Stavo su una balconata di pietra intagliata, le braccia allargate, rabbrividendo nella mia tunica da pochi soldi mentre cercavo di mettere in piedi uno spettacolo credibile. La mia kefta era un patchwork di brandelli cuciti insieme provenienti in parte dal vestito che indossavo la notte in cui eravamo fuggiti dal palazzo e in parte, mi era stato detto, dalle tende sgargianti di un teatro in disuso di qualche località vicino a Sala. Per le decorazioni erano state utilizzate le gocce dei lampadari nel foyer. I ricami sui polsini si stavano già disfacendo. David e Genya avevano fatto del loro meglio, ma le risorse sottoterra erano limitate.
Da lontano ingannava a sufficienza, scintillando dorata nella luce che sembrava emanare dalle mie mani e che proiettava riflessi luminosi sui volti estatici dei miei seguaci, sotto di me. Da vicino era tutta fili spezzati e finta brillantezza. Proprio come me. La Santa logora.
La voce dell’Apparat rimbombava nella Cattedrale Bianca e la folla ondeggiava, gli occhi chiusi, le mani sollevate; un campo di papaveri, le braccia come steli pallidi agitati da un vento che io non riuscivo a sentire. Eseguivo una serie di gesti coreografici, con mosse ostentate affinché David e l’Inferno che lo stava aiutando quel mattino potessero seguirle dalla loro posizione nella cavità nascosta appena sopra la balconata. Temevo le preghiere del mattino, ma secondo il prete quelle false dimostrazioni erano necessarie.
“È un dono che fai alla tua gente, Sankta Alina” diceva. “È speranza.”
Invece era un’illusione, una pallida traccia della luce che avevo dominato in passato. La nebbia dorata in realtà era un fuoco dell’Inferno riflesso su un disco a specchio rotto che David aveva costruito con vetro recuperato. Era simile ai dischi che avevamo usato nel nostro fallito tentativo di respingere l’orda dell’Oscuro durante la battaglia di Os Alta. Eravamo stati colti di sorpresa e il mio potere, i nostri piani, tutta l’ingegnosità di David e l’intraprendenza di Nikolai non erano bastati a impedire il massacro. Da allora non ero stata capace di evocare neanche un raggio di luce. Ma quasi nessuno nel gregge dell’Apparat aveva visto che cosa era davvero in grado di fare la loro Santa, e per il momento quell’inganno era sufficiente.
L’Apparat finì il suo sermone. Era il momento di concludere. L’Inferno mi avvolse di una luce brillante che saltava e ondeggiava in modo irregolare, e che finalmente si spense quando io abbassai le braccia. Be’, ora sapevo chi era l’Inferno di turno con David. Sollevai uno sguardo corrucciato verso la grotta. Harshaw. Si lasciava sempre prendere la mano. Erano scampati tre Inferni alla battaglia al Piccolo Palazzo, ma una era morta solo pochi giorni dopo a causa delle ferite. Dei due che rimanevano, Harshaw era il più potente e il più imprevedibile.
Scesi dalla piattaforma, impaziente di sottrarmi alla presenza dell’Apparat , ma poggiai male il piede e barcollai. Il prete mi afferrò per il braccio, sostenendomi.
«Stai attenta, Alina Starkov. Non hai abbastanza cura della tua sicurezza.»
«Grazie» dissi. Desideravo allontanarmi da lui, dalla puzza di terra rivoltata e di incenso che si portava dietro dappertutto.
«Ti senti poco bene oggi.»
«Solo maldestra.» Sapevamo entrambi che era una bugia. Ero più forte di quando ero arrivata alla Cattedrale Bianca – le mie ossa si erano riparate, riuscivo a tenere i pasti nello stomaco – ma ero ancora fragile, il mio corpo era tormentato dai dolori e da una stanchezza continua.
«Forse un giorno di riposo, allora.»
Strinsi i denti. Un altro giorno confinata nella mia camera. Inghiottii la frustrazione e sorrisi debolmente. Sapevo che cosa voleva vedere.
«Ho molto freddo» dissi. «Un po’ di tempo nel Bollitore mi farebbe bene.» Strettamente parlando, era vero. Le cucine erano l’unico posto della Cattedrale Bianca dove si stava al riparo dall’umidità. A quell’ora almeno uno dei fuochi era già acceso per la colazione, e la grande caverna rotonda era piena del profumo del pane nel forno e della zuppa d’avena dolce che i cuochi preparavano con i piselli secchi e il latte in polvere procurati dagli alleati in superficie e immagazzinati dai pellegrini.
Vi aggiunsi un brivido per aumentare l’effetto, ma l’unica risposta del prete fu un evasivo “mmh”.
Un movimento alla base della caverna attrasse la mia attenzione: pellegrini, nuovi arrivati. Non potei trattenermi dall’osservarli con occhio strategico. Alcuni indossavano uniformi che li marchiavano come disertori del Primo Esercito. Erano tutti giovani e sani.
«Nessun veterano?» chiesi. «Nessuna vedova?»
«È un viaggio difficile quello sottoterra» rispose l’Apparat. «Molti sono troppo vecchi o deboli per muoversi. Preferiscono restare nel conforto delle loro case.»
Improbabile. I pellegrini arrivavano con stampelle e bastoni, per quanto anziani o malati. Perfino i moribondi venivano per vedere la Santa del Sole nei loro ultimi giorni di vita. Mi lanciai alle spalle un’occhiata circospetta. Intravidi le guardie del prete, barbute e pesantemente armate, che stavano di piantone nel passaggio a volta. Erano monaci, sacerdoti studiosi come l’Apparat, e solo a loro era permesso portare armi sottoterra. Nel mondo di sopra fungevano da sentinelle, andavano a caccia di spie e miscredenti e davano rifugio a chi giudicavano degno. Di recente il numero dei pellegrini era diminuito e i volontari che si univano ai nostri ranghi sembravano più esaltati che pii. L’Apparat voleva potenziali soldati, non solo bocche da sfamare.
