È stato presidente della Repubblica, del Senato, del Consiglio dei ministri, al vertice dei dicasteri degli Affari esteri, dell’Interno e pure dell’organizzazione della Pubblica amministrazione e delle Regioni, sottosegretario di Stato del ministero della Difesa, deputato, senatore eletto e anche a vita, ma per me Francesco Cossiga è stato soprattutto un amico, di quelli veri, s’intende. Vestiva quasi sempre di grigio, la sua cultura era sconfinata, però si guardava bene dall’esibirla, era pudico in determinate cose, come pure nei sentimenti. Non parlava mai di donne, nemmeno della moglie, quasi a voler proteggere gli aspetti più intimi e preziosi della sua esistenza. Mai mi sarei permesso di osare in sua presenza una battutaccia, di quelle colorite, lascive, volgari, che stupidamente divertono tanto gli uomini, me compreso, e che si usano in particolare in Italia. Mi adeguavo con rispetto alla sua educazione, anzi alla sua statura morale, che – lo sottolineo – era scevra di quel moralismo da due lire sempre più in voga oggigiorno.
A Francesco non interessava piacere, conquistare il grande pubblico, circondarsi di amici e tenere a bada i nemici. Sembrava compisse di tutto per farsi odiare da quel ceto politico di cui, suo malgrado, era parte, ed è così che finì con l’essere amato dalla gente, dai cittadini, dal popolo, il quale apprezzava il fatto che il capo dello Stato fosse un signore che non le mandava di certo a dire, uno che chiamava le cose con il loro nome, che non edulcorava la realtà , bensì la somministrava in dosi massicce e così come essa era, quasi sempre schifosissima. Lo aiutava quell’accento sardo di cui non si liberò mai, neanche dopo decenni di vita stabile in quel di Roma. Cosa importa? Questo elemento lo rendeva ancora più simpatico, sì, è questo il termine più calzante: Francesco era simpatico. Infondeva allegria, energia, autenticità . Avevamo caratteri simili che in alcuni punti coincidevano, per questo ci risultò facile diventare tra di noi familiari.
Definito «ministro di ferro», Cossiga era tutt’altro che metallico. Sin dalla prima telefonata, che avvenne per sua iniziativa, mi trattava da vecchio conoscente, non dico già da amico, ma poco ci mancava. Tra me e lui non mise mai nessuna distanza. Forse si dimenticava di essere presidente della Repubblica o, semplicemente, non ci badava. Non si dava arie, insomma, né riteneva che il ruolo gli imponesse comportamenti ingessati, formalità e formalismi esasperati, doveroso distacco dai comuni mortali e indecifrabile espressione da mummia egizia. Cossiga era il capo dello Stato della porta accanto. Tuttavia non è questo a renderlo unico.
Egli detiene un record mondiale: è stato l’unico ministro dell’Interno a dimettersi. Era quello il periodo del rapimento nonché dell’uccisione di Aldo Moro. Cossiga si rimproverava di non essere riuscito a persuadere l’esecutivo a trattare con le Brigate rosse il rilascio del presidente della Democrazia cristiana. Non appena fu diffusa la notizia che il corpo di Moro era stato trovato nella famosa Renault, Cossiga fece fagotto e lasciò il Viminale, pur non avendo alcuna responsabilità nel delitto, dal momento che erano stati altri membri del governo a rigettare l’ipotesi della trattativa. Poco contava per il mio amico: aveva vinto la posizione opposta alla sua e lui aveva perso, motivo sufficiente per ritirarsi. Questa fu una prova di umiltà , onestà e anche di sensibilità , un atto che meraviglia ancora di più oggi che i ministri se ne stanno con il fondoschiena incollato alla poltrona qualsiasi cosa accada e puntano il dito contro il capro espiatorio di turno e mai verso se stessi.
