Nel contesto di una società abbiente l’economia deve operare per realizzare i requisiti di libertà di scelta del consumatore, giustizia economica e creazione di valore economico, appoggiandosi a un processo continuo di feedback. A questo fine, essa usa come «lubrificante» la moneta in quanto segno di valore e mezzo di tesaurizzazione. I risultati si misureranno in termini di PIL e altri indicatori del welfare (eudaimonía) dei cittadini.
La libertà di scelta
Come si è visto, la moneta svolge un ruolo essenziale nell’agevolare le transazioni economiche tra i membri di una società, consentendo loro l’esercizio della libertà di scegliere come utilizzare il denaro di cui dispongono. In quanto scelta incapsulata standardizzata e generalmente riconosciuta, la moneta è la «materia prima» su cui si fonda la gestione di una società abbiente. È un segno che trae il suo valore dalle scelte incapsulate delle preferenze del consumatore, che non possono essere stabilite da un’agenda sociale predeterminata e passibile di confondere i bisogni con i desideri, come hanno scoperto a proprie spese i regimi di Stato comunisti, quando hanno dovuto prendere atto che i bisogni della popolazione non coincidevano con ciò che la stessa popolazione voleva. Al popolo si diceva che il paese aveva bisogno di cuscinetti a sfera, non di prodotti di consumo. Ecco un esempio che illustra con chiarezza questa situazione. A Auckland, in Nuova Zelanda, negli anni Sessanta del secolo scorso un rappresentante di una nota azienda di prodotti da toilette per uomo, quando gli affari cominciarono ad andare male, si sentì dire che non gli restava che augurarsi che attraccasse in porto una nave russa. Lui sapeva che, se ciò fosse accaduto, l’indomani sarebbe rimasto senza lozioni dopobarba, introvabili in Russia, dove il regime diceva alla gente che, per quanto le potesse desiderare, non aveva alcun bisogno di lozioni dopobarba, in un sistema economico nel quale i cuscinetti a sfera erano di gran lunga più importanti dei prodotti di consumo occidentali.
Se mettiamo temporaneamente da parte la funzione della moneta come mezzo di scambio, unità di conto, titolo di pagamenti differiti e mezzo di tesaurizzazione, la sua funzione in qualità di strumento «portatore di scelta» resta fondamentale sul piano etico, perché il concetto stesso di scelta solleva interrogativi: le nostre scelte sono giuste o sbagliate? E come gestire e controllare l’offerta di moneta necessaria per soddisfarle? Se la moneta è un mezzo di tesaurizzazione, come ne determiniamo il valore di scambio per acquistare altri mezzi di tesaurizzazione, come obbligazioni e azioni, beni immobili, merci, opere d’arte, oro e valute da riserva? Ci vuole anche un mercato nel quale questi scambi, necessari per soddisfare le preferenze del consumatore, si possano realizzare. Pertanto la gestione dei mercati diventa una delle priorità di una società abbiente, in funzione della creazione e allocazione di risorse da destinare ai diversi mezzi di tesaurizzazione che rispondano a tale criterio.
Riflettendo su etica della moneta e preferenze del consumatore, non dobbiamo mai dimenticare che ognuno di noi è esposto ad attitudini radicate ma contraddittorie nei confronti della moneta, che derivano dalla nostra natura di agenti autonomi e tuttavia bisognosi della cooperazione di altri individui, ma non sempre disposti a cooperare alle loro condizioni. La moneta arriva a dominare i nostri pensieri, sia sul piano individuale, in quanto percettori di reddito e consumatori, sia come collettività, quando le imprese devono decidere come prezzare i prodotti o servizi che offrono. Naturalmente pensiamo alla moneta dal nostro punto di vista; ma proprio pensando alla moneta in questi termini di parte, possiamo perdere di vista il contesto nel quale la moneta opera, quell’intreccio complesso di bisogni e desideri che dà valore alla moneta in base alle preferenze del cliente. La società abbiente, in fondo, è uno strumento per realizzare le diverse preferenze del consumatore, che a loro volta determinano il nostro modo di esercitare la libertà di scelta. La libertà di scelta è un principio fondamentale del capitalismo economico liberale, ma deve essere sostenuta da una teoria dei principi morali – o sentimenti morali, per usare l’espressione di Adam Smith – che fornisca le linee guida dell’attività economica conciliando i dettami del self-interest con i bisogni sociali della collettività. Non possiamo sostenere che «la società non esiste», come, stando a quanto si riferisce, avrebbe detto Margaret Thatcher, perché gli interessi personali si devono adattare al contesto sociale in cui sono inseriti. La società abbiente si trova quotidianamente a far fronte al compito di gestire questo potenziale conflitto d’interessi tra l’individuo e lo Stato, che nasce dal fatto che le scelte del singolo cittadino possono confliggere con quelle dello Stato e comporta che una società abbiente debba trovare il giusto equilibrio tra i bisogni e i desideri dei settori privato e pubblico dell’economia.
