Let them talk
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Let them talk

Ogni canzone è una storia

  1. 228 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Let them talk

Ogni canzone è una storia

Informazioni su questo libro

Cesare Cremonini è stato, fino a questo libro, uno dei misteri meglio custoditi della musica italiana. Di lui conoscevamo soprattutto le canzoni, l'ironia e la riservatezza.

Perciò Let them talk. Ogni canzone è una storia, è un piccolo miracolo, almeno per il suo (enorme) pubblico. In queste pagine finalmente "si espone", ma lo fa svelandosi con estro inafferrabile, come nel suo stile. Disseminando la scrittura di indizi, di tessere che a poco a poco compongono il mosaico della sua personalità. Sì, perché il fascino di Cremonini sta anche nelle sue contraddizioni, un bambino introverso fino alle lacrime ma allo stesso tempo accentratore, esibizionista, già votato allo spettacolo: "Inventavo e collezionavo personalità diverse da offrire all'unico pubblico disponibile durante tutta la mia infanzia: la mia famiglia".

Una famiglia indifferente alla musica e un piccolo pianista che cresceva ossessionato dalle note fino alla ribellione, al travestimento, alla fuga e al successo improvviso, travolgente. Uno che incontra Leopardi sui colli bolognesi. Che canta l'amore ma dall'amore è sempre fuggito.

Infine un uomo che a quarant'anni è una star e mentre ti parla sorride, ma nasconde più di un lato oscuro. E in questo libro li rivela, non per soddisfare la nostra morbosità ma perché è da queste ambivalenze, dal buio dove vivono i suoi demoni contrapposto alla solarità del suo continuo omaggio alla vita, che sono nate le sue canzoni. "Ero felice, è vero. Ma a volte non si ha altra scelta." Le canzoni, filo conduttore (ma solo apparente) di Let them talk, stavolta parlano loro eccome! Ognuna è la chiave di un mondo, uno scrigno che Cremonini ci apre per farci attraversare le porte di quel mondo, il suo. Fatto di un'attrazione totale verso il lato poetico della vita, di curiosità verso l'ignoto, di grandi perdite e di sogni ritrovati, di libri letti e immaginati, di film visti e interiorizzati, per spiegarci che l'arte è una sola e ci ricorda chi siamo.

Il tutto sullo sfondo vivido dei famosi colli bolognesi. Ma non solo, anche delle strade segrete di un'Emilia Romagna divertente, sexy, generosa di forme e tollerante nell'animo. Fertile vivaio di grandi talenti e campioni.

Che sapesse scrivere, Cremonini, l'avevamo capito già dalle sue canzoni. Ma qui il cantautore si conferma scrittore.

Buon divertimento.

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50 Special

1999
Se Giacomo Leopardi avesse avuto una Vespa, L’infinito non sarebbe stato meno bello. Una Vespa può essere una siepe mobile che sposta l’immaginazione all’infinito.
E poi Giacomo aveva uno sguardo diverso da tutti, quello verticale e solitario dell’aquila (e non aveva bisogno di un drone, che si chiama così perché imita l’autentico drone, il maschio dell’ape). Non scambieremmo con niente la sua ironia malinconica e disperata che osservava tutto dall’alto. Chissà che cosa avrebbe scritto il poeta di una Vespa che ti fa viaggiare in un altro modo, che ti costringe in posizione fetale e ti trasforma in una figura mitologica mezzo drone e mezzo uomo con le ali ai piedi… Sei attaccato alla terra, però le ruote troppo piccole ti fanno volare, con tutti i rischi del caso.
Ma quante declinazioni può avere una corsa in Vespa a rotta di collo? Direi collettiva, sentimentale o solitaria.
Anche se per estrazione era più mod che rocker, non ce lo immaginiamo il Giacomo delle Operette morali dentro un’opera degli Who, a scorrazzare con l’eskimo verde in uno sciame di Lambrette per le strade di Recanati stile Quadrophenia. E nemmeno per le strade di Roma in cravatta e completo grigio chiaro con dietro seduta Audrey Hepburn.
No, quando pensiamo a lui pensiamo a un viaggio solitario. Una rinascita in curve d’asfalto e mammelle di terra che dovrebbero provare tutti.
Nei riti di iniziazione della maggior parte delle tradizioni, l’adolescente scappa dalla tribù e sale sul monte da solo: è la ricostruzione simbolica di una morte e di una rinascita, di un distacco e di un ricongiungimento.
Per questo viaggio, come per ogni rito, si devono conoscere i simboli, cioè segni, colori, forme che succhiamo dal primo istante in cui veniamo al mondo. I simboli sono come l’aria, e anche se non abbiamo idea di cosa significhino tengono in vita la nostra psiche. (A proposito, è bellissimo scoprire che “psiche” deriva dal greco e significa “farfalla”, la farfalla è il simbolo dell’anima e infatti Giacomo Leopardi ne volle scolpita una sulla sua lapide tombale.)
C’è un’anima/psiche collettiva che ci fa riconoscere i simboli da subito, soprattutto le forme fondamentali del cerchio, del triangolo e del quadrato. Vediamo le vitali figure geometriche nel cerchio dei capezzoli della madre, nel triangolo delle sue scarpe coi tacchi, nelle spalle quadrate del padre. Poi ne imitiamo le forme con i primi legnetti colorati e gli stampini per la sabbia. Eppure quel bambino non sa che il cerchio è il cielo con tutto ciò che è spirituale, con i suoi totem e i suoi tabù, il ciclo perenne senza inizio e senza fine. Quel bambino non sa che i tre angoli e lati di un triangolo rappresentano la ricerca della conciliazione, la conquista dell’unità a partire dalla molteplicità, dell’equilibrio perfetto sempre minacciato dalla disarmonia. Sempre quel bambino non sa che il quadrato è la terra con i suoi quattro punti cardinali, i quattro elementi primari e le quattro stagioni. Meglio dire che quel bambino non sembra sapere niente di simboli, mentre ne sa una più del diavolo. In famiglia impara ad amare, a scuola ad amare e lottare, nella vita ad amare, lottare, vincere e perdere. E, in tutto questo tempo, un mare sconfinato di simboli.
Il bambino cresciuto che prende la Vespa nel suo rito di iniziazione ha fame di cielo e di terra, e di armonia per metterli insieme. Ha bisogno di tutte le forme geometriche, e tra i tanti segnali esoterici che non sa nemmeno di vedere e che lo guidano ce ne sono alcuni visibilissimi. Dalla periferia fino ai viali cittadini e poi, su a salire verso il cerchio della luna, ne incontra centinaia. Sono i segnali stradali e non sono fatti a caso. Quelli rotondi sono di divieto, voluto dall’alto, quelli triangolari di pericolo e avvertimento alla cura delle relazioni e degli incontri, quelli quadrati di terra, come le strisce pedonali e le strade senza uscita della vita.
Ecco spiegato perché un neonato, un simbolista inconsapevole, può andare con una 50 Special per i colli bolognesi. E poi guardatela, una Vespa che vi viene incontro da lontano tra le dune verdi dei colli: sembra proprio una farfalla. Uno stadio nel ciclo vitale della metamorfosi.
È un bambino quello che sgasa, impenna e piega sui colli con la 50 Special. Per invecchiare c’è tempo. Per tornare di nuovo solo, nelle estati vuote di città in Vespa, triste e solitario come Nanni Moretti in Caro diario, fin troppo consapevole di simboli ormai svuotati del pensiero magico dell’infanzia.
Eppure, proprio ora, mentre sto scrivendo, in una stanza in cui nemmeno la polvere osa più poggiarsi sui mobili per non sembrare neve, nell’età che tutti chiamano adulta e della ragione, due oggetti apparentemente inanimati mi fanno avvertire la loro presenza. Sentire ancora come un re bambino nella sua reggia. Sono qui di fianco a me.
Il primo è un grande pianoforte a muro di marca tedesca, Blüthner, costruito nel 1935, il periodo d’oro dell’azienda che Julius Blüthner aveva fondato a Lipsia, in Sassonia, nel 1853. Mia madre Carla lo acquistò a metà degli anni Ottanta, alla morte del suo unico proprietario cieco, portandolo nel salotto di casa. «Ecco, va bene qui.» Per molti anni lo avrei spostato, e scambiato la sua posizione con gli altri mobili di casa, cercando di capire quale fosse il lato propizio per le mie canzoni, quale muro facesse risuonare meglio la sua cassa armonica. A guardarlo oggi sembra un pianoforte da signori, sebbene io signore non sia stato mai. Uno di quelli che fanno arredo nelle case dei dottori, ma dottore, ahimè, non sono di sicuro. Lo era mio padre e se mai avessi pensato di seguire le sue orme, come forse avrei dovuto, posso dire, a quarant’anni appena compiuti, che ho certamente fallito.
È un “bellissimo angelo nero”, come lo avevo chiamato nella mia prima poesia scritta su un foglio strappato ai quaderni di scuola, con i suoi meravigliosi tasti di avorio antico un po’ ingialliti dal tempo e il legno della cassa armonica di un colore scuro, lucido e molto spaventoso. Uno di quei pianoforti da Maestro, direbbero mentendo gli antiquari, ma anche se lo fosse davvero non sarebbe certo il mio, che Maestro non sono di nulla e di nessuno. So di me invece che sono un allievo, e di questo mi vanto. Allievo di tante scuole e tanti maestri, come quelli che si sono alternati di fianco a me bambino per insegnarmi a suonare, senza riuscirci mai del tutto. O allievo dei molti cantanti e cantautori che mi hanno insegnato a scrivere canzoni senza saperlo, semplicemente facendosi ascoltare. E anche loro, senza riuscirci mai fino in fondo.
Eppure quando lo tocco, il mio Blüthner (che è mio solo a metà perché appartiene anche a mio fratello Vittorio), il mio compagno di vita, solfeggio, respiro e pentagramma, quando lo sfioro, dicevo, anche solo per salutarlo al mattino, mi sento ispirato, come se mi venisse facile tornare con la memoria dentro a quella casa in cui sono cresciuto, in cui sono stato a lungo figlio di mio padre che se ne è andato da un anno e di mia madre, sognatori a occhi aperti e io scrittore a occhi chiusi. Sarà perché ci sono cresciuto assieme, perennemente seduto su quello sgabello che oggi mi appare fin troppo consumato e da aggiustare. Su quello sgabello ho imparato a stare con la schiena dritta, ho scoperto chi avrei voluto essere, ci ho sofferto, gioito e mi ci sono perduto, sfogato, scontrato fino al bel giorno in cui, a quindici anni, ho iniziato a comporre quel che sentivo.
Non ho più smesso. Ecco perché è qui con me, ora che non ho più padri e padroni, a poche lune dal giorno in cui mi sono separato da tutto ciò che mi legava al passato: uno studio di registrazione, un contratto discografico, un ufficio, un manager, una carriera. E sarà con me ovunque mi troverò. Per sempre.
Poco più in là, sotto una grande finestra, c’è una Vespa rossa che sembra nuova di zecca, appena lucidata. Vi assicuro che, almeno quanto il mio vecchio pianoforte, fa sentire la sua presenza. No, lei non dice una parola, ma il suo odore, quella scia intensa di benzina e petrolio che la accompagna, non se ne è mai andato via.
Basta entrare in questa stanza per rivedere il garage dove la parcheggiavo negli anni del liceo, quando correvo ogni mattina giù per quella rampa ripida rischiando di fracassarmi il collo e la prendevo fra le mani, davo venti calci ripetuti al pedale per svegliarla e poi, una volta accesa, quasi intossicandomi per il fumo che ribolliva e tossiva dalla marmitta, la facevo correre forte per portarmi a scuola, o per non andarci proprio.
E, se non ci andavo, la portavo io sui colli bolognesi, dove ora vivo, lungo le vie del cielo e delle trincee di guerra del Novecento, per fuggire da tutto e da tutti, anche da quel pianoforte che mi rubava il tempo dei giochi e delle ragazze. Ora fa tenerezza vederci qui, insieme, tutti e tre, uno vicino all’altro, nuovamente soli e abbandonati come allora. Io e lui, seriosi come Leopardi e lei, giovane e spensierata come una ragazzina, nonostante sia nata nel 1946. Il nero del dolore e il rosso della passione. Uno sgabello sgangherato e una marmitta truccata. L’avorio ingiallito e il fanalino rotondo. Se ci salgo sopra, a tutti e due, puoi scommetterci, nessuno si tira indietro. Sono i sogni di una farfalla. Ali della mia anima.

Vespe truccate, anni Sessanta, girano in centro sfiorando i novanta. Rosse di fuoco, comincia la danza.

I capelli ossigenati, i pantaloni larghi che strusciavano per terra pulendo i pavimenti dei locali annebbiati dal fumo di sigaretta. Il parka imbottito. Il calore di una sigaretta che si crede un focolare. Un vespaio di ragazzini che si credono una band e raggiungono le colline con i fari che tagliano la notte. I padri svegli ad aspettarli. La mattina presto con le nocche delle mani gelate. Il goniometro nell’astuccio di scuola, le cartelle Invicta sformate dal peso dei libri. I capelli induriti dal gel. Una chitarra annusata dalla vetrina di un negozio. La scuola di teatro. Il tramonto delle quattro e trenta. Le ripetizioni di latino. Nessuno ascolta più il jazz. La neve cade anche in pianura. Trenta centimetri a ottobre. La nebbia alta e densa fino ai tetti. Il fumo nascosto nelle tasche dei pantaloni. La polizia. Le pasticche. Le piramidi. Fryderyk Chopin. Erica, la mia amata Erica. Una sala prove. Le zone industriali con i nomi degli eroi della Resistenza. La Guinness delle sei. Gli orari stretti e il coprifuoco. Gli universitari in bicicletta. Jack frusciante è uscito dal gruppo. Il mio migliore amico morto per strada. Le denunce. L’interrogatorio. La sentenza. Un fratello più grande da amare, i nostri fantasmi. Arancia meccanica visto in ritardo. Trainspotting. Fight Club. Pulp Fiction. Arthur Schopenhauer. I Queen. Freddie Mercury. La curva del Dall’Ara che esulta. Le trasferte sui treni speciali. Il Bologna in serie A. Roberto Baggio. Basket City. Virtus vs Fortitudo. Vincenzo Esposito. Il tiro da quattro di Danilovič. Kitchen. Il muro di Berlino. L’Hiv. Il preservativo dimenticato. Le siringhe nei parchi. L’effetto serra. I diritti umani. La pulizia etnica. Gli stupri. Sarajevo. Gli U2. Kurt Kobain. George W. Bush. Saddam Hussein. La guerra del Golfo. I pompini nella stanza ovale. Bill Clinton. La macchina della verità. L’estate. La mafia. L’attentato a Falcone e Borsellino. Il presidente della Repubblica. I messaggi a reti unificate. Gorbaciov. La Russia. Il cessate il fuoco in Jugoslavia. Israele. La Palestina. Nelson Mandela. Le strette di mano. Tangentopoli. Mani pulite. Le Olimpiadi di Atlanta. Van Basten. La domenica sportiva. Wimbledon. Boris Becker. Andre Agassi. “Non è la Rai.” Paolo Villaggio. Sanremo. Jovanotti. Il rap. Lucio Dalla. Michael Jordan. Valentino Rossi. Luciano Pavarotti. Riccione. Il gettone telefonico. Alberto Tomba. Vasco Rossi. Miss Italia. Michael Jackson. Il primo cellulare Nokia. Adidas vs Nike. I Radiohead. Ok Computer. Il Gin Tonic. Supersonic. L’Inghilterra. I diari. Internet. Wonderwall. Gli Oasis, i Blur, i Verve. Milano. Dormire in stazione. Amsterdam. Londra. Windows e Microsoft. L’iMac. Gli anni Sessanta. The Beatles. John Lennon. A Day in the Life. A Night at the Opera. L’Unione Europea. Giovanni Paolo II. Maradona. Mtv. La coppa Uefa. L’entrata in vigore dell’Euro. Stop!
In tre minuti e trenta secondi mandare giù un grande boccone senza masticare, ordinare nella libreria della mia testa un intero decennio di informazioni, eventi, storie e leggende che ne avevano già riempito tutti gli scaffali e cercare lo spazio restante. Un riff di piano e di parole appiccicose come chewing gum che viaggiano dritte e veloci verso la serratura da cui poter guardare oltre la siepe, uscire dalle mura di un appartamento in cui non era prevista la stanza su misura per me.
Uno studio medico trasformato in camera da letto, con i libri di scuola appoggiati a quelli di Medicina. I poster dei cantanti appesi accanto alle lauree del padre. Alzarsi da tavola sempre per primo. Voltare le spalle alla televisione accesa della cucina, dove il pranzo e la cena somigliavano alla comunione di una messa silenziosa, che come colonna sonora aveva la sigla del Tg1 e la voce di un imprenditore prestato alla politica che comprava le anime negli spazi pubblicitari. Percorrere il corridoio che portava al pianoforte, pensarlo come una lunga fuga attraverso la navata centrale di una chiesa. Un’offerta di parole soltanto mie. La luce bianca di una porta da cui uscire. Portare la voce della mia generazione in tivù. Sentirmi il primo in assoluto a poterlo fare. Suonare anziché tutto.

Devo fare in fretta devo andare a una festa, fammi fare un giro prima sulla mia Vespa!

Ho sempre creduto che il segreto di 50 Special si nascondesse nelle prime quattro parole. Nell’assenza dell’articolo a introdurle. Una voce diretta, un’immagine immediata, senza orpelli o sostegno, già in volo fin dalla prima battuta, come se avessimo acceso la telecamera su una scena già in movimento. Come se fossimo entrati in un cinema a film già iniziato. Una porta che si apre sulla pista già piena di una festa. Anzi, lo credo ancora. Il segreto è la metrica delle parole. Proviene dal ritmo del rock’n’roll, che detta così sembra una roba di cui vergognarsi, un cliché da italoamericani con le narici sporche di fuliggine e una Camel arrotolata in bocca, ma se cerchi di tradurre lo spirito di Roll Over Beethoven di Chuck Berry o, che ne so, Blue Suede Shoes di Elvis e Great Balls of Fire di Jerry Lee Lewis e Back in the U.S.S.R dei Beatles, cioè alcune delle canzoni rotolanti che mi hanno più ispirato in gioventù, ti accorgi del ritmo di quelle parole che, certamente facilitate dalla lingua inglese, scorrono e si muovono nell’aria leggere, come se riuscissero a rimbalzare sulla ritmica del brano. E allora non importa più il tuo giorno di nascita. Chi ha parlato prima ora tace. È la forza innovatrice delle parole. Sono le gambe saltellanti di Muhammad Ali. Per questo motivo la gente ai concerti non la canta, la grida, la urla con le braccia alzate. Scuote il corpo e srotola le parole. La lingua deve solo godere.
E io, finché mi reggeranno le gambe, intendo salire sul ring e cantarla insieme al pubblico, perché 50 Special è una canzone che appartiene a tutti. Uscita in un periodo che per milioni di persone porta con sé un bel ricordo. L’ultimo tormentone del Novecento, e il primo del nuovo millennio.
Dai colli bolognesi, dove non c’è legge, e non ci sono problemi, fino all’infinito. Se Giacomo Leopardi avesse avuto una Vespa, il viaggio non sarebbe stato meno bello.
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Qualcosa di grande

1999
Nella tragedia greca il destino non ti guarda in faccia mai. Succede in tutte le tragedie che si rispettino, dal Vangelo fino a Shakespeare. Giuda ha venduto Gesù condannandolo a morte certa, eppure qualcuno doveva pur farlo. Era scritto. Quante storie come questa potrebbero aiutarci a uscire d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Let them talk
  4. Anche Tu, come Me
  5. 1. 50 Special. 1999
  6. 2. Qualcosa di grande. 1999
  7. 3. Vieni a vedere perché. 2002
  8. 4. PadreMadre. 2002
  9. 5. Marmellata #25. 2005
  10. 6. Maggese. 2005
  11. 7. Momento silenzioso. 2005
  12. 8. Sardegna. 2005
  13. 9. Dev’essere così. 2006
  14. 10. Le sei e ventisei. 2008
  15. 11. Figlio di un re. 2008
  16. 12. Mondo. 2010
  17. 13. Il comico. 2011
  18. 14. La nuova stella di Broadway. 2012
  19. 15. Logico. 2014
  20. 16. Medley: Buon viaggio/Lost in the weekend/GreyGoose. 2014-2015
  21. 17. Poetica. 2017
  22. 18. Nessuno vuole essere Robin. 2017
  23. 19. Giovane stupida. 2019
  24. 20. Al telefono. 2019
  25. 21. Ciao. 2019
  26. Postfazione. di Michele Monina
  27. Opere citate
  28. Ringraziamenti
  29. Crediti
  30. Copyright