«Dai, Seba» chiama René da lontano, le mani a coppa attorno alla bocca.
Seba si sistema il cappuccio della cerata grigia, quindi si carica sulle spalle un sacco di immondizia appena riempito. «Che c’è?»
«Stai andando al rallentatore» dice René, «così non finiamo più.» E, per dare più forza alle parole, sbatte un paio di volte il dorso di una mano sul palmo dell’altra.
Ha ragione, pensa Seba, avviandosi giù per il sentiero che porta ai bidoni della spazzatura, di fianco all’arrivo della seggiovia. Perché non è solo l’essere di turno alle pulizie la mattina dopo la notte delle streghe, quindi dover andare a caccia di bottiglie, lattine, cartoni, frammenti di plastica e qualunque altro tipo di rifiuto attorno a tutto il lago. E nemmeno il doverlo fare sotto quella maledetta acqua, che macera la carta, sfalda i cartoni e gonfia i sacchetti di plastica. È che per Seba, questa mattina, il tempo sembra rallentare fino a fermarsi. In un impossibile equilibrio, come quello che cercano certi ciclisti nelle gare su pista, quando si fermano senza appoggiare il piede a terra prima di lanciarsi nella volata finale. Tutto quello che vuole Seba è che arrivino in fretta il pomeriggio, e poi la sera.
Il pomeriggio, perché quest’anno per la prima volta sarà lui a moderare un incontro. Si tratterà di un dibattito, una specie di tavola rotonda tipo le assemblee a scuola, a proposito del rapporto tra le parole e l’odio. Un argomento cui tiene un sacco e per il quale si è preparato altrettanto. Ha letto libri, cercato articoli on line, guardato e riguardato conferenze e interviste su YouTube, preso libri in prestito in biblioteca. Ha proposto lui stesso quel tema. Perché pensa sia facile condannare le forme in cui l’odio esplode in modo più evidente. Violenze fisiche, bullismo, discriminazioni, tanto grandi che spesso quando te le ritrovi davanti non puoi che dire “che schifo”. Ma per cui spesso, per lo stesso motivo, ti chiedi anche “sì, ma io che ci posso fare?”. E la risposta, in effetti, molto spesso è: niente.
Molto più difficile, pensa Seba, è riconoscere che tutto parte dalle parole. Quelle che ciascuno usa ogni giorno, o accetta che gli altri usino. E che, se sono parole d’odio, prima o poi finiranno per convincere qualcuno che quell’odio, chiuso dentro le parole, stia troppo stretto. E che allora si possa farlo uscire, passando ai fatti. È così che Seba vuol finire il proprio discorso.
E poi la sera. Quando lui e Marti si rivedranno da soli. E allora, allora forse succederanno delle cose. Forse faranno delle cose. Cose che magari lei conosce già, ma non lui. Mai.
“Chissà come sarà” si chiede riempiendo il sacchetto di una montagnola di piatti di carta con gli avanzi della cena, impilati uno sull’altro nei pressi del falò. Chissà se sarà tipo una gara tra lui e Marti, come la notte prima al campo da calcio, oppure se somiglierà più a un gioco di squadra. Forse il fatto che il tempo questa mattina sembri non passare mai, e la sera appaia tanto lontana, forse non è una brutta notizia. Significa che ha un intero giorno per prepararsi, qualunque cosa significhi. Perché a certe cose bisogna prepararsi, giusto? Chissà.
Una cosa che vorrebbe fare è dare a Marti il ciondolo d’argento a forma di sole che porta sempre al collo. Gli piace l’idea che per un po’ lei porti addosso qualcosa di suo. Se lo vorrà. Però allo stesso tempo teme di correre troppo, e che lei possa prendere quella cosa come una sciocchezza da ragazzini.
Gliel’avevano regalato i suoi, quel ciondolo, per un compleanno di alcuni anni prima. Con un motivo ben preciso. Entrambi erano astrofili incalliti, del tipo che ogni volta che potevano – e non erano troppo stanchi – salivano sul tetto dello Yeti armati di un vecchio cannocchiale, dietro al quale si perdevano a scrutare il cielo notturno. A forza di tutte quelle ore all’aperto, avevano passato un po’ della loro passione anche a Seba. In particolare ciò che più lo affascinava era una cosa che gli aveva detto sua madre, una notte limpida e senza luna, in cui la Via Lattea sembrava sul punto di esplodere di luce.
