Dalle piú arcaiche credenze e pratiche degli uomini preistorici, di cosí difficile individuazione ed interpretazione, alle innumerevoli varianti locali in cui si articola l’esperienza religiosa dei popoli cosiddetti primitivi, attraverso pratiche e credenze delle civiltà del mondo antico fino alle piú recenti esperienze religiose di una società investita dai processi di modernizzazione: che cosa tiene unita questa varietà cangiante e contrastante, questo mondo cosí contraddittorio, nel quale ci pare di sentire cantare gli angeli e nel quale, immediatamente accanto, vediamo muoversi sconce figure demoniache ed ogni sorta di mostri?
WILHELM BOUSSET, Das Wesen der Religion.
1. Il paradosso della religione.
Che cos’è la religione? In questi termini s’interrogava, all’inizio del Novecento, Wilhelm Bousset, esegeta, filologo e teologo, uno dei piú noti e importanti rappresentanti di quella Religionsgeschichtliche Schule tedesca che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, doveva contribuire a un rinnovamento profondo degli studi delle «origini» cristiane. A quest’interrogativo, è inutile dirlo, sono state date innumerevoli risposte. In quegli anni d’anni lo psicologo americano James H. Leuba (1912), nella appendice a un’introduzione alla psicologia della religione, ne elencava una cinquantina. Oggi certamente l’elenco sarebbe piú lungo. Che cosa ci deve insegnare questo sforzo degno di Sisifo? Che la religione, nella nostra tradizione culturale, è stata considerata da numerosi punti di vista: cosa che non sorprenderà piú il lettore del capitolo precedente, iniziato, per quanto in modo alquanto sommario, alla complessità delle prospettive e al conflitto delle interpretazioni che hanno accompagnato lo studio critico della religione in epoca moderna.
Ciò che si suole denominare «religione» costituisce, al pari del linguaggio e dell’arte, un aspetto della vita fondamentale per la comprensione dell’uomo e dei rapporti culturali e sociali che legano gli individui tra di loro. A differenza del linguaggio, che si basa sulla facoltà di esprimersi e comunicare propria dell’uomo, e a differenza dell’arte, in cui si manifestano l’immaginazione e la fantasia, la religione ritiene di gettare le sue radici in qualcosa (il «sacro») o qualcuno (esseri sovrumani, dèi, Dio), che trascende la dimensione umana, ponendosi insieme come il suo fondamento. Produzioni che si sforzano di dare senso al mondo, creazioni dell’uomo in quanto animale simbolico artefice di cultura e storia, i sistemi religiosi si presentano, nel contempo, come una, se non la radice del pensare e dell’agire.
La peculiarità del fatto religioso, cosí come si è venuto determinando nella nostra tradizione, risiede proprio in questo scarto differenziale tra ciò che una religione come sistema culturale è (prodotto umano puramente sociale, culturale, storico) e ciò che essa pretende di essere (realtà fondatrice e giustificatrice della società, della cultura, della storia): scarto che la «ragione» cerca di colmare e di piegare a suo favore, mentre la «fede del credente» lo difende e lo preserva con ogni mezzo. Proprio nell’irriducibilità di questo scarto risiede e consiste il paradosso distintivo della religione, comunque si decida poi di definirla (o di non definirla): se le religioni provengono da un essere sovrumano e a lui conducono – qualunque sia poi il nome e la figura che gli riconoscano – e si presentano come il fondamento infondato del cosmo e dell’essere, tuttavia esse sono come una moneta che ha corso unicamente tra gli uomini e in funzione dei loro interessi, abituate come sono a intrecciare le loro danze con la storia umana fino a confondervisi.
Realtà integralmente umane, le religioni continuano a palesare una gamma amplissima di possibilità espressive. Fattore di unità, di comunione, di vita, di pace, le religioni costituiscono altresí – come purtroppo i tragici eventi di questi ultimi anni hanno brutalmente ricordato a un pubblico sempre piú privo di memoria storica – fattore di divisione, di antagonismo, di rottura, di conflitto, di guerra e, dunque, di morte. Principio di movimento, speranza, progresso, una religione che voglia difendere la propria dimensione tradizionale può anche essere ostacolo e resistenza al cambiamento, generando tradizionalismi e fondamentalismi (cfr. cap. VII par. 3). Luogo dove si celebra e si conferma l’esistente attraverso rituali e liturgie, le religioni si configurano anche, con le loro promesse escatologiche, come il non-luogo dell’utopia e dell’attesa, spingendosi in alcuni casi fino al punto di trasformarsi in negazione totale del mondo e dei suoi valori.
