Il disfacimento di qualunque monastero o convento non è impresa da prendersi alla leggera. Persino la forza del casato dei Tacsis, la cui stirpe discende da imperatori, potrebbe rivelarsi insufficiente.
Lano Tacsis si presentò alla Rocca della Fede in assetto di guerra, l’armatura in acciaio dell’Arca insanguinata dalla luce di mille stelle vermiglie. Dinanzi a lui, i ranghi serrati della sua guardia personale, il nucleo ferreo dell’esercito Tacsis, forgiato da suo padre. Soldati temprati dalle battaglie ai confini orientali dell’impero e a occidente, sulle spiagge del Marn.
Ma Lano non si affidava unicamente alle lance dei suoi armigeri. Con lui marciavano Noi-Guin giunti dai dedali oscuri del Tetragode.
Quando viene affidato ai Noi-Guin, un bambino è sacrificato alla tenebra. Alcuni, pochi, possono sopravvivere all’addestramento, ma l’adulto che scenderà dalle mura della fortezza in uno sprazzo di notte senza luna, dieci o più anni dopo, sarà una persona diversa. Una persona svincolata da qualsiasi legame con genitori o fratelli, un ramo reciso dall’albero dell’Antenato. Sarà un Noi-Guin: uno strumento di morte, privo di scrupoli morali, immune alla religione, dedito anima e corpo al compito assegnato. I più ricchi tra i Sis possono assoldarli per ottenerne i servigi, ma poche missioni richiedono l’impegno di più di un figlio del Tetragode. Nessuno, per quanto vecchio, ricorda di averne visti in azione più di tre insieme. Persino i racconti più antichi non parlano di più di cinque. Ma erano in otto ad accompagnare Lano Tacsis, il giorno in cui salì al convento che sorgeva sulla Rocca della Fede.
«Nona Grey? Sei sicura?» Lano alzò la celata per scrutare la figura scura che si ergeva sola lungo il cammino della sua armata, minuscola dinanzi alla schiera di immensi pilastri. «Suora Cage… tornata alla Dolce Misericordia.» Il pugno battuto sul palmo, un cozzare di guanti metallici. «Oh, così è perfetto! Temevo se ne fosse andata, malgrado le mie istruzioni.» Uno sguardo alla sua sinistra. «È davvero lei, sei sicura?»
Clera Ghomal alzò gli occhi scuri su di lui. «Certo. Chi altri mi avrebbe mai lasciata andare?»
Suora Cage attendeva, priva d’ombra tra le ombre dei pilastri. Le vecchie suore e le giovani novizie osservavano da dentro la foresta di pilastri, alle sue spalle. All’arrivo del Tacsis, quando il sangue avrebbe iniziato a scorrere, Suora Rose sarebbe stata ancora impegnata nella sua battaglia, da qualche parte là in mezzo, lottando per salvare Suora Thorn dalle ferite subite. Clera aveva lasciato Thorn sanguinante. Avrebbe potuto ucciderla in un attimo. Ma non l’aveva fatto. E non era cosa da poco.
La spada brandita da Cage offriva al mondo il suo filo tagliente, fendendo il vento del Corridoio con un sibilo doloroso. La sorella di Cage aveva atteso la sua battaglia, assorta nella ricerca della centratura, del silenzio e dell’immobilità, mentre i Pelarthi avanzavano. Poche Sorelle Rosse erano mai uscite dal convento della Dolce Misericordia meglio preparate di Suora Thorn a mettere in pratica quanto avevano appreso dalle maestre di Lame e di Sentiero.
Suora Cage si muoveva a un ritmo diverso.
Le persone più devote disdegnano la rabbia, poiché cos’è la fede, essenzialmente, se non la capacità di accettare le cose che non puoi cambiare? Il saggio reputa la collera insensata, perché è raro trovare in essa la verità. Chi ci governa soffoca e reprime la rabbia, perché sa bene di che fuoco arde, e chi mai inviterebbe quelle fiamme fameliche tra quanto possiede?
Ma per Suora Cage la furia era un’arma. Perciò si aprì alla rabbia che aveva tenuto a bada finora. La sua amica era a terra, moribonda. La sua amica. C’è una purezza nell’ira. Essa può cauterizzare il dolore. Per qualche tempo. Può consumare nella sua fiamma la paura. Perfino la crudeltà e l’odio la fuggiranno; la rabbia non vuole né l’una e né l’altro, ma brama soltanto distruzione. La rabbia è il dono che ci offre la nostra natura, plasmato nel corso di anni incalcolabili. Perché sprecarlo?
Ogni legge religiosa o secolare mira a separarti dalla tua rabbia. Ogni norma esiste per domarti; per toglierti di mano ciò che dovresti far tuo. Ogni vincolo e controllo serve a privarti della vendetta che ti spetta per consegnarla a tribunali e giurie, alla giustizia e ai magistrati. I codici pretendono di sostituire ciò che sai essere giusto con righe e righe d’inchiostro. Prigioni e carnefici sono lì solo per non farti sporcare le mani con il sangue di coloro che ti hanno fatto torto. Ogni ingranaggio esiste soltanto per mettere tempo e distanza fra il fatto e le sue conseguenze. Per elevarci dalla nostra natura animale, per ingabbiare e domare la bestia.
Suora Cage scrutava il suo nemico, lucente d’acciaio sulla Rocca.
Sua è la rabbia di un’onda oceanica che va gonfiandosi sopra le acque profonde per abbattere la sua furia bianca sulla costa. Un’onda, poi l’altra, con moto instancabile, fino a sgretolare le scogliere più alte, a ridurre i sassi in granelli di sabbia, un moto capace di spianare montagne. Sua è la furia della tempesta, squassata dal tuono, tagliente come il fulmine, sospinta da un vento che strappa gli alberi più vecchi dalla solidità del terreno. Sua la sfida della pietra, levata con sdegno contro i cieli freddi. Sua l’ira che cova nel petto come vetro infranto, l’ira che non ti concede il sonno, che non ammette la ritirata, che non accetta compromessi.
Nona Grey alza la testa e contempla il suo nemico con occhi neri come la notte. Forse è solo un riflesso della luce delle torce, ma in quelle profondità scure sembra che arda una fiamma.
«Io sono la gabbia di me stessa.» Solleva la spada. «E ho aperto la porta.»
Ci sono tanti veleni capaci di indurre alla follia, ma forse nessuno così efficace come l’amore. Suora Apple portava con sé centinaia di antidoti, ma aveva bevuto quel filtro fatale di sua spontanea volontà, sapendo che non c’erano cure.
Spine e rovi la graffiavano, il vento dei ghiacci ululava, perfino la terra si opponeva a lei, con la sua ripidezza, le miglia interminabili, dura sotto i piedi come ferro. L’Avvelenatrice tirava avanti, stremata, sentendosi addosso tutto il peso dei suoi trent’anni, con la mantella strappata in più punti, i brandelli danzanti al capriccio del vento.
Quando la pista dei cervi uscì dal folto del bosco per incrociare una carrettiera ampia e segnata da solchi di ruote, Apple la seguì senza esitare, lo sguardo sulle schiere di alberi che riprendevano la loro marcia sul lato opposto.
«Ferma!» Un grido aspro, da poco distante.
Apple lo ignorò. Kettle le aveva lanciato un appello. Lei conosceva la direzione, la distanza, e la sofferenza. Kettle l’aveva chiamata. Kettle non l’avrebbe mai distolta dalla sua vigilanza, nemmeno se fosse stata in pericolo di vita. Eppure, l’aveva chiamata.
«Ferma!» Altre voci brusche, dall’accento gutturale, difficile a comprendersi.
Il margine della foresta si trovava a dieci metri da lei, di là da un fosso. Una volta raggiunte le ombre sotto il fitto degli alberi, sarebbe stata al sicuro. Una freccia sibilò a una spanna da lei. Apple perlustrò la via con lo sguardo.
Cinque durnesi ne occupavano tutta l’ampiezza, le armature imbottite coperte di macchie di sale e di fango, le piastre di ferro cucite su spalle e avambracci brunite dalla ruggine. Apple poteva arrivare agli alberi prima che i predoni la raggiungessero… ma non prima della prossima freccia o lancia scagliata contro di lei.
Imprecando, affondò le mani nelle tasche della mantella. Le uscirono di bocca oscenità che probabilmente nessuna suora aveva mai pronunciato prima di lei. Perfino i durnesi parvero allibiti.
«Non uccidetemi. Per voi valgo di più da viva.» Apple cercò di non avere il tono di chi impartisce una lezione in classe. Cavò le mani dalle tasche: in una teneva una capsula di cera con il filtro delle ossa molli, nell’altra un involto di senape grigia e, tra pollice e indice, una pillola bianca. Si mise in bocca la pillola, sperando che fosse amarvoglio. Aveva tutti gli antidoti sistemati in ordine nelle molte tasche interne della tonaca, ma infilare la mano là sotto per cercarne uno sarebbe equivalso a un invito a colpirla. Perciò si affidò alla memoria, al tatto e alla fortuna, e pescò dalla tasca esterna della mantella.
«Tu… sei suora?» Il più alto dei cinque fece un passo avanti, la lancia spianata. Era più vecchio degli altri quattro. Segnato dagli anni.
«Sì. Una Sorella Divina.» Mandò giù la pillola con una smorfia. Il sapore era quello dell’amarvoglio. I quattro predoni più giovani, tutti con gli stessi capelli ispidi e scuri, rinsaldarono la presa sulle armi, mormorando preghiere agli dèi pagani. Forse solo una monaca su cento non era una Sorella Divina, ma con le storie che si narravano a Durn non si poteva dar loro torto se pensavano che ogni donna che indossava la tonaca fosse una Sorella Rossa, o peggio una Strega Religiosa pronta a incenerirli con una scarica fulminante. «Una suora. Del convento.»
