
- 464 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La signora Bovary
Informazioni su questo libro
«La sventurata storia di Emma Bovary è una tragedia, un fallimento totale - scrive Henry James -, ma è un fallimento che fornisce a Flaubert il materiale per il piú perfetto, il piú raccontato dei suoi aneddoti». La signora Bovary, uno dei piú celebri romanzi dell'Ottocento francese, viene riproposto nella traduzione di Natalia Ginzburg (uscita per la prima volta nel 1993), che ha scelto - come sottolinea Oreste del Buono - di «far sparire se stessa in quanto autore per servire maggiormente l'autore da tradurre». Il risultato è una traduzione che ottiene lo scopo a cui, secondo Flaubert, ogni artista dovrebbe ambire: «essere nella sua opera invisibile e onnipotente, che lo si senta ovunque ma non lo si veda mai».
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Informazioni
Parte seconda
I.
Yonville-l’Abbaye (cosí chiamato per un’antica abbazia di Cappuccini, della quale non esistono piú nemmeno le rovine) è un borgo a otto leghe da Rouen, fra la strada di Abbeville e la strada di Beauvais, nel fondo d’una valle bagnata dalla Rieule, piccolo fiume che si getta nell’Andelle, dopo aver messo in moto tre mulini verso la sua foce, e dove nuotano alcune trote, che i ragazzi, la domenica, si divertono a pescare con la lenza.
Si lascia la strada maestra alla Boissière e si prosegue dritto fino in cima alla collina dei Leux, dove si scopre la valle. Il fiume che la attraversa ne fa come due regioni dalla fisionomia ben distinta: tutto quello che sta a sinistra è tenuto a pascolo, tutto quello che sta a destra è coltivato. La prateria si distende sotto a un cuscinetto di colline basse per ricongiungersi dietro di esse ai pascoli della regione di Bray, mentre sul lato di levante, la pianura, dolcemente salendo, s’allarga a poco a poco e sciorina a perdita d’occhio i suoi biondi appezzamenti di grano. L’acqua che scorre sul ciglio dell’erba separa d’una riga bianca il colore dei prati dal colore dei solchi, e la campagna cosí rassomiglia ad un gran mantello spiegato con un collare di velluto orlato d’un gallone d’argento.
All’estremo orizzonte, quando arriviamo, abbiamo davanti a noi le querce della foresta d’Argueil, con i ripidi pendii del colle Saint-Jean, che percorrono dall’alto in basso lunghe striature rosse, diseguali; sono le tracce delle piogge, e quei toni color mattone, spiccando in reticolati sottili sul colore grigio della montagna, provengono dalle molte sorgenti ferrugginose che dall’altro versante scorrono nella regione vicina.
Siamo qui sui confini della Normandia, della Piccardia e dell’Ile-de-France, contrada bastarda dove il linguaggio è senza accento, come il paesaggio è senza carattere. Qui si fanno i peggiori formaggi di Neufchâtel di tutto il circondario, e, d’altra parte, la coltivazione è costosa, perché ci vuole molto letame per ingrassare queste terre friabili piene di sabbia e di sassi.
Fino al 1835, non c’era nessuna strada praticabile per arrivare a Yonville; ma è stata aperta verso quell’epoca una grande vicinale, che allaccia la strada di Abbeville a quella di Amiens, e serve a volte ai carrettieri che da Rouen vanno nelle Fiandre. Tuttavia, Yonville-l’Abbaye non è progredito, nonostante i suoi sbocchi nuovi. Invece di migliorare le coltivazioni, tutti con ostinazione persistono a tenere i pascoli, per quanto siano deprezzati; e il borgo pigro, discostandosi dalla pianura, spontaneamente ha continuato a estendersi verso il fiume. Lo vediamo di lontano, tutto adagiato sulla sponda, come un guardiano di vacche che fa la sua siesta in riva all’acqua.
