
- 224 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Storia facile dell'economia italiana dal Medioevo a oggi
Informazioni su questo libro
Con grande spirito indagatore Carlo M. Cipolla ripercorre le tappe più significative della storia economica italiana: dal Duecento, quando il panorama è dominato da città intraprendenti come Milano, Verona, Venezia, Genova, Pisa, Firenze e Siena, all'apogeo delle istituzioni commerciali e finanziarie del Quattrocento. Si passa quindi al declino del Cinque e Seicento, quando l'Italia viene ridotta a «periferia» dell'Europa, e alle difficoltà del Sette e Ottocento, che portano all'unificazione politica ma non economica. Per chiudere con il Novecento, segnato dal contrasto stridente, ancor oggi irrisolto, tra Nord e Sud e dall'esplodere del debito pubblico. Come abbatterlo è ancora oggi tema di cronaca quotidiana.
Domande frequenti
Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
- Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
- Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Storia facile dell'economia italiana dal Medioevo a oggi di Carlo M. Cipolla in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Economia e Storia economica. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.
Informazioni
V
1500-1680: l’instabilità e il lungo gelo dell’economia italiana

Le guerre «horrende»
Al tramonto del Quattrocento i fragili equilibri fra gli Stati della penisola, sui quali si erano fondate la pace e la prosperità degli Stati regionali italiani per mezzo secolo, risultavano seriamente compromessi. Da una parte le non sopite tensioni interne stavano ritornando alla luce (e delle stesse tentavano di approfittare avventurieri come Cesare Borgia), dall’altra i fattori che momentaneamente avevano ridotto gli interventi esterni stavano venendo meno e le tradizionali pressioni sul territorio italiano – che in passato si erano concretate nella conquista da parte degli Aragona della Sardegna (1326) e della Sicilia (1406); nell’influenza francese sul marchesato di Saluzzo e su quello del Monferrato, nonché sullo stesso ducato di Savoia; nell’occupazione da parte degli svizzeri del Gottardo e della Leventina (1479) e degli Asburgo della contea del Tirolo (1349), di Trieste (1382), dell’Alto Adige (1350-1450), di Fiume (1466) e del Trentino (1487) e di recente nel minaccioso affacciarsi dei turchi sulle coste italiane (nel 1480 Maometto II era addirittura riuscito a far sbarcare sue truppe a Otranto) – tornavano a farsi sentire.
Se l’orizzonte politico risultava oscuro, nubi non meno minacciose si andavano addensando sull’orizzonte economico. In questo finire di secolo, se pur Venezia continuava a giocare un ruolo egemone fra mondo cristiano e mondo musulmano dominando il commercio del pepe e delle spezie, le brillanti imprese di Bartolomeo Diaz e di Vasco da Gama, aprendo alle navi portoghesi l’oceano Indiano, parvero mettere seriamente in discussione il monopolio della Serenissima (in effetti, mentre nel 1500 i veneziani riportavano da Alessandria e da Beirut annualmente 5.661.600 libbre l’anno di pepe e spezie, nel periodo 1502-06 non ne caricarono in media che 1.285.300 libbre l’anno e nel 1504, addirittura, le galere da mercato tornarono in patria dall’Egitto con le stive vuote).
La calata in Italia del re di Francia e la sua rapida avanzata verso Napoli mise in luce impietosamente le contraddizioni degli Stati della penisola: la loro opulenza economica e la loro debolezza politica, derivante dai contrasti e dalle rivalità fra la varie casate dominanti. Facendo sì che, in poco tempo, «tre potentissimi stati che erano in Italia» fossero più volte «saccheggiati e guasti».
