Venerdì 26 aprile 1867, tra Genova e Borgo di Dentro
Ai tempi gloriosi del collodio umido, quando tirare stampe da un negativo su vetro richiedeva la destrezza di un illusionista, i praticoni da quattro soldi si riconoscevano dalle sbavature negli angoli. Ombre spettrali, nebbie cariche di mistero assediavano mezzibusti e figure intere. Montate su cartoncino per prevenire arricciature, le fotografie si riponevano in astucci stampigliati a caratteri d’oro o in pesanti album con la sopraccoperta di cuoio, oppure venivano sistemate in bella vista dentro cornici preziose, come si trattasse di ritratti a olio. La mistura di sale, nitrato d’argento e chiara d’uovo che impregnava la carta fotografica si degradava in fretta, e le immagini acquistavano una sfumatura acquorea, giallastra. Di cui il cliente era comunque soddisfatto, non avendo mai visto il proprio aspetto se non nel fuggevole riflesso dello specchio.
Quei ritratti insidiati dai fantasmi, quei gruppi di famiglia infestati da spiriti come il tavolino di una maga erano una novità di gran moda quando Antonio Casagrande venne al mondo. Presumibilmente nei pressi del porto di Genova, forse tra Sottoripa e porta Soprana. Non è noto il luogo esatto, la strada, il palazzo, il cortile o la cantonata, solo giorno, mese e anno: 13 giugno 1855. Così almeno lo schedario dell’Ospedale Maggiore detto di Pammatone, sezione Esposti.
Non fu possibile indicare alle voci “padre” e “madre” i lombi che l’avevano generato e il grembo che l’aveva accolto. Al trillare della campanella che annunciava un nuovo arrivo, l’incaricato azionò il meccanismo della ruota e si trovò davanti un neonato grigio di spavento. Notò subito l’occhio fisso sul nulla, la pupilla color latte, poi il cordone legato alla spiccia, indizio di scarsa pratica, e infine la pezza ruvida, sporca di sangue e liquido amniotico, che proteggeva il corpicino dal nudo legno. “Tela di Genova” veniva chiamata comunemente. “Jeans”, nelle Americhe. Roba da mozzi, garzoni di macchina o scaricatori. E nient’altro. Non due righe di accompagnamento, non un medaglione, una spilla di brillanti, un nastro con le cifre o un qualunque segno di quelli che, nei romanzi venduti sulle bancarelle sotto i portici dietro il Pammatone, avrebbero assicurato al neonato, seicento pagine dopo, il dispiegarsi di un destino ricco e felice. Neanche una cesta o un trapuntino. E niente perciò rimase ad Antonio Casagrande, se non un’invincibile sensazione di vuoto alle spalle, di leggera vertigine, come chi manchi per un soffio la presa, e la risposta alla domanda più difficile: ma io, chi sono?
Questione che senza dubbio non lo tormenta nell’alba di venerdì 26 aprile 1867. Mancano poche settimane al suo dodicesimo compleanno, e Antonio Casagrande non si perde in riflessioni complicate. Neppure indugia su ciò che di stupefacente la vita gli ha appena regalato. L’avere finalmente imparato a leggere, scrivere e far di conto, per esempio. Oppure il fatto che, da qualche mese, non si corica più con lo stomaco che brontola per la fame. O soprattutto la missione, il motivo esaltante – storico! tuona il padrone –, la ragione per cui si sono messi in viaggio.
Nulla di tutto questo occupa la sua mente: solo il fiotto caldo, impetuoso e aromatico che sgorga dai visceri dell’uomo. Gli invade i pensieri, lo turba, gli fa invidia. Se di invidia fosse capace, con quella faccetta puntuta da bestiolina all’erta, le braccia secche di chi ha scampato per un soffio il padiglione dei rachitici, le gambe come stecchi nodosi in calzoni troppo larghi.
Se fosse invidia, il ragazzo svierebbe lo sguardo. Invece si gode lo spettacolo. Registra nella mente lo scroscio che schizza di gocce affilate la pellicola argentea sui sassi che il padrone ha sistemato a corona del fuoco la sera prima, intiepiditi mentre loro due dormivano sul pianale del carro.