«Guarda come si vede bene: le stelle tendono a raggrupparsi in galassie, che a loro volta formano ammassi con le galassie vicine, come non volessero starsene da sole… L’intero universo è naturalmente portato a stare assieme dalla forza di gravità… Peccato invece che le persone, al contrario delle stelle, spesso facciano tutto il contrario.»
«E allora?» dice Checco – anche lui di turno nel gruppo delle pulizie – incrociando Seba sul sentiero verso il lago. Come avesse sentito l’eco dei suoi pensieri.
«Cosa?»
«E dai, l’abbiamo visto tutti ieri sera.»
«…»
«Come tu e Marti siete spariti.»
«Quindi?»
«Quindi…» Checco rotea gli occhi «Dimmelo tu!»
«Ma piantala» dice Seba, e fa per proseguire verso il lago.
«Ehi, okay» sente Checco alle sue spalle. «Almeno dimmi dove trovo altri sacchetti… che li ho finiti.»
«Nello sgabuzzino della seggiovia» risponde Seba senza voltarsi.
Di solito, pensa mentre apre il bidone e ci deposita il sacchetto, di cose del genere ne avrebbe parlato con Filo. Stavolta però è diverso. Nonostante ieri gli abbia detto che è tutto okay, Seba teme non sia proprio così. Un po’ perché Filo dice sempre che è tutto okay, anche quando non lo è affatto. Un po’ perché sa che, prima o poi, loro due dovranno guardare dentro quella zona grigia, ai margini della loro amicizia, e darle un nome.
«Seba! Chiama René!» grida Checco alle sue spalle. «Il gabbiotto della seggiovia… sta andando a fuoco!»
Il locale di arrivo dell’impianto di risalita sembrerebbe come sempre, non fosse per la porta lasciata aperta da Checco. Dalla quale esce un fumo denso e scuro, presto deviato dal vento e disperso dalla pioggia.
«Voi non avvicinatevi troppo» fa René a Seba e agli altri ragazzi della squadra pulizie, raggruppati lì davanti.
«E tu?» domanda Seba.
«Cerco di capire che è successo» risponde René. Poi si copre la bocca con l’interno del gomito, si avvicina alla soglia, scompare all’interno. Per riapparire tossendo pochi secondi dopo.
«Allora?» chiede Seba.
«Allora è un bel pasticcio… Per prima cosa, allontanatevi tutti da qui» fa René tossendo di nuovo. «Tu» dice a Checco «avverti gli altri al tendone, di’ che ci serve una mano anche da loro… Noi invece» si rivolge a Seba «dobbiamo organizzarci… servono secchi d’acqua, coperte, asciugamani.»
«Hai mica visto Michi e Sara?» chiede René a Seba dopo che hanno diviso gli altri ragazzi in gruppetti, che si stanno dando da fare per provare a spegnere l’incendio.
«No… perché?»
«Erano qui in giro da qualche parte, maledizione… dobbiamo trovarli.»
«Ma… secondo te cos’è successo?» chiede Seba.
«Non lo so» risponde René guardandosi attorno, per assicurarsi che nessuno possa sentirli.
«È stato tipo un cortocircuito?»
«No.»
«E allora cosa…?»
René gli lancia un’occhiata storta. «Il pavimento è coperto di benzina e fogli di giornale… è stato qualcuno.»
Seba si ferma. Apre la bocca per dire qualcosa, ma la richiude.
E in quel momento, in quell’esatto momento, un boato scuote l’aria.
Simile a quello che fanno certi aerei militari, quando bucano il muro del suono attraversando il cielo sopra la valle. Solo, più vicino. Molto più vicino. Troppo, per essere un aereo che passa.