«Potrei andare io dai malati e dagli anziani» dissi. Sapevo che era una discussione inutile, ma ci provai ugualmente. Era quasi di rito. «Una Santa dovrebbe camminare in mezzo alla gente, non nascondersi come un topo in una tana.»
L’Apparat sorrise, con quel sorriso benevolo, indulgente che i pellegrini adoravano e che a me faceva venire voglia di gridare. «Nei momenti di difficoltà, molti animali si rifugiano sottoterra. È così che sopravvivono. Quando gli stupidi finiscono di combattere le loro battaglie, sono i topi a comandare nei campi e nelle città.»
“E a banchettare con i morti” pensai con un brivido. Come se potesse leggermi nel pensiero, lui mi posò una mano sulla spalla. Le sue dita lunghe e bianche si allargarono sopra il mio braccio come un ragno cereo. Se il gesto era pensato per darmi conforto, non funzionò.
«Pazienza, Alina Starkov. Ci solleveremo quando sarà il momento giusto, non prima.»
“Pazienza.” Era sempre questa la sua prescrizione. Resistetti all’impulso di toccarmi il polso, la pelle nuda dove avrebbero dovuto esserci le ossa dell’uccello di fuoco. Mi ero impossessata delle scaglie della frusta marina e delle corna del cervo, ma mancava il pezzo finale del puzzle di Morozova. Avremmo potuto già avere il terzo amplificatore, se l’Apparat avesse prestato il suo supporto alla caccia o ci avesse semplicemente lasciato tornare in superficie. Ma quel permesso sarebbe arrivato solo a un prezzo.
«Ho freddo» ripetei, nascondendo la mia irritazione. «Voglio andare al Bollitore.»
Lui aggrottò la fronte. «Non mi piace che tu te ne stia rannicchiata laggiù con quella ragazza…»
Dietro di noi le guardie si agitarono e mormorarono, e una parola arrivò fino a me. Razrusha’ya. Mi liberai con un gesto brusco dalla presa dell’Apparat ed entrai decisa nel passaggio. Le guardie del prete scattarono sull’attenti. Come tutti i loro confratelli, portavano tonache marroni e un sole dorato sul petto, lo stesso simbolo che spiccava sulla veste dell’Apparat. Il “mio” simbolo. Però non mi guardavano mai in faccia e non parlavano mai né con me né con gli altri rifugiati Grisha. Se ne stavano in silenzio ai bordi delle stanze e mi seguivano ovunque con le loro barbe e i loro fucili.
«Quel nome è proibito» dissi. Loro guardavano dritto davanti a sé, come se io fossi invisibile. «Si chiama Genya Safin, e io sarei ancora prigioniera dell’Oscuro se non fosse stato per lei.» Nessuna reazione. Ma vidi alcuni di loro entrare in tensione al solo suono di quel nome. Uomini adulti e armati che avevano paura di una ragazza sfregiata. Stupidi superstiziosi.
«Pace, Sankta Alina» intervenne l’Apparat, prendendomi per il gomito per spingermi lungo il passaggio fino alla sua sala delle udienze. Nella pietra venata di argento del soffitto era incisa una rosa, e sulle pareti erano dipinte figure di Santi con aureole dorate. Quegli affreschi dovevano essere opera di un Fabrikator, perché nessun pigmento comune avrebbe resistito al freddo e all’umidità della Cattedrale Bianca. Il prete si sistemò su una bassa sedia di legno e mi fece segno di accomodarmi su un’altra. Io mi sedetti, cercando di nascondere il mio sollievo. Perfino stare in piedi troppo a lungo mi lasciava senza fiato.
Lui mi osservò, studiando la mia pelle giallognola, le macchie scure sotto gli occhi. «Sono sicuro che Genya può fare di più per te.»
Erano passati oltre due mesi dalla battaglia contro l’Oscuro, e non mi ero ancora ripresa del tutto. I miei zigomi tagliavano le guance incavate come rabbiosi punti esclamativi e i miei capelli bianchi erano così fragili che sembravano galleggiare nell’aria come fili di una ragnatela. Ero finalmente riuscita a convincere l’Apparat a lasciare che Genya si prendesse cura di me in cucina, con la promessa che le sue abilità mi avrebbero resa più presentabile. Era l’unico contatto diretto che avevo con gli altri Grisha da settimane. Ne assaporavo ogni momento, ogni minima notizia che lei mi riferiva.
«Sta facendo del suo meglio» dissi.
Il prete sospirò. «Immagino che dobbiamo essere tutti pazienti. Guarirai con il tempo. Con la fede. Con le preghiere.»
Mi salì la rabbia. Lui sapeva dannatamente bene che l’unica cosa che poteva guarirmi era usare il mio potere, ma per farlo sarei dovuta tornare in superficie.
«Se solo mi lasciassi salire di sopra…»
«Sei troppo preziosa per noi, Sankta Alina, e il rischio è decisamente troppo alto.» Si strinse nelle spalle in un gesto di scuse. «Tu non vuoi prenderti cura della tua sicurezza, per cui devo pensarci io.»
Rimasi in silenzio. Questo era il gioco che giocavamo, che avevamo giocato da quando ero stata portata là. L’Apparat aveva fatto molto per me. Era l’unico motivo per...