“Li odio, ’sti punkabbestia.”
L’ispettore della polizia di Stato Marco Pieve, fuori servizio e in abiti civili, era fermo da almeno tre minuti davanti allo scaffale dei biscotti perché tra lui e i Bucaneve che doveva assolutamente comprare per sua moglie c’era il suo carrello e, davanti al carrello, ferma, una ragazza bassa e tozza, anch’essa carrellomunita, capelli rasta, orecchini sparsi, il mascara raggrumato sulle ciglia e lo sguardo fisso a scegliere qualcosa per placare una palese fame chimica.
Toccava a lui, quel giorno, fare la spesa, a dire il vero toccava a lui quasi tutti i giorni, dato che la moglie era sempre impegnatissima e la figlia ventenne, come tutti i figli ventenni, era praticamente muta e invisibile.
Nel carrello della ragazza che gli stava ostruendo il passaggio, sdraiato su due birre e del tonno in scatola dormiva un piccolo bastardino russante di età indefinita, con una perdita di muco dalla narice destra abbastanza schifosa da vedere.
La sua padrona sembrava una statua di marmo con gli occhi rossi.
«Scusi, permesso?» le disse l’ispettore. Emanava un odore pungente di ganja mista a cane randagio in una giornata di pioggia, e non si muoveva.
«Scusi?» L’ispettore tentò di allungarsi alle spalle della ragazza, non poteva aspettare che quel comodino giamaicano si riavesse o prendesse finalmente una decisione. Tese un braccio verso i Bucaneve e lei, assorta in chissà quale sogno psichedelico, continuò a non muoversi di un millimetro fino a che Pieve inavvertitamente non le sfiorò un braccio.
«Che cazzo fai scusa?» disse risvegliandosi insieme al cane, che abbaiò isterico.
«Oh, mi scusi, le chiedo perdono» farfugliò l’ispettore Pieve, «prendo solo i Bucaneve e la lascio continuare.»
«Ma che, sei scemo?» rintuzzò la ragazza mentre il bastardino ringhiava sommessamente. «Per prendere i biscotti mi devi toccare il culo?!»
La parola “culo” echeggiò nel supermercato.
«Ma no, guardi, le chiedo scusa…» Nel frattempo qualcuno, attirato dall’eco del “culo”, cominciava a notare la scena. «Se l’ho sfiorata, e credo di averle sfiorato solo il braccio, non l’ho fatto di proposito, è che non si muoveva da qualche minuto… le chiedo di nuovo scusa.»
«Ma guarda ’sto schifoso maniaco, vergognati vecchio bavoso!»
L’ispettore trasalì: a quarantanove anni compiuti andava bene “schifoso”, andava bene “maniaco”, ma “vecchio” lo offese più di ogni altra cosa.
«Senta, guardi, non si agiti, l’ho sfiorata senza volere, non si preoccupi e stia tranquilla signorina, sono un ispettore di polizia…»
La ragazza sembrava aver aspettato quel momento per tutta la vita.
«So che cosa fate voi sbirri!»
Ora aveva decisamente urlato.
«Signorina la prego di stare calma» balbettò Pieve, «le chiedo scusa davvero, non era proprio mia intenzione…»
La ragazza non lo lasciò neppure finire: «Sbirro bastardo pensi di poter fare quello che vuoi perché hai una divisa addosso?».
Pieve era ammutolito. Non era in divisa, indossava jeans e scarpe da ginnastica.
«E adesso che farai?» continuò la ragazza urlando. «Mi porti dentro e mi strappi gli orecchini, sporco fascista?»
Tutto il supermercato era fermo immobile, nessuno parlava, sembrava che persino i motori dei frigoriferi si fossero spenti.