Codesta scelta colpì la mia curiosità di cronista. Ma Francesco non aveva ancora fatto capolino nella mia vita. Questo avvenne quando egli fu eletto presidente della Repubblica, ruolo che ricoprì mantenendo sempre un comportamento molto compassato. Cossiga non aveva la mania, anzi la smania, di apparire, non si spendeva in discorsi inutili e strambi. Persino allorché, puntualissimo come sempre, giungeva il Capodanno e, in qualità di presidente, come da consuetudine, egli teneva il discorso augurale, evitava di proferire le classiche stupidaggini. In questa, come in occasioni simili, non ha mai esternato corbellerie, mentre tutti gli altri presidenti, pure quelli venuti dopo di lui, i quali non hanno mai cessato di tediarci allo scadere dell’anno infliggendoci panegirici di cui si può fare a meno e di cui volentieri faremmo a meno, si sentono costretti a ripetere banalità , cliché, frasi fatte, luoghi comuni, stucchevoli formule di cortesia. Francesco era spontaneo, non gradiva i fronzoli, quindi spiegava agli italiani quello che di norma siamo soliti dire in famiglia, ossia che l’anno nuovo è ricco sì di speranze, ma ciò che conta è essere all’altezza delle proprie speranze.
Cossiga per primo, davanti alla questione spinosa dell’inchiesta di Mani pulite, ha cominciato a rompere gli schemi, ossia a mostrare ai politici dove avevano sbagliato e cosa avrebbero potuto fare per riacquistare la fiducia tradita dei cittadini. Le sue orazioni venivano chiamate «le picconate di Cossiga» ed erano divenute un appuntamento non quotidiano eppure frequente. La loro caratteristica fondamentale era di essere rivolte a tutti i politici, sia di destra sia di sinistra. Francesco non faceva sconti a nessuno. Sottolineava i difetti della classe politica, l’incapacità dei partiti di rappresentare il popolo italiano. Le sue erano arringhe efficaci e toccanti.
A quel tempo dirigevo «L’Indipendente» e dormivo in un residence di corso Italia, a Milano. Cossiga, il quale da un po’ aveva preso a telefonarmi in redazione, non volendo attendere che vi giungessi, mi chiamò presso il residence in cui alloggiavo. Erano circa le sette del mattino, orario in cui di norma sogno ancora, quando venni svegliato dal custode, il quale, con tono seccato e pure di scherno, mi comunicò: «C’è un tizio al telefono che sostiene di essere il presidente della Repubblica e le vuole parlare. Riattacco?».
Eppure la voce di Francesco era inconfondibile, il portiere lo avrà scambiato forse per un abilissimo imitatore? «Feltri, sono Cossiga. Era solo per farle sapere che oggi piccono.» In verità diceva «picono», con una sola c. Nonostante il risveglio traumatico, non sorridere divertiti era inevitabile. Cossiga sempre mi avvertiva preventivamente riguardo ai suoi interventi, li annunciava attraverso la cornetta, anticipandone il contenuto su grandi linee, affinché io predisponessi una sorta di mini task-force giornalistica che li seguisse con l’adeguata attenzione e dandogli il necessario rilievo. Va da sé che mi chiamava da Roma, dal Quirinale. Mi rintracciava ovunque fossi.
Quelle concioni, il cui lessico era elegante e forbito, erano irritanti per la classe politica, accusata da Cossiga ancora di più di quanto facesse il pool di Mani pulite. Ecco la ragione per cui si tentò di mettere Cossiga fuori gioco. In pratica lo si voleva neutralizzare al fine di eleggere un nuovo presidente, tuttavia nessuno riuscì a escogitare gli argomenti tecnici per ostracizzarlo, quindi Cossiga restò fino all’ultimo a demolire a colpi di piccone. Anzi, non proprio fino all’ultimo. In prossimità della scadenza fu egli stesso ad andarsene via, una maniera forse di mandare tutti al diavolo, una specie di dispetto. Gli successe Oscar Luigi Scalfaro. Lasciatosi alle spalle il Quirinale, Francesco seguitò nella sua attività di picconatore, nelle sue esternazioni educate ma senza filtri, tuttavia senza ottenere più quell’impatto forte che gli conferiva il ruolo di capo dello Stato.
Non smise neppure di telefonarmi ovunque fossi e in qualsiasi momento. Mi chiamava anche quando veniva a Milano affinché ci incontrassimo presso l’albergo Principe di Savoia, sito in piazza della Repubblica, dove Cossiga, allora senatore a vita, soggiornava. Facevamo quattro chiacchiere, ma era sempre lui a parlare, io mi limitavo ad ascoltare, anzi ad attingere. Mi spiegava un po’ quella cosa strana che è la politica, era una conversazione piacevole e mi era inoltre molto utile poiché mi permetteva di comprendere il mondo romano, a me distante.
Un bel dì Francesco mi fece una confessione. Conservava un sogno nel cassetto, quello di diventare giornalista, e mi pregò di aiutarlo a realizzarlo. Prese così a scrivere per il neonato «Libero» articoli esilaranti, in cui attaccava praticamente tutti, senza scomporsi. Per lui l’attacco era qualcosa di naturale. Gli riusciva bene. Ricordo quando mi inviò il primo pezzo, molto lungo, troppo lungo. Lo affidai a Renato Farina, il quale lo raddrizzò e accorciò.
Gli articoli vergati da Francesco riguardavano vicende della politica e li firmava ovviamente con il suo nome. Ne compose parecchi per due anni di fila. Essendo avvezzo ad avere sempre un orecchio per tutti, l’attività giornalistica gli risultò agevole. Era un grande ascoltatore e questo gli consentiva di elaborare il sentimento popolare nonché di scrivere, poiché nulla è più popolare, o dovrebbe esserlo, del giornalismo, quello vero, di strada. Insomma, il suo era un talento innato. Il suo stile era quello di un uomo di una certa età , il linguaggio era ricercato, talvolta intricato, eppure i concetti erano espressi con chiarezza fulminante ed erano alquanto interessanti; non erano assenti risvolti umoristici, in quanto Francesco possedeva altresì questo dono: la capacità di sfottere.
Spesso veniva in redazione, che allora era situata in viale Monza, volteggiava tra le scrivanie incuriosito e sorridente, faceva battute, sempre arguto e sfottitorio com’era. I giornalisti lo osservavano con gli occhi sgranati e le bocche aperte. Insomma, non si vede tutti i giorni un ex presidente della Repubblica che bighellona in un ufficio spargendo con generosità sorrisi e paroline gentili.
Dato che ero a conoscenza del fatto che gradiva gustare un goccetto di whisky e che il Lagavulin era il suo preferito, mi procuravo che non mancasse in ufficio quando Cossiga veniva a farci visita. Gliene versavo giusto qualche sorso, non è che bevesse, ma non disdegnava affatto quell’aroma. In uno di questi nostri incontri riservati, gli domandai per quale motivo parecchi anni addietro avesse lasciato la presidenza della Repubblica prima della scadenza del mandato. Mi rispose che era nauseato, disgustato da quel ceto politico con il quale aveva a che fare e di cui in qualche maniera, in qualità di capo dello Stato, era lo specchio. Non ho dubbi riguardo alla veridicità di questa dichiarazione, però ritengo che Francesco si ritirò pochi mesi prima come per mandare a quanti avevano tentato di estrometterlo questo messaggio: «Non vi ho concesso questa soddisfazione, ma non me ne andrò allo scadere naturale dell’investitura. Vado via ora, perché lo voglio io».
Dopo due anni di intensa collaborazione raccogliemmo tutti gli articoli del senatore, diverse decine e sempre inerenti a tematiche di stretta attualità politica, al fine di presentare domanda di iscrizione all’Ordine dei giornalisti. Richiesta accolta. Cossiga era entusiasta, aveva realizzato un altro sogno, forse l’ultimo della sua vita. Mi raggiunse a Milano per festeggiare l’evento, che celebrammo con un’intima cena al ristorante Trussardi.
Non smise di scrivere e di picconare una volta raggiunto il suo traguardo. Tuttavia, i suoi pezzi divennero sempre più saltuari quando si ammalò, poiché era stanco, addirittura avvilito. Il suo declino fu abbastanza rapido.
Di tanto in tanto mi telefonava per informarsi su come procedesse il lavoro al giornale, su come me la passassi io. Credo che alla malattia si fosse aggiunta una fase depressiva. Me ne accorsi perché, quando gli parlavo, notavo che era abbastanza disinteressato persino alle cose che egli stesso diceva, chiacchierava per educazione e io lo lasciavo in pace, capivo che aveva bisogno di silenzio, o di poche parole.
Sono grato al mio amico Francesco. Fu lui a insegnarmi quello che avevo soltanto intuito: il mondo politico è autoreferenziale ed è tragicamente sordo alle esigenze del popolo. Sì, certo, tenta di assecondarlo, di blandirlo, di sedurlo, ma unicamente allo scopo di racimolare voti. L’interesse principale è per le urne, ovvero per il potere. Francesco Cossiga adottò un atteggiamento molto più elevato, coltivava il mito della cultura e della storia inglesi e cercava nella sua attività di trasferire alcuni concetti anglosassoni alla classe politica italiana. Mi rivelò un dì che su questo fronte si sentiva irrimediabilmente sconfitto.