Libertà, giustizia e valore economico
La libertà di scelta, se collegata a sistemi politici liberali che consentono a ogni individuo di godere di un ampio margine di libertà personale, può risolversi nell’assumere come ideale dominante la libertà, piuttosto che la giustizia. Il capitalista che opera nel mercato libero tende spesso a non interrogarsi più di tanto sulla moralità, convinto che sarà il rispetto della sacralità dei contratti e delle norme di legge a farsi carico della giustizia nelle faccende economiche. La veridicità di questa ipotesi classica dipende dal conseguimento o meno dell’equilibrio economico che deriva dalla concorrenza perfetta (mercati non intralciati da interventi dello Stato o da pratiche monopolistiche di fissazione dei prezzi) in condizioni di informazione perfetta, dove il cliente possiede tutte le conoscenze necessarie per assumere una decisione informata sull’opportunità di comprare o non comprare.
Il problema è che equilibrio perfetto e informazione perfetta sono condizioni che mutano costantemente a causa della natura volatile delle preferenze del consumatore, con la quale la società abbiente deve fare i conti nel fissare i prezzi dei beni che i consumatori vogliono. I prezzi, al pari della moneta, sono insieme sfuggenti e vischiosi, e impongono alla società abbiente capacità camaleontiche (massima flessibilità) nel coadiuvare il buon funzionamento di un mercato libero. La sfida è come bilanciare libertà e giustizia economica in un contesto di mercato libero. In sistemi economici che hanno tentato di imporre i prezzi e regolamentare lo scambio di beni tra cliente e fornitore, il risultato è stato quello di una grave distorsione e falsificazione del valore della moneta. Quando il regime comunista nell’ex Unione Sovietica era al suo apice, il valore di un paio di scarpe era pari a un mese di salario, e a Cuba, in un certo periodo, il tasso di cambio ufficiale è stato di un peso cubano contro un dollaro statunitense, quando il valore ufficioso (o valore di mercato) del peso era di 20 a 1. Una società abbiente deve saper coesistere con un mondo caratterizzato dalla variabilità dei cambi valutari e nel quale il valore della moneta è correlato ai livelli relativi di competitività del mercato e del debito nazionale. Il pericolo insito nel giocare politicamente con il valore della moneta è illustrato con grande ironia in un’osservazione di Harold Wilson dopo la svalutazione della sterlina nel 1964: «La sterlina che vi ritrovate in tasca ha lo stesso valore (potere d’acquisto) di prima», quando era palesemente evidente che il valore della sterlina nei confronti del dollaro statunitense era inferiore a quello che aveva prima della svalutazione. Bisogna essere chiari sulla possibile perdita di valore di una moneta attraverso una svalutazione della valuta.
Ciò solleva la questione della quantità di moneta da immettere sul mercato o, viceversa, da tenere a freno – questione che ci porta in un mondo dove coesistono teorie economiche differenti, con i sostenitori della teoria keynesiana della «domanda aggregata» da un lato e, dall’altro, il «monetarismo» friedmaniano. I monetaristi sostengono che la quantità di moneta disponibile in un sistema economico è il fattore chiave per eliminare gli effetti negativi della recessione, di un’inflazione eccessiva e della stagflazione (inflazione bassa e accompagnata da crescita zero); tutti elementi che incidono sul valore della moneta. Ciò è in contrasto con la teoria della domanda aggregata dei seguaci di Keynes, che enfatizzano la creazione di domanda, anziché limitarla contenendo l’offerta di moneta. La società abbiente si deve confrontare con il bisogno di trovare il giusto equilibrio tra queste due diverse teorie economiche relative alla domanda e all’offerta di moneta. Il bilanciamento di domanda e offerta è un processo dinamico e dai risultati incerti; ma la moneta, in qualità di segno, resta d’importanza cruciale per capire se stiamo creando o distruggendo il valore della nostra valuta.