Pieve respirò molto profondamente guardandosi intorno, appoggiò delicatamente ma volontariamente, questa volta, la mano sul braccio della ragazza, le avvicinò la bocca all’orecchio e, poi, quasi bisbigliando, parlò: «Adesso stammi bene a sentire punkabbestia del cazzo, ti racconto una storia. A casa ad aspettarmi ci sono mia moglie e mia figlia, sai? Oddio, mia moglie non lo so perché magari è in giro a farsi gli affari suoi, tanto al supermercato ci vado io, è naturale. Mia figlia, invece, ha più o meno la tua età e per uno strano caso ti somiglia da impazzire: sono anni che torna a casa quando vuole, mi risponde quando vuole, studia quando vuole e mi manda a cagare quando vuole. E io zitto, perché è mia figlia e la amo più di me stesso. Perché quando ami qualcuno, lo capirai anche tu quando non andrai più in giro vestita come un’imbecille, quando ami qualcuno gli permetti di metterti i piedi in testa. Ma con te è diverso. Perché tu non sei nessuno. Tu i piedi in testa non me li metti e anzi, potresti avere la sfortuna di dover pagare per tutte le sofferenze e le frustrazioni che ho vissuto negli ultimi quindici anni della mia vita, tutti gli insulti, tutte le umiliazioni di un padre che vede la cosa più bella che ha al mondo trasformarsi in una biondina puzzolente che fa i giochi con le tre palle ai semafori rossi, insieme a un fidanzato polacco che cammina sulla fune. Hai capito? Cammina sulla fune, quel fallito polacco del fidanzato di mia figlia! Quindi ora tu ti levi dal cazzo e stai zitta, prima che io venga colto da un raptus e mi mangi il tuo cuore insieme a quello di quell’ammasso di merda che respira dentro il tuo carrello. Spero che tu abbia compreso».
La ragazza era impallidita, una minuscola lacrima le scendeva su una guancia.
L’ispettore Pieve prese i Bucaneve, li posò nel carrello e si diresse verso la cassa.
Un piccolo sorriso gli attraversò il volto.
«Scusa, tu, vieni qui un secondo.»
Fuori dall’istituto Fermi i ragazzi sciamavano verso casa dopo una giornata di scuola immersi in un freddo polare, i cappelli di lana e le sciarpe buttati addosso.
Il ragazzino guardò chi lo aveva chiamato: li separavano pochi metri, una quindicina d’anni e, soprattutto, una divisa da poliziotto.
«Cosa hai buttato dalle tasche?»
«Niente.»
«Te lo chiedo una seconda volta, cosa hai buttato dalle tasche?»
«Glielo giuro, agente, niente.»
«Allora, adesso ti spiego come è andata: tu sei uscito dalla scuola con il fumo in tasca, poi hai visto la nostra volante, me e il mio collega in divisa qui fuori e soprattutto hai visto Kuno, il nostro labrador. E lì hai tratto la prima conclusione, hai fatto poliziotto più cane uguale cane antidroga: sbagliato! Perché Kuno è il fratello di Rose, che in effetti è un cane antidroga e ha un naso che le tue due canne le avrebbe fiutate da un chilometro, mentre Kuno no, Kuno è antibomba. Rose oggi è a fare un altro servizio e ci hanno detto di portarci dietro lui. Giuro. Ce l’hanno fatto portare qui proprio confidando che avremmo trovato uno scemo come te che, spaventato da un quattro zampe qualunque, si facesse beccare a lanciare per aria il fumo che aveva in tasca. Io pensavo fosse impossibile che esistesse qualcuno così fesso, ma se in caserma tutti pensano che io sia un po’ fesso ci sarà una ragione. E infatti evidentemente mi sbagliavo. Perché, credo che ormai persino tu l’abbia capito, questa povera bestia ti avrebbe puntato solo se tu avessi avuto del tritolo in tasca. E ora dimmi, caro, come ti chiami?»
«Mmm-Matteo.»
Nel freddo polare ormai erano tutti spariti, la piazzetta era completamente deserta. Una nuvola di vapore uscì dalla bocca dell’agente.