«Soliti governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se qualcuno avesse loro dimostrato alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oracoli» non «si accorgevano i meschini che si preparavano a essere preda di qualunque li assaltava.» Lo sdegno di Machiavelli nei confronti dei principi italiani non era fuori luogo: la rapida e vittoriosa marcia di Carlo VIII verso Napoli non era tanto attribuibile alle innovazioni nel campo delle armi da fuoco (leggeri ed efficienti cannoni montati su affusti avevano sostituito le primitive, pesanti e imprecise bombarde), che stavano mutando l’arte della guerra, quanto all’alleanza con Ludovico il Moro; alla pavida acquiescenza di Piero de’ Medici, che si affrettò a cedere le sue fortezze all’invasore, suscitando lo sdegno dei fiorentini che l’avrebbero cacciato dalla città proclamando la repubblica; all’accordo col pontefice; alla rivolta antiaragonese degli Abruzzi. Tutto era frutto di miopia politica piuttosto che di inferiorità militare.
Come è noto le conquiste di Carlo VIII si rivelarono molto effimere a causa della lega che contro di lui strinsero i principi italiani – e di lì a poco il sovrano francese avrebbe dovuto risalire velocemente la penisola e aprirsi a Fornovo con le armi la via della Francia –, ma la strada della conquista era aperta, e qualche anno dopo sarebbe stata ripercorsa da Luigi XII.
Le vicende sono note: l’accordo fra il re di Francia e Ferdinando il Cattolico, col beneplacito dei veneziani, doveva riportare la spartizione del Milanese e del Napoletano fra i vincitori. Nella realtà esso innescò il lungo periodo delle «guerre horrende in Italia», che si sarebbe aperto con lo scontro vittorioso degli archibugieri e dei picchieri del re di Spagna contro la fanteria pesante del sovrano francese; avrebbe visto, pochi anni dopo, l’esercito veneziano soccombere ad Agnadello (14 maggio 1518) contro le forze della Lega santa (gli eserciti coalizzati da papa Giulio II, dell’imperatore Massimiliano e dei re di Francia e di Spagna) e le sorti della Serenissima affidate all’eroismo e alla fedeltà dei contadini della terraferma e, infine, sarebbe stato testimonio dell’epica lotta fra Francesco I e il giovane Carlo V, da poco assurto al trono imperiale. Un lungo scontro che, con alterne vicende, si sarebbe protratto sino al fatidico trattato di Cateau-Cambrésis (1559), che segnò la definitiva rinunzia dei francesi al sogno italiano e l’inizio dell’egemonia asburgica in Italia.
Nell’arco di questi fatidici cinquant’anni l’orizzonte politico era andato profondamente mutando; protagonisti sulla scena della storia erano sempre meno gli Stati-città e Stati-regione italiani, con le loro élite mercantili e bancarie e le loro corti rinascimentali, bensì entità statuali di dimensioni molto più ampie, capaci di controllare vasti imperi coloniali e di organizzare, attraverso sistemi amministrativi basati su corpi di funzionari, uomini viventi su vasti territori e di gestire razionalmente le abbondanti risorse che attraverso il prelievo fiscale riuscivano a ottenere: si apriva l’epoca delle grandi manovre assolute.
Si trattava di entità statuali di dimensioni ottimali per quei tempi: esse avrebbero saputo tener testa al colosso turco, far cadere le illusioni imperiali di Carlo V, espandersi rapidamente nei continenti di recente scoperti.
Le lunghe guerre d’Italia avevano causato orribili ferite nel tessuto demografico, economico e sociale della penisola. Le cronache denunziano intere regioni messe a ferro e a fuoco, campagne devastate, città saccheggiate (la stessa Roma sarebbe caduta nelle mani dei mercenari dell’imperatore), donne «sforzate», uomini uccisi o condotti in prigionia, ingenti patrimoni prosciugati dagli eventi bellici. Eppure, nonostante lo spreco di capitali e di giovani vite, per chi guarda a quei drammatici avvenimenti a distanza di cinque secoli, l’impressione è che, se per la parte meridionale della penisola si apriva la lunga stagione del ristagno e del sottosviluppo, al Nord le conseguenze economiche delle guerre d’Italia furono di natura più congiunturale che strutturale: la rapida ripresa degli investimenti nelle campagne, la rinascita dell’artigianato e della manifattura in città illuminate dallo splendore delle corti tardorinascimentali, l’incremento delle esportazioni di prodotti di lusso da Firenze, da Milano e da quella miriade di ricche città immerse nel verde mare d’erba della Padania, il rinnovato splendore della finanza genovese sottolineano come, in realtà, le conoscenze acquisite, i patrimoni accumulati, le capacità organizzative ereditate dal passato fossero ancora presenti, dopo un mezzo secolo di guerre crudeli.
La stessa Venezia, nonostante il peso delle guerre d’Italia e i crescenti sacrifici imposti alla sua economia dall’impari scontro col «gigante turco», aveva saputo mantenere il suo ruolo di centro mondiale del commercio mediterraneo – e lo avrebbe conservato per tutto il Cinquecento – smentendo quanti avevano pronosticato che i successi dei navigatori portoghesi avrebbero ben presto decretato la sua fine.
Poi, come ricorda Carlo M. Cipolla, il sole dell’«estate di san Martino dell’economia italiana» venne, per il breve tratto di cinquant’anni, a illuminare queste vivaci economie urbane prima che esse cadessero nel lungo letargo sei-settecentesco.
L’estate di san Martino
Con la fine delle guerre d’Italia e il ristabilimento della pace, l’economia delle regioni centrosettentrionali entrò in una fase di vigorosa espansione. Fra il 1540 e il 1580 agricoltura, industria e commerci toccarono l’apice della loro fioritura; poi apparvero qua e là i primi sintomi di involuzione che sfociarono nella crisi del 1619 che diede il colpo di grazia alla produzione manifatturiera. Dopo alcuni decenni durante i quali si coltivò l’illusione che l’economia italiana fosse tornata all’antico splendore, tutti dovettero arrendersi alla dura realtà. L’espansione della seconda metà del Cinquecento non era stata altro che un’effimera estate di san Martino.
Tra il 1550 e il 1600 la popolazione italiana aumentò del 15% riversandosi di preferenza nelle città sia per le maggiori opportunità di lavoro offerte dall’economia urbana, sia per la presenza di istituzioni caritative che, in tempi di carestia, costituivano un’àncora di salvezza per i più poveri. Una crescita demografica di questa portata implicava un’adeguata disponibilità di derrate alimentari che fu assicurata conquistando nuove terre all’agricoltura, aumentando gli investimenti e introducendo nuovi sistemi di coltivazione volti ad accrescere la produttività. I successi dell’agricoltura riuscirono a sfamare nuove bocche senza dover ricorrere a massicce importazioni. Tuttavia non potevano essere paragonati a quelli, ben più consistenti, del settore manifatturiero che aveva la sua punta di diamante nelle industrie tessili.
La lavorazione della lana era in ripresa ovunque. A Como, a Milano, a Cremona la produzione di panni aumentò per tutto il Cinquecento; a Mantova si sviluppò ininterrottamente sino al 1570; a Bergamo il numero delle pezze uscite dalle botteghe dei tessitori passò da 7-8000 unità nel 1540 a 26.500 nel 1596; a Venezia, nella seconda metà del secolo, la produzione triplicò; a Firenze toccò la punta massima di 33.000 pezze.
Negli stessi anni si registrò una ripresa ancora più consistente della seta. A Milano e a Como la produzione si sviluppò ininterrottamente dal 1550 al 1620; a Venezia la crescita dei decenni precedenti si consolidò durante il Cinquecento; a Mantova, a Verona e a Firenze riuscì a compensare il rallentamento dell’industria laniera; a Genova toccò la massima fioritura fra il 1550 e il 1575.
La crescita urbana, l’immigrazione dalle campagne, l’affollamento di nobili e borghesi nei centri più ricchi trasformarono il volto delle città: le chiese, le strade, i palazzi, le piazze, le mura, gli edifici pubblici costruiti nella seconda metà del Cinquecento danno ancor oggi la misura della febbre edilizia che richiamò nella città schiere di artigiani specializzati. La metallurgia occupava tradizionalmente un posto di rilievo nelle regioni dotate di ferro come la Val Camonica, il Lecchese, il Bresciano, la Val Trompia dove ogni anno si fabbricavano migliaia di balestre e di fucili. Ma per tutto il Cinquecento Milano riuscì a conservare il monopolio nella produzione delle splendide armature che venivano esportate in tutta Europa. Non mancavano infine produzioni come il sapone a Venezia, la carta a Genova, a Verona e a Voltri, l’editoria ancora a Venezia, a testimonianza di una notevole vivacità dell’economia.
Con la crescita produttiva si intensificarono gli scambi all’interno della penisola e ripresero quota i commerci marittimi. Fra il 1570 e il 1580 la bilancia commerciale con la Francia, la Spagna e i Paesi Bassi presentava ancora un cospicuo attivo. Poi l’orizzonte cominciò a oscurarsi. Le navi inglesi e olandesi che presero a frequentare sempre più numerose il Mediterraneo costituivano la testimonianza più evidente che il quadrilatero industriale formato da Milano, Genova, Firenze e Venezia stava perdendo la sua supremazia. Metodi produttivi antiquati, una maggior pressione fiscale e un costo del lavoro più elevato penalizzavano le manifatture italiane rispetto a quelle dei paesi industrialmente più giovani che non erano soffocati da una minuziosa regolamentazione corporativa. La prima a farne le spese fu la lana. Subito dopo fu la volta della seta, che oppose una maggiore resistenza crollando ovunque solo in seguito alla violenta crisi del 1619.
L’estate di san Martino era finita. Ma a ben vedere l’economia italiana aveva perso l’autobus ottant’anni prima quando, al termine delle guerre franco-spagnole, pensò di poter ricostruire le proprie fortune ricalcando il modello medievale che non aveva più alcun avvenire.
Il predominio genovese nella finanza
La fama di abili finanzieri che ha circondato i genovesi dagli inizi dell’età moderna in poi ha le sue radici nel ruolo di banchieri internazionali che essi svolsero fra il 1550 e il 1620: un periodo che non si è esitato a definire «il secolo dei genovesi», inserendolo fra il lungo primato di Anversa e il predominio di Amsterdam.
In realtà, per il periodo precedente non mancano notizie frammentarie di prestiti che i capitalisti genovesi, isolati o associati ad altri banchieri, accordarono a principi stranieri: al duca di Milano Francesco I Sforza negli anni 1452-54, al duca Sigismondo del Tirolo nel 1487 (in partecipazione con Fugger), a papa Innocenzo VIII nel 1490 (ricevendone in pegno la tiara papale), al re di Francia Carlo VIII nel 1494 (finanziandone in parte la calata in Italia), a Carlo di Spagna nel 1519 (in associazione con i Welser, i Fugger e altri) per consentirgli l’elezione a imperatore eccetera. Altre notizie colgono i genovesi impegnati con i loro capitali in grandi affari internazionali come lo sfruttamento dell’allume di Tolfa, in cui subentrarono ai Medici per qualche anno e di cui riebbero la concessione dal 1532 al 1576; e furono ancora genovesi coloro che, a partire dal 1521, acquistarono i feudi napoletani che Carlo V, esaurita ogni altra risorsa, dovette porre in vendita.
Tuttavia l’importanza maggiore di queste operazioni sembra consistere, più che nella loro mole, in altre circostanze: da un lato nelle opportunità di guadagno e nell’occasione di affinamento delle tecniche finanziarie che rappresentarono per i capitalisti genovesi; dall’altro nella notorietà e nel prestigio che conferirono loro, aprendo la strada a crescenti richieste di credito e preparando il terreno per il successivo ruolo di incontrastati redistributori di denaro in tutta l’Europa centromeridionale. L’origine dei capitali impiegati in tale attività bancaria fu indubbiamente composita. In parte essi provennero da un fenomeno di redistribuzione dei redditi, basato sul prelievo delle imposte indirette, sull’impiego del gettito tributario per pagare gli interessi dovuti ai creditori pubblici e sul processo di accumulazione della ricchezza nelle loro mani. In parte furono i frutti di un’attività marittima che, pur con cadute ricorrenti, conobbe ancora sprazzi di prosperità come a fine Quattrocento o fra il 1530 e il 1560.