È che vorrebbe raggiungerlo, il padrone, eguagliarlo. Tra qualche anno, forse, chissà. Avrà anche lui un getto così robusto? Un flusso inarrestabile? Una pisciata tanto superba? La desidera più di tutti gli altri tesori che l’uomo porta con sé, più del panciotto ricamato ad arabeschi, più della tromba di ottone luccicante. La desidera più della barba imperiale che annuncia il padrone da lontano, cespugliosa come la pelliccia di un animale selvatico: eccomi, son qui, fate largo.
E sì che la barba è un chiodo fisso per Antonio, che ci spera sempre ma per ora niente, pelle di pesca. Giusto una crosta di moccio sotto la narice e lo sbrego a forma di L sulla guancia sinistra, sotto la benda che gli protegge l’occhio cieco.
“Vaffanculo Michele” pensa ogni volta che i polpastrelli incontrano la cicatrice incisa dal coltellino a serramanico. Michele Casagrande, classe 1855, come Antonio. Tutti Casagrande, i bastardi del Pammatone. Oppure Dellacasa o Dellacà o Diotallevi. Condividevano lo stesso letto a castello – Michele sopra e lui sotto – finché il compagno non ha trovato un pagliericcio nel covile di un mandriano sulle alture. Usava il coltello come un pittore il lapis, con grazia. Lo teneva sotto il materasso insieme al resto dell’arsenale: una fionda, cinque biglie di ferro, una manciata di sassi a punta e un tirapugni costruito con un palmo di cordame, tutto bozzi. Un capolavoro di crudeltà.
Di Antonio, nel tempo che il ragazzo è rimasto al Pammatone, c’era invece solo lui, arrivato il giorno del santo patrono dei bambini malati e delle prostitute. Mestiere che, con ogni probabilità, svolgeva anche la donna sgravatasi quello stesso 13 giugno 1855 tra Sottoripa e porta Soprana. Giovane, probabilmente, forse addirittura primipara, per via di quel cordone annodato alla bell’e meglio, e che adesso gli forma un ombelico simile a un cece in bilico sul ventre. Giovane e probabilmente sola. Forse orfana, forse passata anche lei dal Pammatone, una riga tra le innumerevoli che nei registri hanno preceduto quella di Antonio Casagrande. Mica tutte le orfanelle sono finite a servizio nell’ala dei sifilitici, mica tutte cambiano bende e cataplasmi, mica tutte hanno preso i voti. Lavandaia? Sartina? Ballerina? Puttana? «Bagascia frusta» assicurava Michele Casagrande.
Immagini tormentose. La barba l’avrebbe protetto dai prepotenti? Antonio Casagrande ne è certo. Ma questa mattina di aprile del 1867, l’aria di primavera che carezza le foglie appena nate, il ricordo di Michele Casagrande svapora come un sogno alla prima luce. E tra l’una e l’altra cosa, una bella faccia da uomo adulto e una pisciata potente come quella che sta allagando il bivacco, Antonio Casagrande sceglierebbe la pisciata.
Vorrebbe essere grande come il padrone, forte come il padrone, vorrebbe essere il padrone. Vorrebbe assorbire la padronità come lo straccio assorbe il bagnato. Non immagina che questo sconfinato desiderio, che certe notti gira in incubo e lo sveglia, abbia un legame con il fatto che la sua nota nello schedario del Pammatone, alla voce “padre”, esibisce la scritta “ignoto”. Desidera solo continuare a studiare l’omone che il destino ha tenuto in serbo per lui.
Lo ha aspettato tanto. Decine di orfani, moltitudini di esposti, legioni di bastardi prendevano la via dei monti, ma non lui. Gli altri sarebbero andati a mungere mucche, a macellare capretti, a piantare patate in primavera e a raccoglierle in estate, a zappare in autunno, a tirar via pietre dalla terra, a intrecciare cesti in inverno. E lui no. I contadini scendevano in città tutte le settimane, prima il mercato e poi il Pammatone, sceglievano i migliori e contrattavano il sussidio.
«Con quelle spalle mangerà per due» dicevano al preposto.
«Con quelle spalle lavorerà per due» rispondeva il preposto, i conti nelle sopracciglia aggrottate.
Sceglievano sempre qualcun altro, per via dell’occhio cieco. Poi è arrivato il padrone. Appena in tempo, perché il ragazzo aveva già compiuto undici anni. Anche se non aveva le idee chiare sui numeri, sapeva che undici è uno meno di dodici, compiuti i quali non avrebbero più potuto tenerlo a pensione. L’avrebbero gettato nelle fauci immonde della Vita, che l’avrebbe straziato con le sue grinfie: Superbia, Accidia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Avarizia. Così il confessore, sbrigando l’impiccio settimanale.
Quando il padrone entrò nella sala dove gli orfani attendevano schierati spalla a spalla, fuori pioveva col vento. Davanti al tavolo del preposto l’acqua gocciolava dai ricci alla barba, alle spalle, alla pancia, alla punta degli scarponi, alla pozza sul marmo. Sembrava un orco.
«I più grandi niente sussidio» disse il preposto.
«Che m’importa del sussidio! Mi serve un assistente, mica la carità, perdio!»
Sembrava Barbablù.
Degli altri due spanne più alto, Antonio teneva gli occhi sulla pozza che si allargava, ploc, ploc, gli stivali con il segno del bagnato, ploc, ploc, ploc. “Mi toccherà asciugare” pensava. Invece era stato scelto.
«Lui?» domandò il preposto.
Lui. Così è la vita. Far su le sue cose (che cose?) era stato un attimo. E poi via, fuori, nei vicoli, Piccapietra, porta Soprana, la cattedrale di San Lorenzo bianca e nera, dietro a Barbablù. Lo sguardo fisso a terra per non sfidare la Vita in agguato nei bassi, sotto i voltoni, a ogni crocicchio. Piazza Valoria numero 4, portone nero, scale buie, su e ancora su, e ancora su, fino a una soffitta tutta luce. Dentro, una baraonda di vetri, boccette, pozioni, bauli, scansie, fascicoli, libri, luccicori, specchi, candelabri, ventagli, broccati, colonne, palmizi, fondali marini e montani e un sentore come di polvere e speziale. E una ragnatela di fili appesi al soffitto. In un angolo, un paravento, una branda e un vaso da notte. Suoi? Suoi.
«Il cesso è qui fuori. Si mangia al piano di sotto, dalla Giuse. Colazione, pranzo e cena. Qui c’è il banco da lavoro, qui il magazzino e qui l’archivio. Io dormo lì. Le macchine stanno là dietro. L’altana fa parte dello studio. Attento a non sporgerti, manca il parapetto.»
Niente porte o stanze, niente di ciò a cui Antonio era abituato al Pammatone: dormitorio, refettorio, direzione, cappella, cortile, lavatoio, sacrestia, infermeria uomini, infermeria donne, infermeria ragazzi, magazzino, spezieria e poi infilate di letti, panche, tavolacci. Nella soffitta di piazza Valoria lo spazio si dilatava e restringeva solo grazie a un gioco di tende.
«Attento: qui deve stare il cliente. Né più in qua né più in là. Appoggiato alla colonna oppure seduto, basta che stia fermo. La luce è quella del finestrone, dritta sulla faccia. Ombra sul resto del corpo, così pare un papa in trono.» Poi il padrone diede uno strattone a una tenda più scura e più spessa delle altre. «E qui c’è il sancta sanctorum.» Comparve un banco gemello al primo, e come il primo ingombro di boccette e bacinelle. Una lampada oscurata da una carta rossa pendeva da una trave. «Ricordati, i miracoli sono come i peccati: si fanno al buio.»
Antonio non aveva capito una parola. Dove diavolo era capitato? Che bottega era mai quella?
Da quel giorno, continua a studiarsel...