La voce fratturata di Chester Bennington mi accompagna dentro il cancello della Sapienza, oltre la zaffata di caffè e fumo di sigaretta che proviene dalle scale del bar e attraverso la galleria di rampicanti che costeggia la facoltà di Scienze Naturali. Mi sono innamorata subito di questo passaggio. Somiglia quasi all’accesso per un altro mondo, un arco di edera che cela il grigiore della città dietro un velo di foglie, attraverso cui filtra la luce ancora calda del primo pomeriggio.
Seriamente, siamo già a ottobre, dov’è finito l’autunno? E poi dicono che il surriscaldamento globale non esiste.
Le mie labbra accompagnano le parole della canzone mentre varco l’ingresso di Lettere e mi inoltro fra i corridoi affollati. Mi infilo nella porta dell’aula proprio dietro la professoressa Franchini, l’insegnante di Storia del costume. Le panche a gradoni sono già affollate, quindi prendo posto in fondo, sfilandomi le cuffie malgrado la mia coscienza protesti vibratamente contro il delitto di interrompere a metà un pezzo dei Linkin Park.
Individuo subito le mie amiche, sedute qualche fila più avanti. Marta e Sara sembrano uscite da un impianto di clonazione su Kamino: gli stessi capelli bruni e setosi, due identici nasi a patata e il medesimo bagliore pettegolo negli occhi scuri. Io per prima ci ho messo parecchio a imparare a distinguerle, dopo quell’indimenticabile primo giorno dell’anno scorso.
“Scusa?”
“Mmh?”
Provo la sensazione straniante di osservare due copie della stessa persona che mi fissano dalla fila di fronte. Mi affiora alla mente quella citazione di Matrix sul déjà-vu: “Capita quando cambiano qualcosa”.
“Abbiamo visto che hai un portachiavi di Pikachu attaccato allo zaino.”
“E il tuo viso sembra familiare.”
“Sì, insomma, non vogliamo sembrare delle stalker, eh, ma…”
“… per caso fai cosplay?”
Non so cosa sia più sconvolgente, se la loro capacità di parlare a macchinetta una dietro l’altra senza dare alcun modo all’interlocutore di intervenire oppure il fatto che mi trovo qui da nemmeno due minuti e già qualcuno ha scoperto che sono una cosplayer. Deglutisco, indecisa se mentire o no. Forse dovrei, meglio non sbandierare che per hobby mi vesto da cartone animato, almeno non davanti alle prime due persone che mi rivolgono la parola.
Dai, Alice, non sei più al liceo. Vedrai che qui nessuno ti prenderà in giro.
Annuisco. “In effetti, sì.”
“Lo sapevo!” sbotta la gemella di destra, ciancicando rumorosamente una gomma. “Ti ho visto in gara al Romics ad aprile, eri Tracer di Overwatch, vero?”
“Di dove sei?” incalza l’altra.
“Di vicino L’Aquila.”
“Ti sei trasferita da molto?”
Scuoto il capo. “La settimana scorsa.”
“Noi siamo di Roma.”
“Nate e cresciute all’EUR.”
“Quindi non conosci nessuno?”
“Be’, in effetti no…” cerco di rispondere, ma il flusso di coscienza ininterrotto delle gemelle non mi lascia tregua.
“Adesso conosci noi!”
“Hai già comprato tutti i libri?”
“Se vuoi andiamo insieme dopo le lezioni! C’è una libreria qui vicino e…”
Abbiamo trascorso insieme l’intero pomeriggio, poi il successivo e tutti quelli venuti dopo. In poche settimane siamo diventate inseparabili, un trio capace di far voltare la testa di qualsiasi ragazzo, sia in facoltà che in fiera. E per una che ha passato le superiori a cercare di rendersi invisibile è stato un cambiamento vertiginoso, livello Lindsay Lohan in Mean Girls. Mi hanno presentato la loro compagnia di amici, di cui fanno parte alcuni dei migliori cosplayer d’Italia, e io ho trascinato con me anche Diego. Improvvisamente, essere una nerd che passa il tempo libero piegata in due su una macchina da cucire ha smesso di essere una vergogna da nascondere a tutta la scuola. Grazie ai loro consigli ho cominciato a migliorarmi, a imparare nuove tecniche, a vincere le mie prime gare.