I capitali non difettavano e non mancava neppure la conoscenza degli strumenti tecnici per utilizzarli in attività finanziarie. Il principale strumento fu costituito dal contratto di cambio, che i genovesi usavano sin dal secolo XII per commerciare nelle fiere merci della Champagne, e dalla sua emanazione, la cambiale tratta, che da elemento accessorio di un atto notarile di cambio andò acquistando nel tempo la dignità di titolo di credito, accettabile o no dal trassato, protestabile dal beneficiario insoddisfatto e avente efficacia di titolo esecutivo. Grazie a questo strumento, il commerciante X che doveva trasferire del denaro dal luogo A al luogo B risolveva facilmente il problema accordandosi davanti a un notaio con il concittadino Y che aveva un’esigenza opposta: X versava il denaro a Y e quest’ultimo gli rilasciava una cambiale contenente l’ordine al suo debitore Z, che abitava in B, di pagare una somma equivalente a X alla presentazione del documento.
Creati per sistemare le pendenze mercantili degli importatori e degli esportatori, ben presto i contratti di cambio traettizio divennero uno strumento per concedere prestiti a interesse aggirando il divieto canonico dell’usura: nelle grandi fiere della Champagne cominciarono così a effettuarsi anche transazioni finanziarie, che si intensificarono man mano nelle fiere successive di Ginevra, Anversa e Lione trasformandole in mercati misti di merci e di cambi.
L’altro caposaldo del sistema creditizio impiantato dai genovesi fu costituito dalle fiere di cambio, di cui essi ebbero l’idea frequentando le fiere miste di tipo tradizionale e che rappresentano una naturale evoluzione di queste ultime. Dopo la loro esclusione dalle fiere di Lione nel 1532, infatti, gli uomini d’affari genovesi cominciarono a incontrarsi in apposite riunioni, dedicate esclusivamente alle operazioni cambiarie e per le quali nel 1535, accogliendo l’invito di Carlo V, scelsero come sede la città di Besançon. Da qui, dopo diverse peregrinazioni, le fiere si trasferirono principalmente a Piacenza, Novi e Sestri Levante, in una significativa marcia di avvicinamento alla città di Genova, dove si tenevano le fila degli affari.
Le regole della cambiale
Le fiere di cambio duravano otto giorni, si tenevano quattro volte l’anno a intervalli regolari e si svolgevano secondo le norme emanate dal senato genovese; l’osservanza del regolamento era affidata a un apposito tribunale, formato da un console e due consiglieri (di cui uno milanese), che giudicava anche in prima istanza. I protagonisti principali delle operazioni erano banchieri, mercanti o procuratori, che dalle piazze di residenza si trasferivano nelle fiere per sistemare gli affari cambiari della propria azienda o di aziende altrui. Le fiere avevano un sistema monetario particolare, con un’unità di conto ancorata stabilmente all’oro, e funzionavano come centrali di raccolta, smistamento e compensazione di cambi da e per tutta l’Europa. Gli affari trattati assumevano forme svariate, ma nella sostanza erano riconducibili a due grandi categorie: i cambi liberi, che servivano soprattutto per sistemare le pendenze me...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Avvertenza
- Introduzione. Lezioni per il presente
- STORIA FACILE DELL’ECONOMIA ITALIANA DAL MEDIOEVO A OGGI
- I. La rinascita dell’economia nel Medioevo
- II. Venti di crisi
- III. Dai mercanti-banchieri la rivoluzione commerciale
- IV. L’Italia della rinascita
- V. 1500-1680: l’instabilità e il lungo gelo dell’economia italiana
- VI. Italiani in cerca di lumi
- VII. Economia e Restaurazione
- VIII. L’Italia affronta l’unità
- IX. Debito pubblico e capitale straniero
- X. L’Italia fa i conti con l’industria, l’agricoltura e la finanza
- XI. Gli anni neri del nuovo Regno
- XII. L’altalena del ciclo economico
- XIII. L’Italia inquieta: diciannovismo e dittatura
- XIV. Dal boom economico agli anni Novanta
- Copyright