Ai piedi della salita, dopo il ponte, inizia una carreggiata fiancheggiata di giovani tremoli, che porta in linea retta alle prime case del paese. Queste sono cinte di siepi, fra cortili pieni di costruzioni sparse, frantoi, rimesse e distillerie disseminate sotto alle piante frondose, con scale, pertiche e falci appese nel fogliame. I tetti di stoppie, simili a berretti di pelo calati sugli occhi, scendono a coprire quasi un terzo delle finestre basse, i cui grossi vetri convessi hanno un nodo in mezzo, come i fondi delle bottiglie. Sul muro intonacato a calce, che traversano in diagonale travicelli neri, s’aggrappa a volte qualche magro pero, e al pianterreno, davanti alle porte, ci sono cancelletti girevoli, per impedire l’ingresso ai pulcini, che vengono a beccare, sulla soglia, briciole di pan bigio inzuppate di sidro. Via via i cortili si fanno piú stretti, le case s’accostano l’una all’altra, le siepi scompaiono; un fascio di felci dondola sotto a una finestra appeso a un manico di scopa; c’è la fucina d’un fabbro ferraio, e successivamente un carradore con due o tre carretti nuovi, di fuori, che ingombrano la strada. Poi, attraverso una cancellata, appare una casa bianca al di là d’un praticello rotondo, adorno d’un amorino col dito sulle labbra; ai piedi della scalinata vi sono due vasi di ghisa; sulla porta brillano targhe; è la casa del notaio, ed è la piú bella del paese.
La chiesa è sull’altro lato della strada, venti passi piú lontano, all’ingresso della piazza. Il piccolo cimitero che la circonda, chiuso da un muro ad altezza di gomito, è cosí stipato di tombe, che le vecchie pietre stese al suolo formano un selciato uniforme, dove l’erba stessa ha disegnato quadrati verdi regolari. La chiesa è stata ricostruita a nuovo negli ultimi anni del regno di Carlo X. La volta di legno comincia a marcire nell’alto e si vedono, qua e là, cavità nere nel colore azzurro. Al disopra della porta, dove dovrebbe essere l’organo, c’è una tribuna per gli uomini, con una scala a chiocciola che rintrona al rumore degli zoccoli.
La luce del giorno, filtrando dalle vetrate levigate, illumina obliquamente i banchi schierati lungo il muro, foderati, alcuni, di stuoie fissate con i chiodi, su cui sta scritto a grosse lettere: «Banco del signor tale». Piú oltre, là dove la navata si restringe, il confessionale sta di fronte ad una statuetta della Vergine, vestita di raso, con un velo di tulle punteggiato di stelle d’argento, e con gli zigomi imporporati come un idolo delle isole Sandwich; infine una copia della Sacra famiglia, dono del ministro degli interni, che domina l’altar maggiore fra quattro candelabri, chiude la prospettiva nel fondo. Gli stalli del coro, di legno d’abete, non sono mai stati dipinti.
Il mercato, cioè una tettoia di tegole sostenuta da una ventina di pilastri, occupa da solo circa la metà della piazza grande di Yonville. Il municipio, costruito su disegno d’un architetto di Parigi, è una sorta di tempio greco che fa angolo con l’attigua casa del farmacista. Al pianterreno, ha tre colonne ioniche, e al primo piano un loggiato con archi a tutto sesto, mentre nel timpano che lo corona è situato un gallo francese, che tiene una zampa appoggiata sulla Carta e regge con l’altra la bilancia della giustizia.
Ma quel che piú attira gli sguardi è certo, di faccia all’albergo del Leon d’oro, la farmacia del signor Homais! Particolarmente la sera, quando la lampada è accesa e i boccali rossi e verdi che abbelliscono la vetrina proiettano lontano, a terra, due bagliori colorati, s’intravede allora attraverso a questi, come fra fuochi di Bengala, l’ombra del farmacista con i gomiti sul banco. La sua casa, dall’alto in basso, è coperta di scritte, a caratteri inglesi, in tondo, in stampatello: «Acque di Vichy, di Seltz e di Barèges, sciroppi depurativi alla frutta, medicina Raspail, racao d’Arabia, pastiglie Darcet, pasta Regnault, bende, bagni, cioccolatini curativi, ecc.». E l’insegna, che si estende per largo sull’intiera bottega, dice in lettere d’oro: «Homais, farmacista». E in fondo alla bottega, dietro alle grandi bilance impiombate sul banco, la parola laboratorio si snoda sopra una porta a vetri, dove, a mezza altezza, è ripetuto ancora una volta Homais, a lettere d’oro, su uno sfondo nero.