Per la prima volta nella vita, ho sentito di appartenere a qualcosa di esclusivo, di figo. Qualcosa di cui parlare con orgoglio. Ed è stato così che ho conosciuto Marco…
Incrocio lo sguardo di Marta e Sara. Dopo una rapida occhiata, però, tornano a bisbigliare fra loro. Qualcosa non va, ne sono certa. Non si sono neppure degnate di salutarmi e dalla gara del Romics il nostro gruppetto privato su WhatsApp è una landa desolata di chiamate senza risposta e una patetica serie di miei messaggi.
Perché continuano a ignorarmi?
Nel frattempo è iniziata la lezione, ma io nemmeno la ascolto. Passo l’intera ora a fissare la schiena delle mie amiche, cercando di tenere a bada una serie di paranoie sempre più insistenti. E tutti quei pensieri su Marco che minacciano di affollarmi il cervello a ogni istante in cui non lo riempio con altro non aiutano affatto. Quando la professoressa annuncia che ci vedremo la prossima settimana, infilandosi una pila di scartoffie in borsa, sono ormai sul punto di esplodere. Con mia grande sorpresa, vedo le gemelle alzarsi all’unisono e dirigersi dritte verso di me.
«Alice, tesò!» esclama Marta, riconoscibile grazie al solito chewing-gum che mastica perennemente e da quel modo di chiamare tutti gli amici tesò, che sopporto solamente per affetto nei suoi confronti.
«Come ti senti?» le fa eco la sorella, sfiorandomi il braccio mentre il resto degli studenti sciama verso il corridoio.
Guardo una, poi l’altra. «Ragazze, che succede?»
«Niente, cosa dovrebbe succedere?»
«Ditemelo voi. Sono tre giorni che non mi cagate di striscio.»
Il sorriso di Sara le muore sulle labbra. «Abbiamo pensato che avessi bisogno di spazio, sai, dopo… insomma, quello che è successo.»
«Spazio? Avevo bisogno di voi. Delle mie amiche!»
«Be’» interviene Marta, mordicchiandosi l’unghia dell’indice. «Scusaci tesò, ma abbiamo visto come hai reagito in fiera e…»
«Come ho reagito?»
Temo seriamente di stare per trasformarmi in Hulk.
Sara mi piazza la mano aperta davanti, come se temesse che possa saltarle addosso. «Aspetta, lasciaci parlare.»
Marta storce il naso. «Dai, hai letteralmente aggredito Serena e Marco davanti a tutti. È stato uno spettacolo…»
«… pietoso, sì» convengo.
Lo ricordo bene.
D’altronde, ero incredula. Nonostante la penombra del padiglione, sapevo bene di avere decine di occhi puntati addosso. Ma non mi interessava. Non mi importava di niente, se non di quelle terribili parole appena uscite dalla bocca del mio ragazzo: “Credo che sia meglio lasciarci”.
Avverto l’improvviso desiderio di urlare. Sto tremando. “C-così? Su due piedi?”
“Scusami, Alice. Ma non ce la faccio davvero più.”
“Ti prego” sussurro, “parliamone, almeno. Andiamo fuori, spiegami che succede, possiamo risolvere tutto.”
Cerco di prendergli la mano, ma lui si scosta. “Non c’è niente da spiegare. È finita.”
“Cazzate!” strillo. “Cosa non mi stai dicendo?”
Esita. È sempre stato pessimo a mentire e ora quel micromovimento del labbro superiore non fa che confermare i miei sospetti. “Allora?”
“Perché non la smetti?” dice una voce femminile alle mie spalle. “Ti stai rendendo ridicola.”
Non c’è nessuno capace di farmi uscire di testa come Serena Tosi. Non so neanche perché mi odi così tanto, anche se Sara è convinta che sia da quando abbiamo portato entrambe Elsa di Frozen a Lucca. Mi è venuta incontro a passo trionfale, con la divisa da ufficiale dell’Enterprise stretta sulle curve pronunciate.
E i tasselli del puzzle si incastrano tutti alla perfezione: i messaggi la sera tardi, i tentativi di nascondermi il cellulare…
“Ci sei andato a letto?” sbraito in faccia a Marco.
Il suo silenzio è una risposta più eloquente di qualsiasi spiegazione.
“Da quanto tempo va avanti?”
“Un me-mese” balbetta imbambolato.
“Un mese?”
Sono stordita, rintronata.
“Come hai potuto farmi questo? E poi con… lei!”
Infondo in quell’ultima sillaba tutto il mio disprezzo.
“Risparmiami la predica” ribatte Marco...