Quando si aprirono le porte posteriori del furgone Albion, in mezzo alla strada c’erano già diverse persone che curiosavano senza ritegno. In mano avevano strofinacci bagnati e indumenti stirati a metà , tutte cose che per la fretta di uscire a guardare non avevano nemmeno posato. Intere famiglie sbucarono dalle basse costruzioni e si sedettero sui gradini d’ingresso come se ci fosse qualcosa di interessante in televisione. Una tribù di marmocchi neri di fuliggine, guidata da un maschietto in mutande, attraversò la strada polverosa e si dispose a semicerchio intorno ad Agnes. Agnes salutò educatamente i bambini che la fissavano con la bocca ancora contornata di sugo rosso.
A causa della compatta disposizione delle case, i portoncini erano rivolti uno verso l’altro e ogni edificio era separato da quello accanto da una bassa staccionata e una sottile striscia di prato. I portoncini dirimpetto a quello di Agnes erano tutti spalancati e le donne che guardavano dalla soglia erano attorniate ciascuna da una mezza dozzina di figli, tutti con gli identici lineamenti. Sembrava la foto di nonna Campbell con la sua dozzina irlandese che un giorno Wullie le aveva mostrato. Dai gradini della sua casa, Agnes rivolse un sorriso al di là della staccionata e nel salutare con le mani fece scintillare al sole le sue maniche da coniglio perlinato.
«Salve» disse educatamente rivolta a tutti in generale.
«Prendete casa?» chiese una donna dalla porta dopo la sua. Aveva i capelli biondi che si arricciavano a partire da radici castano scuro, come se portasse una parrucca di carnevale.
«Sì.»
«Tutti quanti?»
«Sì. Io e la mia famiglia» precisò Agnes. Si presentò e tese la mano.
La donna si grattò l’attaccatura dei capelli. Agnes cominciava ad avere il dubbio che si esprimesse solo a domande quando l’altra finalmente rispose. «Sono Bridie Donnelly. Vivo al piano di sopra da ventinove anni. In tutto questo tempo ho avuto quindici vicini qui a pianterreno.»
Agnes si sentiva addosso tutti gli occhi dei Donnelly. Una bambina magrolina con gli occhi marroni e rotondi sbucò dalla porta con un vassoio di tè, le tazze diverse una dall’altra. Tutti bevvero senza staccarle lo sguardo di dosso.
Bridie indicò l’altro lato della staccionata con un cenno della testa. «Quella là è Noreen Donnelly, mia cugina. Ma non del mio stesso sangue, sia chiaro.» Una donna dal colorito grigio fece una linguaccia annuendo seccamente. «Quella ragazza là invece è Jinty McClinchy. Mia cugina. Lei sì è del mio stesso sangue.» Una donna alta quanto una bambina, sulla porta accanto a quella di Noreen, aspirò una lunga boccata da una cicca di sigaretta, strizzando le palpebre contro il fumo. In effetti sembrava Bridie sputata ma con il fazzoletto in testa. Tutti somigliavano a Bridie, persino i bambini, solo che questi avevano l’aspetto un po’ meno mascolino.
Con la coda dell’occhio Agnes intravide un’altra donna che attraversava la strada polverosa. La donna si fermò e si rivolse al semicerchio di trasandati marmocchi; annuì come se le avessero dato una triste notizia e a passo marziale varcò il cancelletto della nuova casa. Agnes non aveva scampo. Dietro di lei comparve un imbronciato Leek che andava a scaricare altra roba dal furgone.
«È quello tuo marito?» chiese la donna appena arrivata, senza presentarsi. Aveva la pelle del viso liscia e tesa come una testa pelata. Gli occhi erano incavati come quelli di un teschio e i capelli, di un intenso marrone arruffato ma già un po’ radi, sembravano la pelliccia di un gatto randagio. Indossava un paio di sformati fuseaux con le staffe infilate in un paio di pantofole da uomo.