Torneremo sul tema della creazione di valore nel capitolo VIII, quando esamineremo anche il ruolo dell’impresa come entità che crea valore economico e provvede alla sua tutela, con la moneta come misura del valore, ancorché non la sola. Nell’introdurre il concetto di valore economico, la società abbiente deve dotarsi di una teoria quantitativa della moneta coerente, che abbia come obiettivo la stabilità dei prezzi e una crescita non inflazionistica. Ma da qualche tempo circola una teoria secondo la quale una leggera inflazione può contribuire alla crescita economica, se si vuole evitare il pericolo della stagflazione. Nei riguardi dell’inflazione abbiamo spesso atteggiamenti irrazionali, con i proprietari di beni immobili felici degli incrementi di valore delle loro proprietà, ben al di sopra degli obiettivi nazionali d’inflazione fissati dalle autorità finanziarie. I valori monetari, che riflettono anche gli ondeggiamenti dell’inflazione, vanno rapportati al valore economico delle attività sottostanti, i cui valori di mercato possono differire dal valore economico. La questione del valore economico e della sua misurazione viene trattata nel capitolo VIII, come metrica di base per misurare la realtà di aspettative finanziarie che possono anche non riflettere il valore economico effettivo delle attività sulle quali tali aspettative si basano. Il nesso tra libertà e distribuzione del valore economico e giustizia economica è stretto, e richiede, per qualsiasi teoria razionale dell’economia, una coerente definizione del binomio libertà-giustizia.
L’offerta di moneta e il suo controllo
Lo spettro dell’inflazione e del suo controllo richiama l’attenzione degli economisti sulla quantità di moneta in circolazione e sulla questione di come fissare obiettivi all’offerta di moneta e gestirne la crescita. «L’inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario»: questa affermazione di Milton Friedman divenne il dogma fondamentale della teoria monetarista, secondo il cui fondatore spetta alla banca centrale fissare obiettivi di offerta per mantenere o ricondurre offerta e domanda in linea con l’equilibrio definito dagli aumenti di produttività. La produttività diventa pertanto una misura chiave per decidere se si possano produrre e vendere beni a prezzi stabili: condizione preliminare per ridurre il rischio di inflazione o deflazione derivante da una stimolazione eccessiva o insufficiente della domanda. I monetaristi sottolineano come sia compito delle autorità monetarie concentrare i loro sforzi sul mantenimento della stabilità dei prezzi attraverso un controllo rigoroso dell’offerta di moneta, lasciando che sia il mercato a deciderne l’utilizzo e la distribuzione. Keynes, dal canto suo, invocava un modello trainato dalla domanda, che in condizioni di flessione del mercato o recessione avrebbe creato valore, invece di provocare una deflazione. Secondo i monetaristi, a causare inflazione è un’eccessiva offerta di moneta generata dalla banca centrale; mentre, viceversa, la banca centrale creerà condizioni di deflazione se non sostiene l’offerta di moneta quando la liquidità scarseggia. La teoria monetarista secondo cui la «moneta importa», sottolineando in tal modo l’importanza di raggiungere il giusto equilibrio tra offerta e domanda nel contesto di ogni fase, di espansione o contrazione, del ciclo economico, in qualunque momento e in qualunque luogo, contrasta dunque con il punto di vista attribuito a Keynes che «la moneta non importa». Friedman riaffermò la teoria quantitativa della moneta, argomentando che la domanda di moneta dovrebbe dipendere da variabili economiche quali l’inflazione e la produttività, e non da un suo stimolo «sociale» in tempi di recessione o inefficienza del mercato. Secondo i monetaristi, la funzione di creare ricchezza e rimborsare il debito che deriva da investimenti in capacità industriale e servizi pubblici andrebbe lasciata al mercato e non attribuita a forme di regolamentazione statale di offerta e domanda.
In realtà, il dibattito fra i monetaristi e i teorici del binomio domanda-offerta di scuola keynesiana è più una questione di enfasi che un vero e proprio disaccordo di fondo sul piano dottrinale, perché entrambe le scuole di pensiero poi convergono sull’importanza primaria della gestione della liquidità quando si tratta di stimolare e tenere sotto controllo l’andamento dell’economia. L’affermarsi del monetarismo fu anche il risultato del tentativo di spiegare i problemi contraddittori dell’aumento di disoccupazione e inflazione conseguente al crollo del sistema di Bretton Woods nel 1972 e alle impennate inflattive raggiunte dal prezzo del petrolio nel 1973. Come si sarebbe potuto risolvere il conflitto tra reflazione per ridurre la disoccupazione e deflazione per contrastare l’inflazione dei prezzi? I monetaristi ritengono che la Grande Depressione degli anni Trenta sia stata causata da una massiccia contrazione dell’offerta di moneta (tra il 1929 e il 1933 la Fed diresse un’operazione di riduzione della quantità di moneta pari a un terzo del suo ammontare), più che dall’assenza di investimenti come aveva sostenuto Keynes – benché vi sia ovviamente una relazione reciproca diretta tra offerta di moneta e capacità d’investire. Tra i monetaristi vi fu chi propose di tornare alla visione prekeynesiana in base alla quale i mercati sarebbero intrinsecamente stabili, suggerendo di conseguenza che una gestione attiva dal lato della domanda di economie basate sul libero mercato, attraverso un aumento della spesa statale, non sia soltanto non necessaria, ma anche passibile di essere, nella pratica, dannosa.
Quando Margaret Thatcher vinse le elezioni generali nel Regno Unito nel 1979 in condizioni di mercato caratterizzate da un’elevata inflazione, per abbatterla ricorse al monetarismo, e in effetti, nel 1983, era scesa sotto il 5 per cento rispetto al 10 di quando la premier era salita al potere. Ma i costi sociali di quella politica furono recessione e disoccupazione, quest’ultima più che raddoppiata, passando da 1 milione e mezzo a oltre 3 milioni di unità. Si ridusse la spesa statale, nella convinzione che una stretta in questo settore fosse lo strumento più efficace per contenere una crescita monetaria eccessiva e far scendere l’inflazione. Tale misura era in netto contrasto con l’aumento della spesa del governo federale negli Stati Uniti, che, nei primi anni della presidenza Reagan, crebbe di oltre il 4 per cento annuo, rispetto ad aumenti del 2,5 per cento ai tempi dell’amministrazione Carter. Negli anni successivi la disoccupazione rimase elevata in entrambi i paesi, mentre le banche centrali alzavano i tassi d’interesse per dare una stretta al credito, inducendo un abbattimento dell’inflazione negli Stati Uniti dal 14 per cento nel 1980 al 3 per cento nel 1983. Poi, la successiva liberalizzazione del credito e la riduzione dei tassi d’interesse portarono ai boom economici inflazionistici degli anni Ottanta. Ma l’abbattimento dell’inflazione fu dovuto al controllo dell’offerta di moneta, come avrebbero rivendicato i monetaristi, o al calo della domanda conseguente alla disoccupazione, come avrebbero argomentato gli economisti legati al binomio domanda-offerta?
Al termine degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta, le banche centrali occidentali contrassero spesa e offerta di moneta ponendo fine ai boom degli anni Ottanta, conclusisi con il tracollo del 1987. Gli anni Ottanta e Novanta sono un buon esempio delle conseguenze di cambiamenti nella politica monetaria, con il passaggio dalla restrizione all’espansione dell’offerta di moneta, e mettono in luce il fatto che in economia non ci troviamo a far fronte a condizioni caratterizzate da uno stato stazionario, ma piuttosto a un processo dinamico dove fattori nuovi, come la globalizzazione, e cambiamenti nella domanda e nelle preferenze del consumatore, così come nei modelli di ricchezza, richiedono una revisione continua di assiomi economici convenzionali attinenti alle diverse teorie del valore basate sull’utilità e all’impatto delle azioni del governo sulle preferenze del consumatore. In che modo un sistema economico rileva cambiamenti nelle esternalità che si manifestano nel mondo delle imprese, a livello macro- e microeconomico, e a essi reagisce proponendo soluzioni alle diseguaglianze economiche in un mercato mondiale globale?
Non fu forse Keynes a dire che i politici cadono spesso vittima di economisti ormai defunti, con ciò intendendo teorie economiche obsolete in materia di controllo di inflazione e deflazione? La globalizzazione, e le conseguenti modificazioni dei livelli del debito sovrano, richiedono nuovi sistemi di gestione della liquidità internazionale da parte del Fondo monetario internazionale e delle banche centrali delle diverse economie mondiali. Sin dagli anni Novanta la forma classica del monetarismo, con la sua fede nell’importanza suprema dell’offerta di moneta, è stata messa in discussione perché alcune condizioni economiche, tra cui il disallineamento negli Stati Uniti tra offerta di moneta e inflazione negli anni Novanta e il fallimento della politica monetaria come strumento di stimolo dell’economia tra il 2001 e il 2003, non trovano spiegazione in termini monetari. Alan Greenspan ha sostenuto che la situazione venutasi a creare negli anni Novanta si poteva spiegare – riprendendo le sue parole –...