Poi non c’è piú niente da vedere a Yonville. La strada (l’unica), lunga un tiro di schioppo e fiancheggiata di qualche negozio, si ferma di colpo alla svolta. Lasciandola sulla destra e procedendo ai piedi del colle Saint-Jean, presto si arriva al cimitero.
All’epoca del colera, per ingrandirlo è stata abbattuta una falda di muro e sono stati comprati tre acri di terra lí accanto; ma tutta questa porzione nuova è quasi disabitata, le tombe, come in passato, seguitano ad ammassarsi verso la porta. Il custode, che è insieme becchino e scaccino (traendo cosí dai cadaveri della parrocchia un duplice beneficio) ha approfittato del terreno sgombro per seminarvi delle patate. Di anno in anno, però, il campicello rimpicciolisce, e quando sopravviene un’epidemia, egli non sa se rallegrarsi dei decessi o dolersi delle sepolture.
– Voi vi nutrite dei morti, Lestiboudois! – gli disse infine un giorno il parroco.
Queste parole cupe lo fecero riflettere; lo tennero fermo per qualche tempo; ma adesso ancora, egli continua a coltivare i suoi tuberi, e anzi sostiene imperterrito che crescono da sé.
Dopo i fatti che stiamo per raccontare, niente, in verità, è cambiato a Yonville. La bandiera tricolore di latta gira sempre in cima al campanile della chiesa; la bottega del negoziante di mode agita ancora al vento le sue due banderuole d’indiana; i feti del farmacista, simili a pacchetti di esche bianche, marciscono sempre piú nel loro alcool torbido, e sul portone dell’albergo, il vecchio leone d’oro, stinto dalle piogge, mostra sempre ai passanti i suoi riccioli di can barbone.
La sera che gli sposi Bovary dovevano arrivare a Yonville, la vedova Lefrançois, la padrona di quell’albergo, era tanto indaffarata, che sudava a grosse gocce mentre rimestava le sue casseruole. L’indomani era giorno di mercato in paese. Bisognava fin d’ora tagliare la carne, pulire i polli, fare la minestra e il caffè. Per di piú, le toccava preparar da mangiare per i pensionanti, il medico, la moglie e la domestica; nel biliardo echeggiavano scoppi di risa; tre mugnai, nella saletta, gridavano che gli si portasse dell’acquavite; la legna fiammeggiava, la brace scoppiettava, e sulla lunga tavola della cucina, fra i quarti di montone crudo, s’accatastavano pile di piatti, che sussultavano alle scosse del ceppo dove si tritavano gli spinaci. Si sentivano, nel cortile, gli strilli dei volatili che la serva inseguiva per tirargli il collo.
Un uomo dalle pantofole di pelle verde, leggermente butterato dal vaiolo, con in testa un berretto di velluto con la nappina d’oro, si scaldava la schiena al camino. Il suo viso non esprimeva niente, salvo la contentezza di sé, ed egli aveva l’aria di starsene tranquillo nella vita quanto il cardellino nella gabbia di giunchi appesa al muro sopra il suo capo: era il farmacista.
– Artémise! – gridava la padrona dell’albergo, – spezza le fascine, riempi le caraffe, porta dell’acquavite, sbrigati! Se almeno io sapessi che dessert offrire alle persone che aspettiamo! Bontà divina! I facchini dello sgombero ricominciano a far baccano nella sala del biliardo! E il loro carro è rimasto sotto il portone! La Rondine è capace di sfondarlo arrivando! Chiama Polyte che lo metta nella rimessa! Dire che da stamattina, signor Homais, hanno fatto almeno quindici partite e si son bevuti otto boccali di sidro! Ma ora mi strappano il tappeto, – continuava guardandoli a distanza, con la schiumarola in mano.
– Non sarebbe un gran male, – rispose il signor Homais, – ne comprereste un altro.
– Un altro biliardo! – esclamò la vedova.
– Visto che quello non regge piú, signora Lefrançois; ve lo ripeto, vi fate torto! veramente vi fate torto! E poi gli amatori, adesso, vogliono buche strette e stecche pesanti. Non si gioca piú la biglia, tutto è cambiato! Bisogna camminare col secolo! Guardate Tellier, piuttosto...
La locandiera si fece rossa per il dispetto. Il farmacista aggiunse:
– Il suo biliardo, avete un bel dire, è piú grazioso del vostro; e se gli viene l’idea, per esempio, di metter su un torneo patriottico per la Polonia o per gli alluvionati di Lione...
– Non sono dei pezzenti come lui che ci fanno paura! – interruppe la locandiera, alzando le sue grosse spalle. – Andiamo, andiamo! signor Homais, finché vivrà il Leon d’oro, ci verranno. Siamo gente ben fornita, noi altri. E invece una di queste mattine, vedrete il Caffè francese chiuso, con un bel cartello sulle imposte!... Prendere un altro biliardo! – continuava come parlando a se stessa, – che questo mi è cosí comodo per piegare il bucato, e ci ho messo a dormire, in tempo di caccia, perfino sei viaggiatori! Ma quella lumaca d’Hivert che non arriva!
– Lo aspettate, prima di mettere a tavola quei vostri signori? – domandò il farmacista.
– Aspettarlo? E il signor Binet, allora? Alle sei suonate lo vedrete entrare, perché non ne esiste un altro sulla terra che sia tanto preciso. Gli ci vuole sempre il suo posto nella saletta! Non mangerebbe da un’altra parte nemmeno se lo ammazzano! e quanto è schizzinoso! e cosí difficile per il sidro! Non è come il signor Léon; lui arriva alle sette, anche alle sette e mezzo; non guarda neppure quello che mangia. Che buon giovane! Non c’è mai caso che alzi la voce.
– Perché esiste una bella differenza, vedete, fra uno che ha avuto un’educazione e uno che era militare e adesso fa l’esattore.
Suonarono le sei. Entrò Binet.
Indossava una finanziera turchina, che ricadeva dritta e rigida intorno al suo corpo magro, e il berretto di cuoio, dai paraorecchi annodati con lacci in cima alla testa, sotto la visiera rialzata lasciava vedere una fronte calva, incavata dall’uso dell’elmo. Portava un panciotto di panno nero, un bavero di crine, pantaloni grigi, e, in ogni stagione, stivali ben lucidati che avevano due rigonfiamenti paralleli, causati dalla sporgenza degli alluci. Non un pelo oltrepassava la linea della sua bionda barba a collare, che, contornando la mascella, come l’orlo d’un’aiuola incorniciava la sua lunga faccia smorta, dagli occhi piccoli e dal naso ricurvo. Abile in ogni gioco di carte, buon cacciatore e dotato d’una bella calligrafia, egli aveva in casa sua un tornio, con cui si divertiva a fabbricare anelli da tovaglioli, e di questi s’era riempita la casa, con la gelosia d’un artista e l’egoismo d’un borghese.
Si diresse verso la saletta; ma fu necessario, prima, farne uscire i tre mugnai; e mentre apparecchiavano per lui la tavola, Binet restò silenzioso al suo posto accanto alla stufa; poi chiuse la porta e si tolse il berretto, come sempre.
– Non sono certo le cortesie a consumargli la lingua! – disse il farmacista, quando fu solo con la locandiera.
– Mai parla piú di cosí, – rispose lei; – sono venuti qui, la settimana scorsa, due commercianti di tessuti, ragazzi pieni di spirito che raccontavano, la sera, un mucchio di barzellette, e io piangevo dal ridere: bene, lui restava là come un’aringa, senza fiatare.
– Sí, – disse il farmacista, – niente fantasia, niente arguzie, niente di quello che forma l’uomo di società!
– Pure dicono che ha tante risorse, – obbiettò la locandiera.
– Risorse! – replicò il signor Homais, – ha tante risorse, lui? Nel suo ca...
Indice dei contenuti
- Copertina
- La signora Bovary
- Gustave Flaubert di Henry James
- Gustave Flaubert: cronologia
- Madame Bovary: cronologia
- Bibliografia essenziale
- La signora Bovary
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Nota del traduttore
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright