Il capitalismo ha i secoli contati
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Il capitalismo ha i secoli contati

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Il capitalismo ha i secoli contati

Informazioni su questo libro

Le profezie sulla fine del capitalismo sono state così tante da avergli portato fortuna, ma niente giustifica l'idea che esso rappresenti un assetto definitivo. La storia scorre, implacabile. I suoi tempi sono contati. Su questo sfondo Ruffolo ci narra nel suo stile sempre godibile l'avvincente percorso storico del capitalismo occidentale. Dalle prove d'orchestra dell'antichità fino al suo pieno dispiegarsi nel Cinquecento e alle successive egemonie nazionali. E soprattutto le incognite di questo nostro nuovo secolo, le sfide, i rischi, le risposte possibili che si muovono sul filo della progressiva mercatizzazione dell'economia, fino alla globalizzazione dello spazio e alla finanziarizzazione del tempo. Uno scenario complicato dall'affanno del controllo politico, che potrebbe riservarci prospettive drammatiche ma anche, tra le sue sorprese, quella di un «capitalismo ben temperato». «Le filosofie che contestano la scienza e la tecnica come idoli della nostra servitù ci portano sulla strada opposta a quella segnata dalla legge dell'organizzazione che regola l'evoluzione dell'essere. Ci portano nelle fumosità del misticismo, mentre la scienza e la tecnica, al servizio della conoscenza, non del mercato, sono le vie aperte al nostro sviluppo creativo. Non è il progresso tecnico la causa del venir meno dei fini, ma è il suo asservimento all'accumulazione capitalistica. Quella sintesi di tecnica e di mercato che ha costituito il segreto del trionfo capitalistico ne rappresenta oggi la prigione. Non è vero che la tecnica prescrive di fare tutto ciò che è fattibile. Essa prescrive di fare tutto ciò che è profittevole. Il problema, allora, non è quello di sottrarsi alla tecnica, ma di sottrarre la tecnica alle leggi del mercato, ponendola al servizio della conoscenza. In questo senso l'equilibrio ecologico, l'arresto della crescita economica dell'avere, sterile e autodistruttiva, è la premessa necessaria di un umanesimo trascendente inteso allo sviluppo esistenziale della specie umana».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806188276
eBook ISBN
9788858414293
Argomento
Economia

Parte terza

Il mercato senza le mura. La mercatizzazione
globale

XI. Prometeo incatenato e scatenato

Prometeo è uno dei titani, presiede per conto di Zeus alle sorti degli uomini. A causa di una lite futile Zeus nega la fiamma agli uomini e Prometeo gli ruba il fuoco per restituirlo ai mortali. Qui le versioni divergono. Secondo Eschilo il disobbediente è incatenato sul Caucaso, il confine orientale del mondo, ove si torce sotto il becco di un’aquila che gli divora il fegato. Il racconto di Esiodo invece è decisamente diverso e odiosamente maschilista. Per punizione Zeus lascia agli uomini il fuoco ma gli regala la donna, un male assoluto di cui improvvidamente gioiranno. C’è poi il racconto di Platone secondo cui Prometeo si appropriò, oltre che del fuoco, anche delle arti di Efesto e Atena, noi diremmo della tecnologia, e le regalò agli uomini che erano rimasti, rispetto a tutti gli altri animali, nudi e indifesi.
Come al solito il mito è ambiguo, e questo è il suo fascino. Ma vi si scorge il senso: il binomio fatale tra Hybris e Nemesis, tra l’arroganza trasgressiva e la punizione divina. L’uomo che tenta di raggiungere l’onnipotenza con l’uso della tecnica è punito dalle conseguenze di quel tentativo. Il tema ricorrerà piú volte: l’apprendista stregone, e tante altre.
Nel mito di Prometeo si proietta l’avventura del capitalismo: il piú poderoso sforzo dell’umanità di dominare il mondo, passando dalla impotenza all’onnipotenza; e i tremendi rischi di nemesis che questa hybris genera.
Di quell’avventura abbiamo seguito le fasi piú recenti (cinquecento anni circa) scandite dalle successive supremazie nazionali. Diamo ora uno sguardo d’insieme al passo (estremo?) cui quell’avventura sembra giunta. Lo facciamo utilizzando lo splendido lavoro di Angus Maddison Phases of capitalist development.
Maddison considera la storia del capitalismo, nei sedici paesi capitalistici piú avanzati, dal 1820 al 1979, misurandola con due metri: la popolazione e il prodotto lordo pro capite. In quel periodo di 160 anni la popolazione è quadruplicata, il prodotto totale è aumentato di sessanta volte e il prodotto pro capite di tredici volte. Le ore lavorate in un anno sono diminuite da circa 3000 a 1700, la produttività del lavoro è aumentata di circa venti volte. Nel millennio precedente la popolazione era aumentata in misura modesta e il prodotto pro capite quasi per niente. Questa, ridotta in poche cifre, è la performance che il capitalismo può esibire.
È una performance davvero formidabile. Che riguarda però soltanto una parte dell’umanità. E che ha scavato tra questa e il resto del mondo un enorme varco: accendendo speranze e suscitando frustrazioni. Duecento anni fa l’idea di por fine alla povertà era inimmaginabile. Tutto il mondo, con l’eccezione di esigue minoranze, viveva in una condizione di povertà. Lo stesso Maddison calcola che in Europa occidentale, nel 1820, il reddito medio fosse circa il 90 per cento del reddito medio attuale dei paesi africani. Del resto, anche durante i secoli, anzi i millenni della storia, fino ad allora, non c’erano stati divari di ricchezza rilevanti tra le grandi aree del mondo: e quelli piú notevoli erano, se mai, a svantaggio dell’Europa. Come afferma Jeffrey Sachs, al tempo della scoperta delle grandi rotte marittime Giappone ed Europa avevano livelli simili di reddito pro capite. Marco Polo si meravigliava delle sontuose ricchezze della Cina. Cortés e i suoi conquistadores esprimevano stupore per le ricchezze di Tenochtitlan, la capitale dell’impero azteco. Gli esploratori portoghesi si meravigliavano per l’ordine che regnava nelle città dell’Africa occidentale.
Poi, negli ultimi duecento anni, si è aperto il grande varco della diseguaglianza. Alla fine del secolo scorso l’80 per cento circa del prodotto mondiale si concentrava nel gruppo dei paesi dell’Ocse, i «paesi ricchi». Da allora, come vedremo piú oltre, grazie alla globalizzazione, la situazione è lievemente migliorata, il varco tra i ricchi e i poveri si è ridotto del 2 per cento circa e soprattutto si è ridotta l’area della povertà, ma le distanze restano enormi, specie fra gli estremi.
Questa fenomenale crescita ha segnato per l’umanità nel suo insieme un aumento generale del benessere economico e sociale di portata storica eccezionale, anche se molto disegualmente distribuito.
Consideriamo alcuni dati incontrovertibili.
L’allungamento delle speranze di vita anzitutto, piú che raddoppiate dal 1820 a oggi; dai 35 ai quasi 80 anni.
