I momenti buoni
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I momenti buoni

  1. 372 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I momenti buoni

Informazioni su questo libro

Il mondo, visto dagli occhi del Tranquillo e del Pratico, due bambini cresciuti, quasi due ragazzini. Un inferno di paura e insensatezza tra la scuola, i Persecutori, la vita di quartiere, la droga, i fratelli più grandi, la criminalità. Per poi precipitare, a casa, nel caos di famiglie disfunzionali e violente. I due ragazzini non dovrebbero nemmeno parlarsi, secondo le regole selvagge delle loro tribù, nemiche per motivi che si perdono nel passato.

Eppure accade qualcosa che potrebbe cambiare tutto. I due protagonisti sfuggono alla regola del clan, entrano in contatto, incrociano le proprie solitudini. Si raccontano e si ascoltano. Un passo verso una possibile consolazione. Basterà?

Deve esserci una via di fuga dall'orrore della Casa Diroccata, o di ciò che accade nella Reggia. Il pericolo sono le botte del Principe e del PrimoCavaliere, le minacce del Sorcio, ma soprattutto il destino a cui li votano le famiglie. E mentre tentano di trovare riparo, bisognerà pensare anche a mettere in salvo TeneraSilvia, l'amata compagna di classe, e il Ronin, il genietto che non esce di casa da un anno. Il Vecchio, la Prugna, il Padre, il Marinaio, la Signora, bizzarri maestri di strada, riusciranno ad aiutarli?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2021
Print ISBN
9788804722335
eBook ISBN
9788835707257

I momenti buoni

A tutti quelli che nascono nel posto sbagliato.
Uno speciale ringraziamento a Fede e Ringhio, le mie due (maniacali) editor personali.

Io sono il Tranquillo

Due bambini, o ragazzini, come cavolo si chiamano a quell’età? Uno seduto sul muretto, all’ombra. L’altro alla fermata, anche se non sta aspettando niente.
Uno sguardo li aggancia. Sopracciglia aggrottate, un occhio chiuso, tutta la rabbia e il sospetto del mondo.
L’autobus arriva, soffia. Li copre uno alla vista dell’altro. Poi riparte. Un uomo attraversa, una ragazza s’incammina sul marciapiede. Quello seduto sul muretto, il Pratico, è ancora lì. Pensava che l’altro, il Tranquillo, sarebbe salito. Invece è sempre alla fermata, stessa posa di prima. Senza la maschera dura, il Pratico è sguarnito. Prova a riassumerla in fretta, ma su due piedi non ci riesce.
Il Tranquillo si muove. Attraversa la strada, gli si piazza davanti. Non si sono mai trovati così vicini, uno faccia all’altro. È proibito, e nel caso dovrebbe succedere subito qualcosa di brutto. I fratelli maggiori, al loro posto, si starebbero già pestando. Invece i due frugano con gli occhi di qua e di là. Cercano un’espressione. Non la trovano.
«Io sono il Tranquillo. Mi riconosci?» Il Pratico fa segno di sì, posizione di difesa, ma prevale qualcos’altro. Quando sei curioso, non puoi fare la guerra.
Basta. Non accade altro. Seduti sul muretto, si scambiano una cicca, uno fa vedere all’altro un’app sul telefono.
Dopo un tempo abbastanza breve il Pratico scende dal muretto. Si sbatte la mano sul culo, polvere sui jeans. Si guardano un istante. Un gesto col mento. «Oh.»
Quella volta basta così. Per due nemici, il primo giorno, è anche troppo. Ma il primo giorno di che?
Di questa storia.

