Dalle finestre quadrate si vedevano le creste delle montagne all’imbrunire. Era gennaio, il tempo delle giornate corte e dei colori del ghiaccio. Nell’aria ancora l’elettricità del Natale, con i regali scartati da poco e le noci e i mandarini a fine pasto: sospendere la quotidianità anche solo per qualche giorno, stare in famiglia con i tempi disobbedienti, un nuovo anno appena iniziato.
Carla apparecchiava con cura una tavola fatta di cose non sue. Gli amici sarebbero arrivati a breve.
Si stava aggrappando a quella cena con le unghie, per dimostrare agli altri e a se stessa che lei riusciva a fare tutto, che era una di quelle donne che non si fermano, neanche con un bambino di due mesi che dormiva nella stanza in fondo al corridoio e una tristezza nel cuore che le parlava di una lontananza sempre più grande da suo marito.
Filippo assente, la sua testa sempre distratta e quel corpo quasi vuoto, intorno a lei, che non vibrava più, quasi un’ombra pesante che si spostava per casa. E allora ecco, otto amici per svagarsi. Per ricordare che si può ridere ancora.
La casa in montagna era uno chalet di legno caldo, pieno dei ricordi di una vita, non la sua. Quadri, tappeti, tante stanze per tanti figli, per una famiglia che vuole continuare. Quella condivisione l’aveva amata, Carla, quando i genitori di Filippo l’avevano accolta, anni prima: se ne era subito sentita avvolta e protetta. Ora invece era diventata una gabbia che la faceva sentire piccola piccola, in trappola. Un irrequieto animale selvatico che non sa più quale sia la strada per tornare nel bosco.
Ogni anno si ritrovavano lì tutti insieme: i suoceri di Carla aprivano le porte di quella grande casa che per le vacanze di Natale diventava un porto di mare. I figli arrivavano con gli amici e la confusione. Giornate che per tradizione si ripetevano nel tempo, la mattina sugli sci, le carte al pomeriggio, la televisione accesa la sera che teneva compagnia anche a chi stava facendo altro.
La grande cucina rossa profumava di polenta, Carla voleva farla pasticciata «perché è veloce e piace a tutti».
«Fai come vuoi, a me sembra un piatto di avanzi messi in forno.» Sempre simpatico Filippo, niente da dire.
«Non sono avanzi, ma ingredienti fatti a pezzi e poi… quello sì, messi in forno. Ma forse vuoi qualcosa di più elegante…» Le era uscita una nota acida di cui si pentì subito. Doveva essere brava, doveva controllarsi.
La tavola era pronta, mancava solo qualcosa da mettere al centro per abbellire il tutto. Carla si guardò in giro per trovare ispirazione e lì, in un angolo, stranamente dimenticato, vide il telefonino di Filippo.
Quante volte – una per ogni dubbio – avrebbe voluto leggere il contenuto di quel cellulare? Aveva finto indifferenza in tante occasioni, seduta accanto a Filippo, spiando di sbieco il percorso del dito sullo schermo. Lo studio di quei mesi l’aveva premiata. Ora conosceva il codice.
In un attimo lo afferrò, temendo di essere scoperta. Era sola ma non era sola. Pensò di chiedere a Filippo di raggiungerla dal piano di sopra – era il modo migliore per tenerlo lontano da lì – ma non era mai stata una giocatrice d’azzardo. Carla si sentiva trascinata in un vortice. Forza. Ma lo schermo non si sbloccava. Avanti, Carla, riprova, si disse controllando in un lampo i movimenti intorno a sé.
Pam. Il cellulare s’illuminò di colpo, Carla cercò senza sapere dove andare esattamente, verificò di nuovo che nessuno arrivasse, scelse WhatsApp. Banale ma azzeccato. Primo contatto della lista: “Manchi tu, mia ragazza”.
Boom.
Quasi non capiva, scorse la cronologia, niente da fare. Maledetto stronzo, l’hai cancellata. Quali segreti volevi nascondere?
Ecco il tradimento che sentiva da mesi. Lo sentiva con una certezza inspiegabile. Il tempo iniziò a girare diversamente, raddoppiando la velocità. Anche la stanza le girava intorno, trascinandola nel vortice. Carla leggeva e rileggeva la stessa frase, le si era stampata nella mente e lampeggiava come l’insegna al neon di un bar tabacchi: aveva l’impressione che tutti potessero leggerla, vedere e sapere tutto. Già, ma tutto cosa? Lei non sapeva un bel niente.
Perché hai scritto a questa Simona B che ti manca? E tu chi sei, perché gli manchi tu e non io? Perché sei qui con noi, stasera, tra i piatti del servizio bello e le pareti in legno? Simona. Adesso aveva un nome, anche se avrebbe voluto non conoscerlo mai. Un nome è un pezzo concreto, è una storia, un suono pronunciato in mille modi. Simona, lo sai che ci sono dei bambini, che uno non ha ancora due mesi e l’altro non parla più, che ci sono anni d’amore? Perché mi fai questo?
Non sapeva più a chi stesse parlando, se a lei o a lui. I pensieri erano diventati una ruota di fuoco, una porta che sbatte a ripetizione. Riappoggiò il telefono nel suo angolino, la mano tremante, la testa che girava. Si strappò dal vortice. Erano le 19. Carla passò dalla cucina al bagno, poi al bambino da allattare. “Col fiele e il dolore” pensò. E si sentì in colpa.
Filippo era felice di quella cena, si era preso qualche momento per mandare alcune mail di lavoro e farsi una doccia. Carla era di sotto, la sentiva mentre apparecchiava la tavola. Erano suoni rassicuranti che gli parlavano di uno spazio per lui, di casa, di una normalità che gli dava pace. Teneva il telefono lontano per non controllarlo troppo: aveva scritto a Simona dopo qualche giorno di silenzio, stava cercando di mettere un po’ di distanza tra loro, ma poi le cose lo guidavano da un’altra parte e lui si diceva che amen.
Scendendo le scale avvertiva organizzazione, in questo Carla era brava, doveva ammetterlo, faceva filare le cose pratiche lisce come l’olio. Certo, se con la stessa determinazione fosse riuscita a governare le emozioni e gli sbalzi d’umore… la vita sarebbe stata un po’ più facile per tutti. Invece su quel fronte non si dava mai pace, era un fiume in piena. E più lui cercava di arginare il fiume, più Carla usciva dagli argini.
Negli ultimi mesi aveva perso la voglia di contrastare quelle esondazioni, gli sembrava una fatica eccessiva oltre che inutile. Perché doveva caricarsi sulle spalle anche quel peso? Era stanco, e tutto era diventato troppo complicato. Il lavoro che non gli dava più la soddisfazione dell’inizio, i problemi con Tommi, l’arrivo di Mattia e le continue tensioni con cui aveva a che fare nel quotidiano. Perché la vita cambia a poco a poco sotto il tuo naso finché di colpo non realizzi che la leggerezza è uscita di casa?, si chiedeva.
Ma quella sera era consacrata alla spensieratezza. Si versò un bicchiere di vino da condividere con Carla e la raggiunse in camera dove si stava preparando: erano lì, uno accanto all’altra sul letto, il profumo della doccia appena fatta. Assaporò la sua bocca con un bacio, che porto sicuro erano state quelle labbra. Se solo fosse riuscito a dimenticare Simona…
Dal piano di sotto giunse il suono del campanello, e subito dopo i convenevoli dei saluti: gli amici erano arrivati, accolti dai genitori che a breve sarebbero usciti a cena «per lasciare la casa ai ragazzi». Carla sfilò via dal letto con il suo odore e la sua inquietudine. Lui sorrise e le strinse la mano distrattamente, prima di scendere ad abbracciare gli altri. Carla fece un respiro profondo. Che la serata abbia inizio.
Quattro coppie, gli amici di una vita. Ma il vortice aveva ripreso a girare e Carla vi si abbandonò. Il telefono di Filippo era una calamita per gli occhi, ne sentiva la presenza, gli spostamenti da un ripiano a un altro. Era una sorta di cordone ombelicale che le toglieva la fame e dava al suo cuore un ritmo sfrenato, doloroso. Non era sicura di poterlo tollerare a lungo.
Inutile cercare di afferrare brandelli di conversazione o, peggio ancora, inserirsi con qualche battuta per fingere di partecipare alla serata: Carla sprofondò nel baratro della propria solitudine, lasciando galleggiare in superficie le facce e le parole. In fondo, nessuno badava a lei, o almeno così le sembrava. Soprattutto Filippo che, a due sedie di distanza, non stava zitto un secondo e mai si girava a guardarla. Evidentemente, per lui poteva anche non esistere.
E allora lo fece. Semplicemente, con un gesto naturale quanto audace, come quando da ragazzina sfilava le birre dal frigo dell’autogrill e usciva a testa alta insieme alle sue amiche per poi ridere appena varcata la soglia. Oggi però, in quella mossa, c’era una disperazione nuova e pochissimo da ridere. Si allungò e prese il cellulare di Filippo dal tavolo, come fosse il sale.
Era ancora nelle sue mani. Lo abbassò sul ventre e, complici i due amici che li separavano, aprì la chat. Ora sapeva bene dove andare. L’immagine del profilo era sempre lì, quel viso che sorrideva guardando lontano, steso sulla sabbia in una giornata d’estate, la spallina del costume annodata per aderire meglio al seno rotondo.
“Manchi anche tu, la tua ragazza si sente sola senza te.”
Non avrebbe dovuto farlo, erano solo colpi al cuore che le stavano portando via qualcosa di suo che non voleva lasciare andare. Veloce, chiudi tutto, appoggia il telefono e fai finta di nulla.
«… Ti ricordi, Carla?»
Una voce la strappò dal mondo in cui si era infilata. Filippo, ignaro, stava ancora parlando.
«Sì… no… non ho capito.»
«Carla è per aria questa sera… mica sarai incinta di nuovo?!»
«Ti ricordi quando ci hanno fatto provare il China Martini caldo sulle piste da sci e siamo scese ubriache fradice?»
Le risate le arrivavano come da un altro pianeta.
«Sì… quanti anni avevamo? Una ventina forse… lo davano gratis.»
«È vero! Ecco perché ne avevamo bevuto tanto… caldo poi non te ne accorgi nemmeno, va giù che è un piacere.»
«Io sono entrata in casa e ho vomitato l’anima, non ho fatto neanche in tempo ad arrivare in bagno.»
«Dai, Carla, che schifo, stiamo mangiando!»
«Capirai… perché a te non è mai successo, vero?! Chi vuole altra polenta? Dai, non lasciatemi gli avanzi.»
«Direi che siamo a posto così, o no, ragazzi?!»
Altre risate. Mai si era sentita così estranea all’allegria come in quel momento.
Faceva caldo in quella stanza, sbatté le palpebre un paio di volte perché intorno a sé vedeva tutto nero, ma respirò e sorridendo chiese: «Mi aprite un pochino la finestra?».
«Dai che il vino ha fatto il suo dovere! Passami il bicchiere, che è vuoto.»
Rientrò nel suo corpo. Doveva tenerlo a bada perché si sentiva come un cavallo che scalpita fuori controllo. C’erano due forze opposte dentro di lei che la tiravano fino a strapparla riducendola in pezzi. Immaginò brandelli di sé in giro per la casa, il sangue che esplodeva sulla tavola, schizzava in faccia a quegli amici che le sembrava di non conoscere più e sgorgava dalla sorgente fluido, morbido e rassicurante. E così, squartata, sentiva la sua voce che parlava e sorrideva, e in un attimo la serata era finita.
“Come sono felici tutti!” pensò salutando le coppie che uscivano di casa tra un «grazie tesoro» e un «ci vediamo presto».
Poco dopo si chiuse anche la porta della loro camera. Carla la accarezzò e girandosi piano ci si appoggiò di schiena con gli occhi socchiusi. Quindi si stese sul letto liberando finalmente il dolore senza lasciare spazio a nient’altro: la rabbia s’impossessò di lei e la accese come un fuoco.