«Convento.» Il capobanda si rigirò in bocca la parola. «Convento.» La sputò dalle labbra screpolate per il gelo.
Apple annuì. Represse l’impulso di aggiungere: “Con la grande statua d’oro”. Gli uomini dovevano cadere da soli nella trappola. Se si fossero accorti che era lei a condurceli, l’avrebbero uccisa nel volgere di un istante.
Il capobanda si volse indietro ai suoi uomini, blaterando parole quasi incomprensibili. Il durnese era come la lingua dell’impero passata al tritacarne e condita di spezie. Apple aveva l’impressione che se avessero parlato un po’ più adagio e rimesso a posto gli accenti, sarebbe riuscita a comprendere ogni cosa. Ma almeno riuscì a cogliere le due parole che forse le avrebbero salvato la vita. “Convento” e “oro”. Ruppe nel pugno la capsula con il filtro delle ossa molli e strofinò le dita sul palmo per spargerne il contenuto sciropposo, prima di passare la mano sul dorso dell’altra e sul polso.
«Tu. Porta noi a convento.» L’uomo avanzò di altri due passi e le fece segno con la lancia di muoversi.
«Oh, no!» Apple cercò di avere un tono spaventato, piuttosto che impaziente. Pensò a Kettle, in pericolo, forse anche ferita, e la paura le vibrò nella voce. «Non posso. È proibito.» Doveva indurli ad avvicinarsi. Non avrebbe potuto far molto, se l’avessero costretta ad avanzare dinanzi a loro, spronandola con la punta delle lance. Lasciò vagare lo sguardo sui volti degli uomini, con un’espressione di timida sfida. Un’insolenza che forse avrebbero trovato gusto a domare.
A un cenno del comandante, due dei suoi uomini si fecero avanti e afferrarono Apple per le braccia. Un terzo si tenne pronto con l’arco, la corda tesa a metà, la freccia puntata su di lei, sfidandola a tentare la fuga. L’ultimo si appoggiò alla sua lancia, un ghigno ebete sulle labbra.
Apple simulò il panico, alzando le mani per intercettare quelle che l’avevano abbrancata, ma senza offrire una resistenza tale da indurli a colpirla. Uno dei due non parve avere bisogno di scuse e le rifilò comunque un ceffone, la manaccia dura e callosa in pieno volto. Apple sputò sangue e gemette, implorando pietà. Ormai entrambi gli uomini si erano imbrattati le mani con lo sciroppo trasparente delle ossa molli, appiccicoso sulle dita.
Quello che le aveva dato lo schiaffo le torse il braccio dietro la schiena, mentre l’altro faceva per slacciarle la mantella, forse dimenticando che le spose dell’Antenato fanno voto di povertà. Sapendo che in luogo di oro o d’argento avrebbe scoperto il suo assortimento di cure e veleni, Apple si mise a piagnucolare in maniera penosa, e sollevò il pugno chiuso per ricordare loro che nascondeva qualcos’altro in un posto ben più vistoso.
Lo schiaffeggiatore grugnì qualche sillaba incomprensibile al rapinatore, e quello abbandonò gli alamari della mantella per cercare di aprire a forza la mano di Apple. Afferrandola, si prese sul palmo della mano la seconda dose di filtro delle ossa molli. Con l’amarvoglio che agiva da antidoto, Apple sentiva solo un leggero intorpidimento sulle parti coperte dallo sciroppo, mentre il vigore delle braccia restava intatto.
Apple si mise a gridare, tenendo il pugno serrato per resistere agli sforzi sempre più deboli del rapinatore. Lo schiaffeggiatore cercò di ridurla alla sottomissione torcendole il braccio, e il dolore fu atroce, ma lei riuscì a opporre quel minimo di resistenza necessaria a non farsi spezzare l’arto. Per tutto il tempo, Apple continuò a dimenarsi, gettandosi a sinistra e a destra, per avanzare infallibilmente verso il capobanda e l’arciere, ma senza mai indirizzare lo sguardo verso di loro. Gli scarponi chiodati dei durnesi scivolarono sul fango. Gli altri scagnozzi si sganasciarono dalle risate assistendo agli sforzi dei compagni, ma non mossero un dito per aiutarli. Il capobanda sbuffò, sprezzante, e segnalò all’arciere di farsi avanti. Dopodiché, piantò nel fango l’asta della lancia e lo seguì, per intercettare il gruppetto che si avvicinava sbandando di qua e di là.
Né lo schiaffeggiatore né il rapinatore sembravano essersi ancora accorti di essere stati avvelenati. Probabilmente, dovevano solo credere che Apple fosse una donna dotata di una forza fuori del comune, o magari che stesse attingendo quell’energia disperata dalle profondità del suo terrore. Quando il capobanda li raggiunse, Apple si portò la mano davanti al viso con uno strattone. Soffiò sul pugno chiuso, uno sbuffo breve ma energico, e un nugolo di polvere si sprigionò dall’involto l...