La Reggia

Nella Reggia ci vivono il Re, la Regina, la Principessa, il Principe. E poi lui, il Tranquillo, l’unico suddito, destinato a vagare, ma senza essere neppure un cavaliere errante. Sembra che nessuno si accorga di lui, nella Reggia, a parte il Duende, che cerca e insegue il Tranquillo dovunque. È una specie di mostro, mezzo animale, mezzo uomo. Il Duende se ne sta tutto il tempo nascosto, in qualche angolo, dietro un divano. A volte il Tranquillo passa in un corridoio, o getta un occhio dentro al ripostiglio, e capisce che il Duende è stato lì di fresco. Quando la Reggia è popolata scompare, ma ogni tanto il Tranquillo lo vede spuntare sotto a una tenda della finestra, solo la punta delle zampe artigliate. E allora si sposta, se deve passare fa il giro largo.
Chi chiama il Tranquillo, nella Reggia, lo fa sempre berciando, urlando, apostrofandolo. Il Principe lo odia. Appena può lo picchia. Gli torce un braccio spingendolo sul divano con l’altro, serrandolo al collo, pugno chiuso sulla guancia. Lui non sopporta il Tranquillo, odia i suoi silenzi.
«Che cazzo pensi?! Stai sempre zitto..., sei una merda, non servi a niente.» Livello di stronzaggine: otto.
La Principessa invece lo disprezza e basta. Lo considera niente, una crosta da staccare con le unghie, una macchia sulla camicetta da coprire coi capelli. Se lo incrocia per strada, nei pressi della scuola, fa finta di non vederlo, indica dalla parte opposta, in modo che i suoi amici si voltino. Che nessuno lo colleghi a lei. Il Tranquillo la spia quando si spoglia.
«Porco!» e gli tira quello che trova.
Di notte la immagina. L’ha anche sognata, ma non se ne ricorda, a parte che era nuda. E umida. Che pisciava davanti a lui. Aperta. Il Tranquillo prova per lei un misto di ribrezzo, desiderio, altro che non sa. È iniziato tutto quel giorno: era convinto di essere solo nella Reggia, tornato da scuola prima del tempo. Sospeso dal Preside per aver scritto una frase oscena sul suo diario, nemmeno sulla lavagna. Quei rumori che non ha sentito subito, quando è entrato in casa. O forse sì, li ha sentiti, perché è andato dritto verso la stanza da letto del Re.
Ma quel giorno è il non-tempo, il non-luogo, non se ne può parlare, è lo spazio-tempo cancellato. Un ronzio alla testa che sale e lo fa diventare paonazzo, senza bisogno di pensarci consapevolmente. E allora scaccia tutto. Non pensa, il Tranquillo. Pensa troppo, il Tranquillo. Troppo è uguale a niente. Anche per questo, nella Reggia, sta male.
Il Re non c’è mai. Quando c’è è sempre notte, e qualcosa non va. Non si sa mai niente di preciso sul conto del Re. Se si tratta di lui è tutto un segreto. L’unica che si vede di giorno è la Regina. Fa avanti e indietro, parla da sola, urla. Oppure riceve la visita di due amiche, le PovereDonne, guardano la televisione, lo schermo enorme, smisurato, dicono sempre che è bellissima quella televisione. Parlano di altre PovereDonne, inferiori a loro. Poi abbassano la voce, sussurrano nei passaggi più scabri. Ma il Tranquillo le sente lo stesso. Infatti sa sempre cose che non dovrebbe sapere.
La Regina teme il Re. Lo detesta, lo odia. Ha paura di lui. Quando lo fa arrabbiare, il Re le molla un ceffone. Lei urla. Sono i momenti in cui gliene dice di tutti i colori, fa riferimento a episodi che il Tranquillo non conosce, o conosce solo a frammenti. Lei fugge per i corridoi e le stanze della Reggia. Lui urla più forte di lei, e quando lo fa gli esce una voce stridula, graffiata, e sembra un altro uomo, uno che il Tranquillo non conosce. Le dice cose orrende, se la raggiunge e ha bevuto o preso altre cose, la picchia, gliele dà di santa ragione. Ma lo fa solo quando c’è la Principessa, così lei corre, grida, li divide, lo guarda con odio. Si afferrano, il Re e la Principessa, si strattonano, è un po’ come se si abbracciassero, quasi che si vogliano trattenere. E il Re a quel punto si ferma. C’è quel fatto, tra loro, quello a cui non deve neanche pensare.
Dopo cala il silenzio. Il più totale che la Reggia conosca. L’unico. Sono i momenti buoni. Il Tranquillo sa che per un po’ non accadrà niente. Allora si cerca l’angolo più remoto, si sdraia, naviga sul suo telefono nuovo, enorme, luminoso. Vaga lontano. Soprattutto, prende in mano un libro. Sa che il Principe non vuole, e sfrutta quei momenti di pace dopo le botte, quando tutto è congelato, per leggere. Se lo vede gliele dà forte. Nessuno legge nella Reggia. È una cosa grave leggere, è vietato.
Nessuno scrive della Reggia. Almeno, il Tranquillo non ha mai trovato libri sulla Reggia. Solo su altro, su tutto, e per altri. E lui legge proprio per quello: chi li ha scritti non sa di lui e della Reggia, di quell’inferno, e gli parla con parole diverse, come se fosse un altro, abituato a vivere in un posto diverso, senza la Regina, il Re e soprattutto il Principe. È la sua grande occasione. Il Tranquillo vola via tra le pagine, mica perché legge una storia che lo porta lontano, ma perché se qualcuno gli parla con quella voce lui può convincersi di essere un altro, di vivere un’altra storia, in un luogo diverso. Se l’autore scrive: “Pierre Besucov provò nel cuore...” lui finge di essere uno che sa quella cosa, cioè sa che nella vita si prova qualcosa “nel cuore”. Nella Reggia nessuno prova nel cuore... È la dote migliore di un libro: che chi lo scrive non sappia niente di te, non tenga conto del tuo assurdo universo, e tu puoi fingere quello che vuoi, di essere così come l’autore pensa che tu sia. Magari come è lui.
Almeno fino a che gli pare di sentire un rumore. Nel silenzio dopo la baraonda delle botte, nel rantolo piagnucoloso e lontano della Regina chiusa in camera da letto, il Duende esce, si mette in cerca. Struscia una zampa, come fosse rigida, ferita, e graffia la carta da parati con la zampa-chela, per reggersi. L’unica cosa buona è che il Duende è lento. Ma è inesorabile: ti devi spostare spesso. La cosa che non capisce il Tranquillo è perché la Regina non dica niente delle righe sul muro. Come se non le vedesse.