«Ecco, Mmm-Matteo, hai mica del tritolo in tasca?»
«Nnn-no.»
«Lo so, se no Kuno ti avrebbe già segnalato, invece avevi solo due cannette che hai lanciato in quel prato lì. Che fai, le recuperi adesso o ripassi stasera?»
Enrico Rossetti, l’agente Enrico Rossetti, guardò il ragazzo ancora una volta. Aveva davanti il classico scemo, come lo era stato lui ai tempi del liceo, e non se la sentiva di rovinargli né la giornata né tantomeno la vita. E poi non ne aveva voglia.
«Sentimi bene, Matteo, hai due possibilità: io non ti posso lasciare andare come se niente fosse quindi o vado a cercare il fumo, mi sbatto un po’ e lo trovo, ti porto in centrale, lo pesiamo, lo analizziamo, scriviamo una bella denuncia e poi ti toccano lo psichiatra e i servizi sociali, oppure vai tu a recuperarlo, me lo dai, io lo butto via e ti do una bella schicchera nell’orecchio. Poi te ne vai a casa.»
Il ragazzino era tramortito, infreddolito e tremava tra il riso e il pianto: «Una… schicchera?».
«Sì caro, è una bicellata, fa un po’ male, anzi, fa molto male ma passa subito, e soprattutto ogni volta che verrai a scuola e ti verrà in mente di portarti dietro il fumo ricorderai il dolore della bicellata e non lo farai più.»
Lo studente rimase attonito, non capiva se l’agente scherzasse o facesse sul serio.
«Vedi» continuò Rossetti di fronte all’espressione vuota del ragazzo, «se io adesso ti faccio fare tutta la trafila finisce che tu te la prenderai con me, che rappresento lo Stato, ma non con te stesso, che invece sei solo scemo, passerai due mesi a parlare con un medico senza sapere cosa dirgli e tra un anno sarai di nuovo qui e avrai dimenticato questa storia. E sicuramente non smetterai di fumarti le canne coi tuoi amici.»
«Solo una bicellata. Me lo giura?»
«Te lo giuro.»
Il ragazzino non disse più nulla: lentamente tornò verso il praticello accanto all’ingresso della scuola, si chinò e recuperò tra l’erba un pezzetto di fumo grande come una nocciola. Si avvicinò alla volante e consegnò il bottino all’agente. Poi si levò il berretto di lana, le orecchie erano rosate e intirizzite.
Enrico si tolse il guanto destro, guardando il ragazzino dritto negli occhi abbozzò un sorriso, avvicinò pollice e indice all’orecchio e, caricando molto intensamente il colpo, fece partire una potente schicchera sull’orecchio ghiacciato.
Ci fu un urletto di dolore, l’orecchio che da rosa pallido diventava a gran velocità di un bel rosso rubizzo. Il ragazzino si rimise in fretta il cappello di lana, forse per alleviare il dolore.
Enrico a sua volta si infilò il guanto: «Bene, la ringrazio, qui abbiamo finito, è stato un piacere avere a che fare con lei, signor Mmm-Matteo». Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Va’ a casa!».
Il ragazzo scomparve in un decimo di secondo.
Rossetti sorridendo si girò verso il suo capopattuglia, che non era mai sceso dalla macchina a causa del freddo e lo guardava come si guarda un caso irrecuperabile.
«Capo, un caffè?»
«Rossetti, ma sei cretino? Ma lo sai che se qualcuno ha filmato col telefonino ci fanno il culo a strisce? Ma ti sei rincoglionito? Ora dimmi, cosa scrivo nel rapporto?»
«Capo, scriva che Kuno non ha trovato il tritolo e che la scuola è salva.»
«Rossetti io a te in macchina non ti ci voglio più.»
«Non si preoccupi, capo, mi sa che dando la bicellata mi son fatto male al dito. Forse domani marco visita.»