libriccino ha duemila anni?» Delphinia rimase a bocca aperta.
«Forse non il libro in sé, ma la lingua in cui è scritto, sì. Secolo più, secolo meno, sì.»
«Ma cosa dice?» Voltai una pagina e vidi tre sagome umane sovrapposte, tracciate ognuna in un colore diverso.
«Riesco a distinguere solo alcune parole» disse Cesare. «Vediamo… Vita. O carne, forse? Sonno. Anima…» Scrollò le spalle. «La traduzione non è precisa e io sono arrugginito. Ma ho alcuni testi al sanctorium che potrebbero aiutarti nell’interpretazione. Se vuoi, passa domani prima dell’incoronazione.»
Mi irrigidii, ma mi costrinsi a sorridere. «Forse lo farò, se deciderò di partecipare.» Gli diedi una delle monete appena vinte. «Grazie per avermelo portato» dissi. «È un viaggio lungo solo per consegnare un libro.» Lanciai un’occhiata a Delphinia. «Sono contenta che faccia buon uso del viaggio.»
«Oh, è sempre un piacere servire i fedeli qui al Canarino» disse padre Cesare, con il braccio robusto intorno alla vita di Delphinia. «Ti offro ancora qualcosa da bere, mia cara, con queste mie nuove ricchezze?»
Le labbra color ribes rosso di lei si incurvarono in un sorriso. «Se proprio devi.»
Tornata nella mia stanza, misi l’insolito regalo di Simon nella mia borsa accanto al panno che aveva ancora una g...