Una parola del Vecchio

Dall’entrata della bottega, il Vecchio vedeva bene il piccolo crocicchio dove era cresciuto, ce lo aveva proprio di fronte. L’aveva aperta il nonno, quella bottega, il fabbro Bravo, e il padre, il fabbro Buono, l’aveva ampliata. Tutti i ricordi del Vecchio erano ambientati lì, tra il marciapiede e le quattro strade, appena fuori dalla calca del centro città, lontano dal caos del porto. A lui quello spazio era sempre sembrato grande, fin da quando era solo il figlio del Buono. Cioè prima di diventare il Vecchio, che poi vecchio non è affatto, avrà a malapena cinquant’anni, ma i ragazzi lo vedono così, con la barba e i capelli schizzati di bianco, lento, sempre silenzioso. Pensieroso.
Da lì, alzando lo sguardo di rado dal suo lavoro, il Vecchio seguiva l’anda e rianda del mondo. Non chiedeva mai niente, eppure conosceva molte cose, aiutato anche dalle visite dei suoi due amici d’infanzia, che parevano vecchi anche loro. Il Loquace e il Critico ogni pomeriggio venivano a salutarlo, gli raccontavano le novità, o anche solo le voci del quartiere.
Tra le tante cose che il Vecchio osservava, era un po’ di tempo che notava una scena: due ragazzini, bambini, come li vuoi chiamare a quell’età?, che si guardavano di traverso. Sapeva chi erano, e il perché di quegli sguardi. E tuttavia, osservandoli, notava qualcosa che anni prima era ancora più evidente, e ora, crescendo, si affievoliva. Ma resisteva. Le loro famiglie, popolate di fratelli maggiori, giannizzeri di vari gradi, padri rumorosi e rispettati, madri pacchiane e vistose, sorelle acide e volgari, erano rivali.
Un mese prima, circa, del primo incontro fra il Tranquillo e il Pratico, il Vecchio li aveva avuti tutti e due a tiro di sguardo, primo pomeriggio d’estate. La via cuoceva, deserta. Il Vecchio aveva appena rialzato la saracinesca, si era seduto all’ombra, su una sedia di ferro, sul marciapiede. Non aveva molto lavoro quel giorno, aveva appena mangiato a casa, al piano di sopra della bottega, e ora sorseggiava un caffè. I due bambini, o ragazzini, camminavano l’uno verso l’altro e non si erano ancora visti. Li aveva osservati e aveva notato che erano sovrappensiero, guardavano in terra o sul muro, pensavano ai fatti loro con l’espressione assente di tutti i ragazzini del mondo. Almeno fino all’istante in cui si erano accorti l’uno dell’altro. L’incrocio era desolato, non li vedeva nessuno, tranne lui. Aveva notato la loro esitazione: procedere e trovarsi vicini, proprio lì davanti a lui, oppure cambiare marciapiede? Cosa dovevano fare?
Quando erano stati ormai prossimi, quasi davanti alla sua sedia, si erano guardati con le sopracciglia corrugate.
Il Vecchio, che non parlava mai molto, che rispondeva solo se interpellato, e spesso a monosillabi, e che anche per quello era sempre vissuto senza guai, aveva avuto la tentazione di dire qualcosa. I due bambini si erano distratti per un istante: un’auto a gran velocità, musica alta dai finestrini, che aveva travolto tutto col suo fragore. Si erano voltati a guardarla proprio mentre si incrociavano davanti al Vecchio. L’istante dopo si davano già il fianco, e subito dopo le spalle, e si erano allungati ognuno per la propria strada, divergendo.
In quel momento il Vecchio aveva aperto la bocca. Aveva pronunciato solo una parola, e a voce piuttosto bassa, come dicesse qualcosa privo di importanza, un commento tra sé e sé. Tanto che i due bambini avevano potuto far finta di non averla sentita, solo una lieve esitazione, forse anche la tentazione di voltarsi, come chi si chieda se qualcuno ha parlato e si stia rivolgendo per caso proprio a lui. Ma avevano proseguito, stesso passo, e in un lampo erano già a decine di metri di distanza.
Però l’avevano sentita.
E quella parola, in parte vera, in parte no, avrebbe avuto un peso enorme nelle loro vite. E in questa storia.
«Diversi...»