La natura proteiforme della religione affonda le sue radici, prima che nella variabilità dei condizionamenti storici, nella natura altrettanto proteiforme dell’esperienza umana e delle sue espressioni simboliche, quasi a voler preservare in questo modo quel «fondo piú profondo dell’uomo» che, mentre pare consentire alla sua spoliazione e possessione, difende la sua stessa inattingibilità. Proprio questa natura rende però improbo il tentativo di circuire quest’oggetto con una definizione. Essa, infatti, corre il rischio di trasformarsi nella ricerca senza fine di una «realtà», ora materializzata nelle posizioni ontologiche di coloro che, come Otto e i fenomenologi della religione, tendono a definire la religione in funzione di una realtà ontologica variamente denominata, ora volatilizzata nelle posizioni, analoghe ma di segno contrario, di coloro che tendono a incanalare la forza della religione nei tanti rivoli delle sue funzioni sociali: posizioni accomunate comunque dal fatto che nascondono le loro «prescrizioni» dietro il velo di «descrizioni» apparentemente neutrali (Strenski 1987). Per questo oggi cresce il numero di quegli studiosi che, consapevoli di questi rischi, di fronte «a un conflitto che non può essere deciso, poiché l’ontologia presupposta da entrambe le parti non può essere né verificata né falsificata con mezzi scientifici, dal momento che in entrambi i casi si tratta di fede in determinati valori e visioni del mondo» (Kippenberg e Von Stuckrad 2003, p. 92), ritengono inutile, oltre che impossibile, il compito di definire la religione, preferendo fare ricorso a prospettive e punti di vista al posto di teorie e definizioni (cfr. per una panoramica complessiva Bianchi 1994).
Eppure, definire la religione si rivela, proprio dal punto di vista delle Scienze delle religioni, compito tanto improbo quanto inevitabile. Per un verso, infatti, mosse dalla constatazione delle radici cristianocentriche del concetto di religione, sempre piú numerose si levano oggi voci a favore dell’abolizione di questo concetto (Ahn 1997), senza tenere conto in maniera adeguata del dato storico. Per un altro verso, solo un’approfondita consapevolezza storiografica nei confronti dei complessi problemi in gioco può contribuire a far uscire dal circolo vizioso messo in luce anni fa dall’antropologo Melford E. Spiro, in virtú del quale se da un punto di vista scientifico una definizione è possibile soltanto al termine dell’indagine empirica, si rivela d’altro canto impossibile iniziare questa stessa indagine senza una definizione preliminare di tipo stipulativo che permetta di delimitarne il campo.
Per uscire da questo circolo vizioso vi è chi ha proposto di utilizzare le autodefinizioni cui le stesse tradizioni religiose farebbero ricorso (Cantwell Smith 1963). A parte il fatto che questa autoconsapevolezza non è riscontrabile che in un numero limitato di casi (non vi rientrano, ad esempio, le cosiddette religioni indigene e la maggior parte di quelle antiche, cioè tutte quelle che, ignorando appunto il moderno concetto di religione, tendono a identificare religione ed ethnos), anche accettando questo criterio là dove esso è praticabile, in realtà, non si farebbe che spostare il problema: dal momento che rimarrebbe inevasa l’esigenza di reperire un minimo comune denominatore – la «religione» appunto – in base al quale procedere a quelle operazioni di storicizzazione, comparazione e classificazione che competono alle Scienze delle religioni non come sommatoria di punti di vista «interni» ma proprio come punto di vista «esterno» dell’osservatore.
La prospettiva che di seguito si propone è tipicamente storica (Rudolph 1992). Ogni tentativo di definire la religione, circoscrivendo l’area semantica che essa comprenderebbe, non può prescindere dalla constatazione che ciò con cui lo storico ha a che fare, in sede interpretativa, non è certo l’«essenza» della religione, ma le sue manifestazioni storiche, indagabili attraverso il ricorso a uno strumento concettuale, appunto la categoria di «religione», con un’origine storica precisa e sviluppi peculiari, che ne condizionano inevitabilmente modi di definizione, utilizzo ed estensione.
Assumere questo punto di vista storico, per sua natura induttivo, ma anche inevitabilmente aperto ai rischi del relativismo, comporta modalità d’indagine, effetti e risultati diversi da quelli ipotizzabili se si assumesse un punto di vista diverso, per esempio normativo, com’è proprio di una riflessione teologica sulla natura della religione; o comunque deduttivo, a partire cioè da un modello paradigmatico di religione dedotto assiologicamente in funzione di una scala precostituita di valori, com’è proprio della filosofia della religione; o, ancora, tendenzialmente non storico, com’è proprio di non poche scienze umane applicate allo studio della religione; o, infine, ermeneutico, secondo un’impostazione di fenomenologia ed antropologia religiose, che presuppone quel che invece dovrebbe descrivere e cioè la «realtà» dell’homo religiosus.
Nella prospettiva che si suggerisce, «religione» è dunque una categoria interpretativa dotata di una sua storia peculiare interna alla storia della cultura occidentale e della tradizione giudaico-cristiana che la caratterizza. Anche se, come si vedrà meglio nel paragrafo successivo, le radici del termine affondano nella storia della religione romana, di fatto il modo con cui siamo soliti intenderla e definirla, al di là delle innumerevoli variazioni interpretative, è tipicamente moderno e legato ai procedimenti messi in atto dal moderno razionalismo. Questi procedimenti, infatti, sono specifici del punto di vista della ragion critica occidentale e rientrano nel peculiare rapporto instauratosi tra modernità e religione. Una caratteristica essenziale della modernità è consistita proprio nella capacità – mentre minava i presupposti dell’esistenza della religione in quanto tradizione – di creare continuamente nuove possibilità di riemersione dello stesso fenomeno religioso. In questo modo la critica della religione, dovendosi confrontare, piú che con l’eclissi della religione, con le sue metamorfosi, si è trovata di fronte al compito di ridefinirne continuamente i confini. Infatti, mentre caratteristiche tradizionali entravano in crisi irreversibile, ne emergevano altre, che diventavano determinanti nello stabilire i tratti definitori del fenomeno.
Accettando questa prospettiva storica – via improba ma anche salutare di contro ai recenti tentativi che rischiano, come si suol dire, di gettar via con l’acqua sporca anche il bambino – si dovrà ammettere che, se è vero che la categoria di religione, al pari di altre fondamentali categorie delle Scienze delle religioni, è stata adoperata in un primo tempo in un’ottica tendenzialmente eurocentrica e cristianocentrica, sull’onda lunga dei fenomeni di conquista coloniale e missionaria, per assimilare al proprio punto di vista (o per condannarli e respingerli) fenomeni di altre tradizioni religiose ritenuti affini, la prospettiva di razionalismo critico distintiva della nostra tradizione culturale – fondata sulla particolare dialettica secondo cui nel momento stesso in cui si stabilisce un confronto con un punto di vista diverso, con l’Altro-da-me, non fosse che per fagocitarlo o eliminarlo, s’innesta comunque un processo fecondo di messa in discussione del proprio stesso punto di vista – ha messo in atto un processo di superamento di quest’ottica. Proprio la crisi del pregiudizio etnocentrico, conseguenza prima di tutto della crisi del colonialismo e dell’instaurarsi di studi postcoloniali, ha indotto ad usare, di conseguenza, la categoria di religione per individuare differenze e peculiarità, in un intreccio dialettico tra tendenza assimilante e differenziante, che non è sempre semplice cogliere né tanto meno sciogliere, ma che deve essere calato di volta in volta in modo concreto e operativamente efficace nei differenti contesti storico-culturali.
Si può insomma essere d’accordo con un acuto interprete dei fatti religiosi come Jonathan Z. Smith, quando osserva che «religione» non è una categoria nativa, dal momento che essa sarebbe stata imposta a realtà ad essa refrattarie come le religioni indigene (che non posseggono un termine analogo ad indicare una sfera separata ed autonoma di esistenza) da osservatori esterni, dai colonialisti del ...