Quando, pochi giorni prima che morisse, lo raggiunsi telefonicamente, conversammo sì e no per due minuti al massimo. Stavamo per mettere giù la cornetta allorché, da quel breve e profondo silenzio che segue i saluti, sentii ancora la sua voce. Ferma. Diversa, non l’avevo mai udita così. Decisa. Senza più quella vena di ironia. Senza più quella sopraggiunta rassegnazione.
«Vittorio. Addio.»
Neppure mi diede il tempo di rispondere. E, del resto, cosa mai avrei potuto dire?
Ero da solo nel mio ufficio.
Cadde una lacrima sul foglio.
Avete presente quel momento, alquanto imbarazzante, in cui vi trovate costretti tra le pareti di un ascensore con uno sconosciuto e non sapete dove diavolo posare gli occhi o cosa dire? Ecco, a me capitò di conoscere Paolo Isotta in una situazione come questa.
Era il 1974 e allora lavoravo come cronista presso «La Notte», la cui redazione era sita in piazza Cavour, a Milano. Nello stesso magnifico stabile era da poco ubicata la redazione del «Giornale nuovo» di Indro Montanelli, il quale stava attrezzando la sua squadra, tra cui compariva anche questo giovane napoletano contraddistinto da una rara e sfacciatissima eleganza. Ogni dì, subito dopo pranzo, facevo un salto all’ultimo piano del cosiddetto «palazzo dei giornali», che era stato fatto costruire dal duce decenni prima perché diventasse la fissa dimora del «Popolo d’Italia», quotidiano diretto dal fratello di Benito Mussolini. Non mi recavo lassù per digerire, bensì per deliziare i miei occhi, immergendomi nello splendore dell’arte, che con la sua magnificenza ci dona la parvenza della straordinarietà dell’essere umano, capace di ogni genere di cattiveria e nefandezza ma pure di creare capolavori, come appunto l’enorme mosaico di Mario Sironi, il pezzo forte del palazzo dei giornali.
Non ero l’unico a compiere questo giornaliero pellegrinaggio ad alta quota. Pure Paolo, mosso evidentemente dal bisogno impellente di regalarsi un tuffo nella bellezza che conforta lo spirito, alla stessa ora si imbarcava sul montacarichi e si piazzava davanti al mosaico, restando ad ammirarlo con aria stupefatta come se lo vedesse per la prima volta. Così un pomeriggio ci salutammo con un sorriso poiché eravamo diventati intimi sebbene non ci fossimo scambiati neppure una parola, insomma eravamo intimi sconosciuti. Appresi che scriveva per il foglio di Montanelli, il quale lo aveva assunto in vista del varo del «Giornale nuovo». La sua napoletanità mi affascinava, la riscontravo non soltanto nell’irresistibile nonché inconfondibile accento, ma altresì nel gusto per l’abito sartoriale, nella scelta talvolta audace, quindi di carattere, dei colori e degli abbinamenti. Si capiva che il ragazzo era fresco, sì, ma promettente, traboccante di personalità . Il giorno seguente eravamo già a pranzo insieme al Gatto Nero, ristorante allora situato in via Senato, praticamente a due passi dai nostri rispettivi uffici.
Fu la prima di una lunga serie di colazioni. Dopo il buongusto fui colpito dal linguaggio forbito che, insieme alla bassa statura e all’eccentricità , faceva di Paolo un personaggio assolutamente particolare. Diventammo amici, tanto amici che, quando passai dalla «Notte» al «Corriere d’Informazione», trasferendomi da piazza Cavour in via Solferino, conservammo la consuetudine di desinare insieme. Isotta mi raggiungeva e mangiavamo un boccone al ristorante Il Rigolo. Pur essendo giovanissimo, Paolo ricopriva il ruolo di critico alla grande e si era già distinto perché scriveva in maniera faconda e suggestiva. Insomma, era divenuto subito famoso nel mondo della musica.
Dopo quattro o cinque anni che Isotta lavorava per «il Giornale», il direttore del «Corriere» Franco Di Bella si innamorò di lui come critico musicale e lo assunse. Allora il quotidiano di via Solferino, però, disponeva già di un giornalista che si occupava della mate...