A scuola

La Scuola è ronzio. Orecchie, testa. A volte cuore. Forse dipende da come ci vai. Il Tranquillo non ci è mai andato veramente, lo hanno sempre trasportato. Almeno fino a che è stato molto piccolo. Poi verso l’una aspettava che venissero a riprenderlo. Quando ha iniziato ad andare e tornare da solo, a dire il vero, è stato uguale, l’unica differenza è che doveva camminare.
Il Tranquillo non riconosce nessuno, compagni, insegnanti. E loro lo sentono. E lo adorano per questo, lo odiano per questo. Gli insegnanti, per esempio, non esistono. Sembrano figure proiettate. Hanno gli occhi dilatati, soffrono pene prolungate. Guardandoli si capisce una cosa: chi va a scuola ha un problema oggi, che prima o dopo finirà. Per chi insegna il problema è sempre, e durerà in eterno.
Storia, buona; italiano, buono; fisica, media (da capire bene); matematica, brutta. Il problema della scuola è chi ci va, e anche come ci va. Soprattutto un gruppo. Gli armati negli occhi, così gli è venuto di definirli un giorno, al Tranquillo. Si chiamano i Persecutori. Sono loro la minaccia, devi sempre tenerli sotto osservazione, dove stanno, cosa fanno, se bisbigliano tra loro in gruppo. I bagni sono pericolosi, anche se ti scappa non devi andarci, almeno non in certi momenti: quando sono mezzi vuoti, soprattutto al pomeriggio. Può succederti qualcosa. Basta che ci sia un angolo isolato, o una porta che stacchi il contatto visivo col resto della scuola, e il rischio è lì. Anche quando arriva la ricreazione. Troppo pochi a vigilare in un piazzale troppo grande, troppi ragazzini tutti insieme. Al suono della campanella inizia la fuga, i bagni si riempiono, poi via tutti a mangiare o nel cortile a rincorrersi. Nel flusso, tutto bene. Fuori, anche di pochi metri, problema.
Il Tranquillo all’inizio aveva elaborato una tecnica di difesa: rimaneva nel corridoio, vicino all’aula degli insegnanti. Lì si sentiva al sicuro. Almeno fino a che riusciva a starci, perché bastava che gli insegnanti andassero in blocco a prendere un caffè, alla macchinetta che sta di fronte alla stanza del Preside, e subito arrivavano i Persecutori. In tre o in quattro si avvicinavano a un compagno di classe, si guardavano intorno. Lo guardavano fisso, per intimorirlo, per fare pressione. Lo fanno ancora, a volte. Si appoggiano al muro vicino a qualcuno, lo spingono. Lentamente, sempre di più. Nessuno si accorge di niente, perché nessuno fiata, nessuno corre. Dovrebbe essere la vittima a dire qualcosa, ma gli occhi lo annichiliscono. Sembrano compagni di scuola composti, lungo il muro, da fuori non si vede niente. Se quello riesce a resistere fino al secondo suono della campanella, è salvo. Altrimenti a spinte lente, impercettibili, finisce in bagno. E inizia il circo. Certe volte la vittima cede senza combattere, non ha le forze. Fa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I momenti buoni
  4. Al lettore
  5. Elenco dei personaggi
  6. Copyright