Ci sono giorni che Filo vorrebbe non arrivassero. Però arrivano, arrivano sempre. E lui, allora, tutto quello che avrebbe voglia di fare è aspettare che passino rifugiandosi in camera, a letto. Dove può sentirsi piccolo piccolo, tanto da non poter essere trovato. Non c’è un motivo particolare, per giorni così. Non sono giorni tristi, sono giorni che non sa come prendere. La cosa migliore è lasciarli passare. Oggi è uno di quelli, ma Filo non è a casa, e la tenda che divide con Marti è tanto piccola che impazzirebbe, a restarci dentro tutto il tempo. E nemmeno può non farsi vedere, che Gabri lo aspetta al workshop alla chiesa.
Già, Gabri.
Ieri hanno fatto tardi, a fumare e chiacchierare. È stato bello, per un po’ non ha pensato a sua sorella e a Seba. Poi però, quando è tornato in tenda, avrebbe voluto chiedere a Marti com’era andata, ma farlo avrebbe significato entrare nella sua metà e svegliarla. Lei non avrebbe certo apprezzato e poi, appena si è infilato dentro, le gambe gli si sono fatte di piombo, la testa ha iniziato a fare le capriole – troppo leggera e allo stesso tempo pesante – e si è addormentato di schianto, senza nemmeno togliersi le scarpe.
Il sonno in cui è caduto è stato tanto profondo che quando si è svegliato, e con uno sforzo sovrumano ha aperto la tendina per far entrare un po’ di luce, Marti doveva essere già uscita da un pezzo per colazione. E come lei la maggior parte dei ragazzi, a giudicare da quanto è deserto il campeggio.
«Scusa, che ora è?» chiede a Samu, che spunta ciondolando dal boschetto di tende e si trascina verso il tendone della colazione.
All’Isola i cellulari non prendono – se non in alcuni punti più su, e le uniche prese per poterli caricare sono all’arrivo della seggiovia –, così i ragazzi li tengono quasi sempre spenti in tenda, e il tempo è regolato dalle attività in programma, da quelle ricreative e dalle pause per i pasti, tutte scandite da Nando e René tramite la campana della chiesa, o dalle casse sotto il tendone centrale.
«Più o meno le nove e mezzo» fa quello, lavorando con la cerniera del k-way giallo per chiuderlo meglio.
«Merda.»
Questo significa che Filo si è perso la possibilità di fare colazione, e di farsi una doccia: può solo infilarsi qualcosa di più pesante, sopra la maglietta con cui ha dormito e i pantaloncini corti, e cercare di raggiungere la chiesa in tempo almeno per il workshop.
Quando lui arriva, però, l’incontro è già iniziato. Alcuni ragazzi sono seduti sui cuscinoni ai quattro lati della stanza, gli altri sulle sedie disposte attorno a due grandi tavoli.
Nando sta presentando l’ospite, in piedi sul piccolo palco montato dove un tempo c’era l’altare. Filo cerca di dare meno nell’occhio possibile, ma Nando si interrompe lo stesso. Aspetta che il ragazzo – camminando basso – attraversi la stanza e prenda posto al fianco di Gabri, quindi prosegue.
«Come stavo dicendo, Cecilia è una giornalista, che da anni si occupa di indagare i legami tra musica e politica.» Nando fa una pausa per leggere il foglietto su cui si è appuntato qualche riga di presentazione, maledicendo in silenzio l’età che sempre più spesso gli fa perdere il filo. «Ne scrive su giornali, ne parla in TV, e di recente ha anche pubblicato un libro a riguardo» conclude, prima di passare la parola alla donna.
«Buongiorno, ragazzi» si presenta Cecilia sorridendo. Anche se non è di ottimo umore. Oggi sarebbero dovuti venire all’Isola anche il marito e i due figli, di tre e cinque anni, per concedersi qualche ora di relax una volta finito l’incontro, e festeggiare insieme i quarant’anni che ha compiuto da poco. Ma appena due giorni fa al più piccolo sono venute alcune linee di febbre, così è saltato tutto e il resto della famiglia non si è mosso da casa.
Dopo una breve introduzione, per non annoiare il suo pubblico Cecilia entra subito nel cuore della questione, prendendo a parlare di come da qualche anno le nuove destre e i movimenti a esse collegati utilizzino la musica per far presa sui ragazzi. «Entrano nelle teste soprattutto dei più giovani, contando più sulla voglia di fare festa, di far casino, che sulla condivisione dei contenuti» dice. «Quelli» continua «verranno solo dopo, quando chi si è fat...