L’attenuazione del dolore, grazie ai progressi della medicina (basterebbe evocare la conquista rappresentata dall’anestesia per ridicolizzare coloro che rimpiangono il bel tempo andato) e ai miracoli della chirurgia. Senza le ricerche e gli investimenti resi possibili dalla crescita economica, né il primo né l’altra si sarebbero realizzati.
L’umanizzazione delle pene e il livello dei diritti civili nei paesi capitalistici avanzati: segno che il patto non scritto tra capitalismo e democrazia è osservato. Le regressioni, che pur esistono, vengono pubblicamente e vigorosamente denunciate dalla comunità mondiale.
Il livello dei diritti sociali, incomparabile rispetto a quello vigente in paesi economicamente piú arretrati.
L’innegabile miglioramento della condizione femminile; anche se su questo terreno le resistenze al cambiamento sono ancora fortissime e in certi casi prevalenti.
L’attenzione, talvolta spinta ad estremi diseducativi, verso i bambini, mai posti cosí al centro della società. Ancora nell’Ottocento il bambino, come figura sociale, praticamente non esisteva.
Questi aspetti vanno evocati per sottolineare che l’evoluzione economica capitalistica si è accompagnata con un generale incivilimento delle condizioni sociali: delle leggi, dei costumi, dei sentimenti.
E tocchiamo qui uno dei punti piú controversi: i consumi. Chi potrebbe negare il grado di benessere e di gioia di vivere prodotto dall’abbondanza e dalla varietà dei consumi? Gli aspetti degenerativi, che pure esistono, non possono in alcun modo cancellare quelli generativi, il piacere e la felicità che se ne trae.
La fine della repressione sessuale. Si può contestarne gli eccessi. E soprattutto l’aspetto «consumistico»: ma è impossibile non riconoscere la liberazione e la gioia che ha rappresentato per tante donne e per tanti uomini.
La proliferazione dei divertimenti, degli svaghi, degli spettacoli cinematografici, musicali, teatrali; di quelli sportivi e, meno, delle pratiche sportive; la cura del corpo e il culto della bellezza fisica. Solo al sommo delle classi dominanti, dall’antico Egitto a Roma e alle aristocrazie feudali incontriamo livelli di raffinatezza paragonabili a quelli raggiunti oggi a livello di massa. Nella media il tenore di vita dei ricchi era molto povero rispetto alla media attuale dei poveri.
La ricchezza attuale si manifesta sotto forma di ampliamento delle chances di vita, delle scelte a disposizione di grandi masse di donne e di uomini.
Grafico 1. Lo sviluppo esplosivo della ricchezza umana.
Stime da 1 milione a.C. al 2000 d.C. eseguite da J. Bradford De Long, Università della California, Berkeley. La nostra stima da 2,5 milioni a 1 milione è un’estrapolazione. Il prodotto lordo mondiale pro capite è misurato in dollari del 1990.
Fonte: E. D. Beinhocker, The Origin of Wealth, Harvard Business School Press, Boston 2006, p. 10.
Images
Gli aspetti degenerativi (quelli televisivi e pubblicitari, per esempio) non possono cancellare quelli generativi di questa esplosione delle scelte. Per quanto criticabile e contestabile, la civiltà dei consumi rappresenta un progresso sensazionale del tenore di vita di una grande parte dell’umanità, risultante da quella fusione di tecnica e di mercato che è il tratto specifico del capitalismo moderno.
Si tratta, piú che di un’accelerazione, di una vera e propria esplosione: basta guardare il grafico che abbiamo riprodotto per constatare l’impennata che ha proiettato la specie, in un istante storico, a un livello stratosferico. Per due milioni e mezzo di anni, cioè il 99,6 per cento della storia umana complessiva, dalla comparsa dell’homo habilis al XVIII secolo, la linea del grafico è stata quasi piatta. Nello 0,4 per cento residuo (un batter di ciglia) un salto vertiginoso l’ha spinta a un livello tale da far pensare non a un guizzo acrobatico improvviso, ma all’avvento di una specie del tutto nuova.
Il Prometeo incatenato è in realtà un Prometeo scatenato che, da una parte, ha creato condizioni prodigiose di prosperità e dall’altra condizioni minacciose per la sopravvivenza.
Queste ultime, le abbiamo raggruppate in cinque categorie, sotto cinque definizioni sintetiche:
− la devastazione dell’ambiente: insostenibilità
− gli squilibri distributivi di risorse e di potere connessi con la globalizzazione.
− il deterioramento delle relazioni sociali: privatizzazione
− la dissipazione delle ricchezze reali: finanziarizzazione
− l’impoverimento delle risorse morali: demoralizzazione.
Comunisti di ritorno
Un disegno presuntuoso quanto vago che ha per tema una riscoperta della buona novella comunistica è, per esempio, svolto nel libro di Michel Hardt e Antonio Negri Impero, il nuovo ordine della globalizzazione. Si tratta di una lettura ardua, tipica di una certa letteratura di rive gauche nutrita di una grande erudizione, carica di sottintesi metaforici che ammiccano a una cerchia ristretta di filosofici connaisseurs, costruita su ipotesi sottratte a qualunque tipo di verifica, anzi esibite con tanta maggiore sicurezza quanto piú apodittiche e autoreferenziali. L’ipotesi centrale è annunciata fin dall’inizio come un «dato di fatto»: l’esistenza di un ordine mondiale, che si chiama impero (ma subito dopo si avverte che è in formazione). Niente a che fare con gli imperialismi del passato europeo e neppure con quello del presente americano, né con alcuna realtà attualmente riscontrabile. Si tratta infatti di un noumeno non rintracciabile nella realtà territoriale e geopolitica. Questo noumeno emerge contemporaneamente al suo declino, che non si identifica con il declino storico degli imperialismi europei e con il trasferimento della leadership imperiale all’America. Questa idea – dicono gli autori – è illusoria. L’impero non è americano e gli Stati Uniti non ne sono il centro. L’impero è dappertutto, è una rete (ovviamente) che non ha un territorio e un centro localizzabili. E allora? Come si esce da questa rete? Bisogna, dicono gli autori, evitare due opposti errori: quello di considerarla cinicamente come un destino – il capitalismo come necessità naturalistica – e quello di propugnare come alternativa un cieco anarchismo, un «misticismo del limite». Un ragionamento ragionevole. Ma qual è la posizione giusta? La risposta non è granché illuminante: «possiamo rispondere alla domanda se discendiamo al centro della virtualità biopolitica, arricchita dalla singolarità dei processi creativi della produzione della soggettività». Sembra che si intenda con ciò che un «mondo in cui tutti i valori sono stati legati in un siderale vuoto di senso» genera un desiderio di confrontarsi con la crisi. Questo desiderio si incarna in una «moltitudine» (erede indeterminata del vecchio buon proletariato), concetto altrettanto arduo e sfuggente di quanto non sia quello, simmetrico, di impero. Il vero potere non sta nel machiavellismo e nel cinismo politico, ma nel divenire di un grande soggetto universale che sta «costruendo» (dove? come?) «una nuova realtà ontologica», «il potere di una nuova città». Nel non luogo dell’impero essa evoca un luogo del «posse», il potere in atto che trasforma la virtualità in realtà. Benché, dicono gli autori, il concetto sia chiaro (!) «questo compito della moltitudine è – aggiungono – piuttosto astratto. Quali saranno le pratiche specifiche e concrete che animeranno questo progetto politico? «Non lo sappiamo ancora». Anche questa è una reminescenza marxiana. Non mettere le mutande alla storia (con il risultato di restarne senza). La nuova potenza infatti si esprime in tutte le forme del «no» all’attuale potere, nella forma negativa della rivolta (ma allora perché prendersela con l’alternativa anarchica?). La sola indicazione pratica positiva è quella della rivendicazione della cittadinanza globale. Nelle manifestazioni francesi dei sans papiers era scritto sugli striscioni: documenti per tutti. Dunque, un diritto di cittadinanza del «non luogo» e, tutto sommato, una rivendicazione amministrativa. Che poi sia ingestibile, è altro conto. Gli autori potrebbero rispondere: proprio per questo.
La loro risposta, invece, è piú riformistica. Con la cittadinanza universale, nella quale evidentemente credono davvero, la moltitudine si approprierebbe del controllo sullo spazio «disegnando una nuova cartografia», insomma, la cittadinanza universale sarebbe il nuovo palazzo d’inverno da conquistare. Per farne che cosa, neppure la cuoca di Lenin che occhieggia da queste pagine, saprebbe dirlo. Dopo la lettura di questo libro, che ho richiamato come esempio del neocomunismo trascendentale, è consentito formulare un rammarico: che l’incontestabile intelligenza degli autori si sia immersa in questa pappa mistica. Bisogna rimpiangere che nel pensiero di certi filosofi della sinistra si sia smarrita l’impronta originaria dell’illuminismo, per irretirsi nelle trame concettuali di uno strutturalismo sistemico. Il sistemismo di Luhmann, come il nichilismo di Heidegger, filosofie simmetricamente antiumanistiche, esercitano un’attrazione fatale sugli intellettuali radicalsnob.

XII. L’insostenibilità

Il balzo prodigioso della potenza e della ricchezza ha un costo ecologico devastante. In un istante storico questo insignificante mammifero umano ha sottomesso le altre specie e sconvolto la natura. Ha consumato una volta per tutte masse sterminate di combustibili fossili accumulati per miliardi di anni nel grembo della Terra; foreste primigenie e oceani di plancton depositati nella forma di carbone e di petrolio. Ha sepolto sotto tempeste di sabbia milioni di ettari di terre vergini distruggendone la fertilità e desertificando interi continenti. Ha asservito pesci, uccelli e animali terrestri andando ben al di là della prescrizione biblica. Ha contaminato le falde acquifere introducendo inusitati veleni. Ha liberato masse enormi di metano dalle deiezioni di gigantesche concentrazioni di allevamenti. Ha distrutto buona parte del miliardo e mezzo di ettari di foreste tropicali, precisamente la metà di quelle africane e un terzo di quelle americane (una superficie complessivamente corrispondente a quella dell’India); ha diffuso nel terreno, nell’acqua e nell’aria dieci milioni di composti chimici inquinanti. Ha provocato, attraverso l’emissione di biossido di carbonio, salita da 295 a 310 parti per milione in cento anni, un riscaldamento sommergente e soffocante dell’atmosfera, che ha caricato di anidride solforosa, di origine chimica o animale, generando piogge acide. Ha provocato la strage delle altre specie vegetali e animali, determinando una contrazione drammatica della biodiversità: da un ritmo di estinzione di una specie ogni quattro anni a circa mille estinzioni all’anno.
La lista è terrificante, ma non esaustiva. Il fenomeno centrale di questa devastazione ambientale, che determina una frattura storica irreversibile tra la specie umana e il resto della natura, è la rottura del ciclo energetico. Per due milioni e mezzo di anni le attività umane sono state alimentate per larghissima parte da fonti energetiche rinnovabili, come l’acqua corrente e il vento. È dalla fine del Settecento a oggi che la spina energetica è stata inserita non piú nei flussi delle energie correnti, ma nello stock dei depositi fossili, immensi ma comunque limitati. Un altro aspetto centrale del saccheggio ambientale riguarda l’indispensabile acqua, il cui consumo globale è cresciuto di nove volte, soltanto nel secolo scorso, soprattutto a causa dello sviluppo dell’agricoltura, ma anche dell’industria, soprattutto della carta; e persino dei computer (per produrre un singolo wafer di silicio occorrono 2575 galloni di acqua). Il consumo di acqua potrebbe determinare una crisi ecologica piú grave ed imminente di quella, molto piú temuta, del petrolio.
Una domanda agli economisti si impone.
Perché per due secoli la questione ambientale è stata da loro ignorata? Il solo grande economista che ha richiamato l’attenzione sulla prospettiva della scarsità è stato Malthus, vivacemente contestato e confutato. Altri eretici sono stati semplicemente ignorati (si veda la rassegna puntuale di Juan Martínez Alier, Economia ecologica). Sorprende questa disattenzione proprio nel periodo nel quale fioriva la scienza economica. Possiamo spiegarla in due modi. Il primo è il desiderio degli economisti successivi alla generazione dei grandi classici di costituire la scienza economica in una struttura concettuale autonoma ed esatta, simile alla fisica (di allora!) e per quanto possibile formalizzata in termini matematici: il che tendeva a isolarla dalle scienze sociali e dalla biologia, malgrado le raccomandazioni di Alfred Marshall.
L’altra spiegazione è meno scientifica e piú ideologica. Nell’economia capitalistica le risorse naturali sono affidate a una classe sociale, i capitalisti appunto, sulla base della proprietà privata e della mercificazione dei mezzi dei produzione. Il prezzo delle risorse non riguarda il valore d’uso perduto dall’intera comunità (e a chi si dovrebbe pagarlo?), ma un valore di scambio dei redditi che ci si aspetta di trarre dai loro prodotti venduti sul mercato, capitalizzati al netto dei costi di produzione e scontati dal tempo. Ecco il paradosso di una scienza basata sul concetto di scarsità, che ignora totalmente la scarsità suprema, quella ecologica; e che, mentre insegna ai suoi studenti a distinguere il reddito dal capitale, ignora che la sua economia vive sul capitale come se fosse un reddito.
Una critica devastante delle premesse epistemologiche della teoria tradizionale è stata svolta, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, da Nicola Georgescu Rogen, l’economista eretico che tuttavia Paul Samuelson definí «il principe degli economisti». Un principe senza corona, però, dal momento che gli fu negato un Nobel strameritato.
Georgescu Rogen denunciò in termini drastici la fallacia di una scienza che pretendeva di chiudersi entro un sistema pendolare autonomo oscillante tra produzione e consumo. L’economia, in realtà, è inserita nel piú vasto contesto della biologia, come affermava Marshall (che però non sviluppò questa intuizione) non attraverso relaz...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il capitalismo ha i secoli contati
  3. PARTE PRIMA - Il mercato fuori dalle mura. Prove d’orchestra
  4. PARTE SECONDA - Il mercato entro le mura. Le egemonie dell’Occidente
  5. PARTE TERZA - Il mercato senza le mura. La mercatizzazione globale
  6. Nota bibliografica
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright