Il re guardò sbalordito il caos sul letto di sua figlia. Un sacchetto di miglio, una spada di legno, lo spillone di giada bianca che le aveva regalato anni prima…
“Cosa stai facendo, Uccellino?”
“Sto fuggendo.”
“Senza di me?”
Lei iniziò a metter via le cose. “Non verresti nemmeno se te lo chiedessi.” La guardò sforzarsi di far entrare la spada nel fagotto. “Diresti che il tuo posto è a palazzo. Ma io qui non ho nulla.”
“Hai Lilian e Caiyan.”
“Sanjing è cattivo quando gioco con loro. Preferirei non avere nessun amico.”
Il re le tolse la spada di mano. “Ecco, lascia fare a me.” Gliela mise a tracolla sulla schiena. “Che ne dici di questo? Giochiamo a pietra, seta e falcetto. Se vinco io, tu rimani.”
Lei si accigliò mentre rifletteva. “Anche tu. Devi promettere che resterai per sempre, se vinco io.”
Lui acconsentì alle sue condizioni. Così giocarono. Era un gioco di riflessi, che lui aveva potuto perfezionare nel corso di molti, moltissimi anni. Quando vide la manina di sua figlia cominciare a formare la pietra, fece il falcetto, perché desiderava che lei vincesse. Voleva impegnarsi con quella promessa, anche se non avrebbe potuto mantenerla.
Hesina non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva dormito.
Sulle prime, era perché vedeva il cavaliere ustionato ovunque guardasse. La sua faccia era il grumo di foglie di tè sul fondo della tazza. La sua voce era il lamento e il cigolio della carrozza della regina madre che l’alba successiva all’incoronazione della figlia usciva dalla Porta d’Oriente, nuovamente diretta ai monti Ouyang.
Poi perché non riusciva a dormire. Una regina semplicemente non aveva abbastanza ore in un giorno. Se non stava scrivendo lettere a Kendi’a, pretendendo una spiegazione e chiedendo dei negoziati, era impegnata a leggere libri sugli indovini, cercando di capire che minaccia avrebbero potuto rappresentare in una guerra puramente ipotetica.
Era una ricerca ingrata. I libri si contraddicevano tra loro oppure affermavano cose che lei sapeva già: gli indovini erano malvagi, non tutti avevano la magia, e non potevano mentire sulle proprie visioni senza pagare un prezzo con la durata della loro vita. Un tomo, che Hesina ignorò perché aveva più immagini che parole, affermava che gli indovini aggiungessero un anno al loro naturale ciclo di vita per ogni visione vera che condividevano. Alcuni avevano vissuto per secoli grazie alla loro sincerità.
Forse era quello il motivo per cui così tanti libri sugli indovini erano stati bruciati, pensò Hesina ironicamente. Che oltraggio sarebbe stato se i bambini avessero trovato a scuola una scorciatoia per l’immortalità! Ma se essere ben istruiti era in effetti l’unica via per la divinità, Hesina doveva essere già a metà strada. Come se non bastassero tutte le altre scartoffie, il suo paggio le aveva recapitato il rapporto sui funzionari di corte che avevano collegamenti con Kendi’a e centinaia dei loro resoconti in archivio come esempi di scrittura. Le pile erano enormi, torreggianti come guglie sulla sua scrivania. Mentre Hesina le passava in rassegna, sempre più persone si radunarono sui terrazzamenti fuori dal palazzo. Tutti stavano aspettando che si aprisse il processo. C’era un assassino a piede libero nel regno e volevano che quella persona fosse trovata.
Anche Hesina. Ma aveva pure visto una luce omicida negli occhi del suo stesso popolo, così non riusciva a fare a meno di dispiegare, ripiegare e spiegare di nuovo il rapporto del Comitato investigativo, riempiendolo di grinze come la sua fronte. La giustizia era un muscolo, aveva detto Xia Zhong, ma era abbastanza forte da sopportare la rabbia della gente? E il Comitato lo era?
Certe notti, Hesina portava le sue domande nella sala del trono. Percorreva il passaggio smaltato con intarsi di pitone, saliva sul podio laccato di nero simile a un altare e sedeva, con un dossale con dodici pannelli di zitan e saponaria alle sue spalle, uno spazio di raduno vuoto con finti cancelli e pilastri color vermiglione che si stendevano davanti a lei. Incredibilmente piccola sotto l’altissimo soffitto a cassoni commissionato dagli antichi imperatori, Hesina chiedeva consiglio senza aspettarsi alcuna risposta. I vassalli avevano bisogno di dormire, e nessuna delle loro voci si avvicinava a quella di suo padre.
Ma la sua urgenza di risposte concrete cresceva all’approssimarsi del processo, e la notte prima che iniziasse, Hesina cambiò il solito percorso, dirigendosi invece al Comitato investigativo. Era decisa a vederlo con i propri occhi.
Due file di guardie imperiali – sembravano indossare un’armatura più pesante rispetto alle loro controparti nelle segrete – si inchinarono quando Hesina avanzò verso le porte di pietra al termine del corridoio. Chiuse con lucchetto e catena, ciascun battente recava un intaglio a specchio della mitica faccia di un taotie. Amuleti di bronzo e talismani di carta pendevano dalle corna sporgenti del taotie, con lo scopo di tenere a bada gli indovini.
Avevano mai funzionato? Hesina allungò una mano per prendere un talismano e le guardie si tesero. Si rilassarono quando la ritirò, poi si agitarono di nuovo quando la posò sul muso di pietra del taotie.
La pietra era fredda. Desiderò possedere il potere di vedervi attraverso, all’interno della stanza in cui veniva esaminato ogni caso nella città imperiale.
«Non fa bene dimenticare, mia regina.»
Un brivido le salì su per la schiena, e quando si voltò vide Xia Zhong giungere lungo il corridoio, la luce dei candelabri che gli ingialliva la pelle e trasformava le sue vesti da nere in un color marrone limo.
«Ricordi?» La affiancò, sfregando le dita sulle sue perle. «Un tempo i nobili entravano e uscivano dal Comitato a piacimento. Ingaggiavano indovini per analizzare prove e sospetti in anticipo e abili oratori per manipolare le une e gli altri per ottenere l’esito desiderato in tribunale.»
«Ricordo.» Era il motivo per cui il Comitato aveva il livello di sicurezza attuale e per cui nessun altro tranne i membri del Comitato stesso era al corrente delle prove o dei sospetti prima di un processo. Gli accusanti, gli imputati e i loro rappresentanti avrebbero appreso tutte le informazioni rilevanti in tribunale.
«Allora perché sei qui?» chiese Xia Zhong. «Dubiti del sistema?»
«No!» rispose Hesina d’impulso. «No» ripeté con più calma. «Volevo solo… vedere come funzionava. Per capire.» Lanciò un’occhiata al ministro, sperando che lui potesse fornirle indirizzo o conforto, essere suo alleato come aveva fatto nelle camere di sua madre. «C’è così tanto che non capisco.»
«C’è solo una cosa che ti occorre capire.» Xia Zhong infilò una mano nelle pieghe incrociate del suo hanfu e tirò fuori una manciata di foglie di tè secche. Se le ficcò in bocca e iniziò a masticare; un odore amaro ed erboso si diffuse nell’aria. «Nulla è ideale. C’è il meglio e il peggio. C’è il più e il meno. Era meglio prima, quando la gente credeva che il re fosse morto per cause naturali? È peggio adesso, quando hai il processo e il rappresentante che hai chiesto? Sarai tu a giudicare, mia regina.»
«Tu cosa pensi?» Hesina non sapeva cosa fosse meglio e cosa fosse peggio. La chiarezza dei suoi obiettivi si annebbiava quanto più si avvicinava a essi.
«Un ministro non osa prendere decisioni per chi governa.»
«Ma un ministro dovrebbe guidare e rimproverare.»
Xia Zhong voltò le spalle alla porta. «Se me lo chiedi, l’unica cosa che hai in meno rispetto a prima è la fiducia.»
* * *
«Quando è troppo è troppo» dichiarò Lilian, sbattendo un vassoio di uova d’anatra salate e castagne d’acqua brasate sulla scrivania di Hesina il mattino seguente. «Ti occorre cibo, riposo e un cambio di vestiti. Inculca un po’ di buonsenso nella nostra regina» ordinò a Caiyan mentre lui entrava.
«La vita di una regina è piena di impegni per definizione…»
Lilian gli prese l’orecchio tra le dita. «Buonsenso, ho detto!»
«… il che significa che non puoi gestire tutto da sola.» Con un sussulto, Caiyan liberò l’orecchio con uno strattone prima di rivolgere lo sguardo alle cataste di campioni di scrittura davanti al naso di Hesina. «Il processo deve andare avanti, mia signora. Il decreto è stato condiviso, il proverbiale dado tratto. Il popolo attende. E anche il tuo rappresentante.»
«Non è scappato?» Hesina era delusa. Lei sarebbe fuggita, se ne avesse avuto l’opportunità. Lontano da quel palazzo, dove la fiducia era qualcosa che poteva possedere un giorno e perdere quello seguente.
«No, mia signora.» Caiyan le offrì la mano. Lei la prese dopo un attimo e lui la aiutò ad alzarsi dalla sedia. «È vestito e pronto.»
«Come dovresti essere tu.» Lilian tirò fuori un involto di seta. Hesina sciolse i legacci.
Venne fuori un ruqun grigio tortora. Un ricamo cremisi risaliva tutta la lunghezza di ciascuna manica rigonfia per terminare in un pennacchio di code di fenice sulle spalle. La seta era lussuosamente pesante, ma anche fredda nella mano di Hesina. Quelle pieghe le scivolavano tra le dita come anguille che cercavano di sfuggirle.
Lei lo strinse con forza.
Caiyan e Lilian avevano ragione. Non poteva temporeggiare in eterno. Avrebbe avuto fiducia, anche se avesse dovuto prenderla in prestito da loro due.
* * *
Come la sala del trono, il tribunale era una reliquia dell’era antica, il suo strano schema importato da qualche lontana terra occidentale oltre il mar Jieting. Gli architetti imperiali la definivano una doppia cupola, ma Hesina e suo padre sapevano che non era la definizione giusta. Tra un caso e un altro, a volte intercettavano il rispettivo sguardo e sorridevano, poiché in realtà il tribunale era un uovo. Aveva un’estremità appuntita in cima e un’altra arrotondata sul fondo. Quando i ministri battevano i loro bastoni e discutevano del destino del regno, tutt...