Agnes balbettò di fronte all’assurdità della domanda. Tra lei e Leek c’era una differenza di una ventina d’anni. «No. È il mio figlio di mezzo. Compie sedici anni in primavera.»
«Oh! In primavera, eh?» Dopo averci riflettuto un momento, la donna puntò il dito ossuto verso il furgone da fruttivendolo. «È quello laggiù tuo marito, allora?»
Agnes guardò l’uomo alle prese con il vecchio televisore che lei, per discrezione, aveva cercato di avvolgere con un lenzuolo. «No, lui è un amico di un amico che ci sta dando una mano.»
L’altra ci pensò su, risucchiando le guance smunte nel teschio. Agnes accennò un saluto e fece per entrare in casa. «Che c’hai sulle maniche?» le chiese la scheletrica donna.
Agnes se le guardò e strinse a sé le soffici braccia, in un gesto protettivo, come se fossero due gattini. Gli strass si agitarono nervosamente. «Sono solo perline.»
Shona Donnelly, la bambina che era uscita con il tè, fece un lento sospiro. «Oh! Signora, sono davvero incant…»
Faccia da teschio la interruppe. «Ce l’hai almeno, un marito?»
Il portoncino si aprì di nuovo e sul gradino più alto comparve Shuggie. Senza curarsi delle altre donne, si rivolse alla madre tenendo le mani sui fianchi; spinse un piede in avanti e, con una chiarezza che Agnes non aveva mai sentito sulle sue labbra, disse: «Dobbiamo parlare. Non credo proprio di poter vivere qui. C’è puzza di cavolo e acido di batterie. È semplicemente impossibile».
Le teste del pubblico si voltarono scioccate una verso l’altra. Era come se una mezza dozzina di facce guardasse il proprio riflesso in uno specchio. «Ma sentilo! Si sta trasferendo qui Liberace!» esclamò una delle donne.
Donne e bambini si spanciarono all’unisono, fra stridule risate e profondi colpi di tosse catarrosa. «Oh! Speriamo che in salotto ci sia abbastanza spazio per il pianoforte.»
«Be’, è stato un vero piacere conoscervi tutte» disse Agnes con una smorfia di disappunto, stringendo Shuggie al fianco e girandosi per entrare in casa.
«Dai, non fare così. È un piacere davvero conoscerti, tesoro» gracchiò Bridie. La risata le aveva addolcito il contorno degli occhi. «Qua siamo come una grande famiglia. Non capita spesso di vedere gente nuova.»
Faccia da teschio avanzò di un passo verso Agnes. «Giusto. Vedrai che andremo d’amore e d’accordo.» Si succhiò i denti come se vi si fosse incastrato un pezzetto di carne. «A patto che tu tenga quelle maniche sbrilluccicanti alla larga dai nostri cazzo di mariti.»
Per il resto del pomeriggio, mentre i grandi finivano di scaricare il furgone, Shuggie esplorò quell’estremità del villaggio. Donne in fuseaux aderenti avevano trascinato le sedie della cucina vicino alle finestre e, col volto inespressivo, si erano sedute a guardare gli scatoloni che venivano trasportati dentro uno dopo l’altro. Molte di loro salutavano il bambino con cenni esagerati della mano, togliendosi cappelli immaginari e sghignazzando sotto i baffi.
Nel suo vestito nuovo, Shuggie arrivò fino al termine della via. Non c’era niente laggiù. La strada si interrompeva al limitare della torbiera come se avesse gettato la spugna. Pozze scure di acqua paludosa si susseguivano immobili, profonde, minacciose. Dall’erba si innalzavano grandi selve di giunchi marroni, che lentamente si stavano avvicinando alle case con l’intenzione di riprendersi il terreno di cui i minatori li avevano defraudati.
Shuggie vide dei bambini scalzi che giocavano in un turbine di polvere. Dal bordo di una macchia di cespugli finse di catalogare alcuni piccoli fiori rossi, studiando le dimensioni di ognuno, mentre aspettava che i bambini gli chiedessero di unirsi a loro. Giravano l’uno intorno all’altro con le biciclette come se lui non esistesse. Cercando di mostrarsi disinteressato, Shuggie schiacciava le bacche bianche tra le dita e con il loro succo appiccicoso tentava di rendere meno lucide le scarpe buone che indossava.
Gli scarponi borchiati dei minatori mandavano scintille al contatto con l’asfalto. Gli uomini cominciarono lentamente a sciamare uno a uno lungo la strada deserta. Anche senza la sirena della miniera, la memoria muscolare li spingeva a rispettare una routine morta, a tornare verso casa all’ora del fine turno senza che fosse stato finito un bel niente, solo con la pancia piena di birra e la schiena incurvata dal peso delle preoccupazioni, trascinandosi lungo la strada con le giacche da lavoro pulite e gli scarponi ancora lucenti. Shuggie si fece da parte al passaggio delle loro teste, chine come quelle di stanchi muli neri. Senza una parola, ogni minatore radunò un gruppetto di gracili marmocchi che li seguirono ubbidienti, come ombre ossequiose.
Agnes, varcato il portoncino, chiuse davanti a sé la grande controporta di vetro. Non riusciva a pensare. Nello spazio angusto tra le due porte finì la lattina che aveva nascosto nella borsa. Appoggiò il viso contro il muro, freddo e tranquillizzante. Non sarebbe stato facile riscaldare quella pietra spessa e umida.
Dopo essere rimasta a lungo nel nascondiglio, percorse il corridoio fino in fondo, oltrepassando due piccole camere da letto. Al centro della prima c’era Catherine, in piedi, completamente immobile. Gli scatenati figli dei minatori tenevano i gomiti appoggiati sul davanzale esterno e la guardavano attraverso il vetro della finestra come se fossero allo zoo. Interdetta, Catherine non poteva che fissarli a sua volta. Le finestre erano mezzo sgangherate e il silicone scrostato lungo il telaio di legno presagiva notti fredde e muri bagnati. Agnes sentiva chiare le loro parole come se i marmocchi fossero nella stanza insieme a lei.
Leek aveva trovato l’altra camera. Aperta la borsa con l’occorrente per il disegno, si era disteso sul pavimento spoglio e stava facendo uno schizzo a carboncino delle colline nere circostanti. Tenendo la matita inclinata, disegnò gli uomini in giacca scura che li avevano osservati quando erano arrivati. Le loro sagome frastagliavano il profilo delle colline come alberi spogli. Agnes guardò il figlio, invidiando quel dono che gli permetteva di sparire, scivolare via, lasciarsi alle spalle tutti quanti loro.
Non c’erano altre camere da letto dopo quella. La terza che era stata loro promessa era chiaramente il soggiorno, e tornando due, tre volte sui propri passi, Agnes si rese conto che i figli avrebbero dovuto di nuovo dormire in una stessa stanza.
Shug, dal fondo del corridoio, la stava guardando inespressivo. Prese le ciocche del riporto che ondeggiavano al vento e con una leccata di saliva cercò di schiacciarle sulla testa. Poi tornò in cucina e le fece cenno di seguirla. Il grande stendino per i panni che pendeva dal soffitto sembrava uno strumento di tortura. A un’estremità era appesa una tenuta da lavoro per minatori, ordinatamente stesa ad asciugare: calzini, canottiera e mutande bianche, una camicia blu sintetica, tutti indumenti irrigiditi dal tempo. Chissà se l’uomo a cui appartenevano sarebbe mai tornato dalla miniera? Forse erano davvero entrati nella casa sbagliata.
Il rivestimento dei mobili di truciolato si staccava in diversi punti e Shug stava infilando l’unghia del mignolo sotto uno dei laminati. Alle sue spalle, nell’angolo sopra i fornelli, si allargava un rampicante di muffa nera. Senza guardarla in faccia, disse semplicemente: «Non posso restare».
Lì per lì Agnes quasi non alzò nemmeno lo sguardo, pensando che Shug si riferisse al fatto che doveva andare a lavorare per guadagnarsi qualche soldo. Lo faceva spesso, di tornare a casa dopo un turno e subito alzarsi e annunciare che usciva di nuovo. Non era da lui starsene in panciolle.
«A che ora vuoi cenare?» gli chiese, già preoccupandosi di pentole e coltelli.
«Non le voglio più le tue cene. Non l’hai capito?» Shug scuoteva la testa. «È finita. Non posso più restare. Non posso restare con te. Tutte le tue pretese. Tutto quel bere.»
Solo allora Agnes notò che le valigie di broccato erano sistemate in mezzo agli scatoloni e quelle rosse no. Doveva avere sul volto un’espressione di profonda confusione perché Shug la guardò negli occhi e cominciò ad annuire lentamente, come fai con un bambino che deve inghiottire una medicina, per incoraggiarlo, in attesa della botta di amaro. Agnes abbassò lo sguardo. Smise di cercare la pentola e si dedicò a raddrizzare gli strass del golfino rivolgendo all’infuori le lucenti sfaccettature, prendendo tempo, incerta sul da fare.
«È finita» ripeté lui.
Nella stanza c’era una sola sedia, una sedia da cucina con lo schienale rotto, coperta di schizzi di vernice e usata per arrivare ai pensili più alti. Agnes chiuse piano la porta; in corridoio i ragazzi si stavano già lamentando, avendo capito che non c’erano abbastanza camere da letto per tutti. Spinse la malridotta sedia contro la porta chiusa e si sedette. «Perché non sono abbastanza per te?»
Shug sbatté le palpebre come se non potesse credere alle proprie orecchie. Scosse la testa e parlò battendosi il petto. «No, cara mia. Perché io non ero abbastanza?»
«Non ho mai nemmeno guardato un altro uomo.»
«Non è questo che intendo.» Shug si stropicciò gli occhi come se fosse stanco. «Perché non mi hai amato abbastanza da stare lontana dall’alcol, eh? Ti compro i vestiti migliori, lavoro tutte le ore che Dio ci manda.» Fissò il muro, lo sguardo perso al di là di esso. «Pensavo, sai, se le do un figlio mio… e invece no. Nemmeno quello è bastato a placarti.»
La prese rudemente per il gomito, cercando di tirarla su dalla sedia. Agnes si divincolò e si risedette come se stesse inscenando un sit-in di protesta.
Si trovava nell’insidiosa terra di mezzo: abbastanza alcol da sentirsi combattiva ma non ancora abbastanza da cominciare a sragionare. Solo qualche sorso in più e sarebbe diventata distruttiva, sgradevole, velenosa. Shug la fissava come se stesse studiando un temporale in arrivo dalla valle. La afferrò e cercò di nuovo di smuoverla, prima che i grossi nuvoloni dentro di lei esplodessero.
Agnes si sottrasse alla presa e tornò a sedersi, poi si alzò tenendo la schiena dritta, la testa alta. Lo squadrò a lungo con freddezza. Non riusciva ancora a credere a quello che stava succedendo. «No. Non mi sta bene. Questo non è degno di una donna come me. Cioè, guardami. Guardati.»
«Ti stai rendendo ridicola.» La tirò per il golfino.
Poi passò alle maniere forti. Agnes non gridò quando Shug la prese per i capelli e la trascinò a terra. Si schiacciò contro la porta come se in quel modo potesse tenerlo dentro per sempre. Shug tirò la maniglia, facendole sbattere la porta contro la nuca come se Agnes fosse semplicemente un angolo di moquette sollevato. Nello scavalcarla, le urtò la parte inferiore del mento con la scarpa, spaccando la pelle bianco perla.
«Ti prego, io ti amo. Davvero.»
«Sì, lo so.»
Quando il taxi aveva ormai imboccato la P...