Nell’aria aleggerà per tutto il tempo un profumo di caldarroste e di altre buone cose, dal momento che stiamo narrando racconti d’inverno – anzi, a essere sinceri, storie di fantasmi – intorno al fuoco di Natale; e nessuno si muove, se non per spingersi un poco piú vicino alle braci. Ma questo non ha importanza. Eccoci arrivati alla casa, una vecchia casa piena di grandi camini dove la legna arde su antichi alari, mentre dalle pareti rivestite di pannelli in noce ritratti sinistri (nonché legati, almeno alcuni, a leggende sinistre) guardano in giú con accigliata diffidenza. Chi vi parla è un nobiluomo di mezza età. Facciamo onore, con il padrone e la padrona di casa e i loro ospiti – è Natale, e la vecchia casa è piena di gente –, a una cena abbondante, poi andiamo a coricarci. La nostra stanza è vecchissima, le pareti sono ricoperte di arazzi. Quel ritratto del Cavaliere verde, sopra il caminetto, non ci va a genio. Ci sono grosse travi nere sul soffitto, e un grosso fusto di letto nero, sostenuto alla base da due grosse figure nere che paiono venute apposta per riceverci staccandosi da due tombe della vecchia chiesa baronale nel parco. Ma non siamo superstiziosi, e quindi non ci facciamo caso. Insomma! congediamo il cameriere, chiudiamo a chiave la porta e ci sediamo davanti al fuoco, riflettendo su tante cose. Alla fine andiamo a letto. Insomma! non riusciamo a dormire. Ci giriamo e ci rigiriamo, e non riusciamo a dormire. Nel focolare i tizzoni ardono a tutto spiano, e dànno alla stanza un che di spettrale. Non possiamo trattenerci dallo sbirciare, facendo capolino dal copriletto, le due figure nere e il Cavaliere del ritratto – quel Cavaliere verde dall’aria malvagia. Nella luce guizzante sembra avanzare e indietreggiare: il che, sebbene non siamo assolutamente nobiluomini superstiziosi, non è piacevole. Insomma! diventiamo nervosi, sempre piú nervosi. Diciamo: – È sciocco, ma non riusciamo proprio a sopportarlo; fingeremo di sentirci male, e busseremo alla porta di qualcuno –. Insomma! siamo lí lí per farlo, quand’ecco che la porta chiusa a chiave si spalanca ed entra una giovane donna, mortalmente pallida e dai lunghi capelli biondi, che scivola silenziosamente accanto al fuoco e si siede sulla seggiola che avevamo lasciato lí, stringendo fra loro le mani. In quel momento ci accorgiamo che i suoi abiti sono bagnati. Abbiamo la lingua appiccicata al palato, e non riusciamo a parlare; tuttavia, la osserviamo con attenzione. Gli abiti sono bagnati, e i lunghi capelli sono intrisi di fango; è vestita alla moda di duecento anni fa, e dalla cintura le pende un mazzo di chiavi arrugginite. Insomma! lei è seduta lí, e noi non riusciamo nemmeno a perdere i sensi, tale è lo stato in cui ci troviamo. Poco dopo si alza e prova tutte le serrature della camera con le sue chiavi arrugginite, ma nessuna funziona; quindi fissa lo sguardo sul ritratto del Cavaliere verde e, con voce cupa e terribile, dice: – I cervi sanno bene chi è! – Poi torna a stringere forte le mani, passa accanto al letto, esce dalla porta. Ci infiliamo in fretta e furia la veste da camera, afferriamo le pistole (ce le portiamo sempre in viaggio), e ci apprestiamo a seguirla, quando scopriamo che la porta è chiusa a chiave. Giriamo la chiave e guardiamo fuori nel buio della galleria: nessuno. Vaghiamo alla ricerca del nostro cameriere. Niente da fare. Camminiamo su e giú per la galleria fino allo spuntar del giorno, quindi torniamo nella stanza deserta, ci addormentiamo e finalmente veniamo svegliati dal nostro cameriere (mai che un fantasma perseguiti lui!) e dal sole splendente. Insomma! facciamo malamente colazione, e tutti i presenti notano che abbiamo una brutta cera. Visitiamo poi la casa in compagnia del nostro ospite, e quando infine lo conduciamo dinanzi al ritratto del Cavaliere verde, tutta la storia viene fuori. Costui si era fatto gioco di una giovane governante, un tempo al servizio di quella famiglia, e famosa per la sua bellezza, e lei aveva finito per gettarsi in uno stagno; il suo corpo era stato scoperto molto tempo dopo, perché i cervi si rifiutavano di abbeverarsi in quell’acqua. Da allora si era mormorato che la donna, a mezzanotte, si aggirasse per la casa (recandosi però di preferenza nella stanza dove il Cavaliere verde era solito coricarsi) e provasse con le sue chiavi arrugginite le vecchie serrature. Insomma! raccontiamo al nostro ospite quel che abbiamo visto; un’ombra gli scende sul volto, ed egli ci supplica di mettere tutto a tacere; cosí avviene. Ma è la pura verità; e prima di morire (siamo ormai morti) l’abbiamo riferita a molte persone fidate.
Non scompariranno mai le vecchie case con le gallerie risonanti di echi, le tristi camere da letto di rappresentanza, le ali infestate dai fantasmi, chiuse da tanti anni, nelle quali eravamo liberi di scorrazzare, con piacevoli brividi lungo la schiena, e di incontrare tutti gli spettri che volevamo; i quali però (forse è il caso di precisarlo) si riducevano a pochissimi tipi o classi fondamentali: poiché i fantasmi mancano di originalità e «passeggiano» per sentieri battuti. Avviene cosí che in una certa stanza di una certa dimora di campagna, dove un certo Lord, Baronetto, Cavaliere o Gentiluomo scellerato si è ucciso sparandosi un colpo di pistola, ci siano certe assi dell’impiantito da cui il sangue si rifiuta di sparire. Puoi raschiare e raschiare, come ha fatto l’attuale proprietario, o piallare e piallare come fece suo padre, o strofinare e strofinare come il nonno, o scrostare e scrostare con potenti corrosivi come il bisnonno, ma il sangue sarà sempre lí: né piú rosso né piú sbiadito, né in maggiore né in minor quantità, sempre esattamente uguale a se stesso. Avviene cosí che in una talaltra casa ci sia una porta stregata che non resterà mai aperta, o una che non resterà mai chiusa; o il suono stregato di un arcolaio o di un martello, o un rumore di passi, o un grido, o un sospiro, o uno scalpitio di cavalli, o uno strepito di catene. Oppure c’è un orologio sulla torre che a mezzanotte batte tredici rintocchi quando il capofamiglia è in punto di morte; o una carrozza nera, fosca e immota, che in quegli istanti qualcuno vede sempre ferma in attesa accanto ai cancelli delle scuderie. E accadde cosí che Lady Mary si recò in visita in una grande casa isolata nelle Highlands scozzesi, e, stanca per il lungo viaggio, andò a dormire presto, e la mattina dopo disse candidamente al tavolo della colazione: – Che bizzarria dare una festa cosí tardi, la notte scorsa, in un posto cosí fuori mano, e non dirmelo prima che andassi a letto! – Al che tutti chiesero a Lady Mary cosa intendesse dire, e lei rispose: – Ma come! se per tutta la notte le carrozze non hanno mai smesso di andare e venire per la spianata sotto la mia finestra! – A quelle parole il padrone di casa impallidí, altrettanto fece sua moglie, e Charles Macdoodle di Macdoodle invitò con un cenno Lady Mary a non aggiungere altro, e tutti rimasero in silenzio. Dopo colazione, Charles Macdoodle informò Lady Mary che secondo la tradizione di quella famiglia lo strepito delle carrozze era presagio di morte. E cosí fu, poiché due mesi piú tardi la padrona di casa spirò. E Lady Mary, che era damigella d’onore a corte, narrava spesso questa storia alla vecchia regina Carlotta; e ogni volta il vecchio re diceva: – Eh, eh? Come, come? Fantasmi, fantasmi? No, questo no, questo no! – E non la smetteva piú fino al momento di andare a dormire.
Accadde altresí che l’amico di un tale, uno che quasi tutti conosciamo, da giovane si legò a un compagno di università, con il quale strinse il patto che, se allo spirito fosse stato concesso di tornare sulla terra dopo la separazione dal corpo, quello dei due che fosse morto per primo sarebbe dovuto riapparire all’altro. Col passare del tempo, il nostro amico dimenticò questo impegno: nella vita, infatti, i due giovani avevano percorso strade assai diverse. Ma una notte, molti anni dopo, il nostro amico, che allora si trovava nel Nord dell’Inghilterra e aveva preso alloggio per la notte in una locanda nella brughiera dello Yorkshire, spinse per caso lo sguardo poco oltre il letto, e lí, al chiaro di luna, appoggiato a uno scrittoio vicino alla finestra e con gli occhi fissi su di lui, vide il suo vecchio compagno di università! L’apparizione, interpellata con tutta la solennità del caso, replicò in una specie di sussurro, ma ben percettibile: – Non ti avvicinare. Io sono morto. Sono qui per onorare la promessa. Provengo da un altro mondo, ma non posso svelarne i segreti! – Poi la sagoma impallidí, si dissolse – per cosí dire – nel chiaro di luna, e svaní.
Ci fu poi la storia della figlia del primo inquilino della pittoresca casa elisabettiana, tanto famosa dalle nostre parti. Non ne avete mai sentito parlare? No? Diamine: costei, una bellissima fanciulla di appena diciassette anni, una sera d’estate uscí di casa al crepuscolo per andare a raccogliere fiori in giardino; poco dopo rientrò correndo nell’atrio, terrorizzata, e disse al padre: – Oh, caro padre, ho incontrato me stessa! – Lui la prese tra le braccia e le disse che si trattava solo di una fantasia; ma lei insisté: – Oh, no! Ho incontrato me stessa nel viale grande; ero pallida e coglievo fiori appassiti, ho voltato la testa e li ho raccolti! – Quella notte la fanciulla morí; e il quadro iniziato per raccontare la sua storia non fu mai terminato, e ancora oggi, dicono, si trova da qualche parte in casa, rivolto contro il muro.
Si narra ancora dello zio della moglie di mio fratello, che stava tornando a casa a cavallo in un tiepido tramonto quando, su un viottolo erboso nei pressi della sua residenza, vide un uomo che gli si parava di fronte, in piedi, al centro esatto dell’angusto sentiero. «Chissà perché si è fermato proprio lí, quel tale con il mantello... – pensò. – Vuole forse che lo travolga?» Ma la figura non si mosse. Fu colto allora, davanti a quell’immobilità, da una strana sensazione, ma si limitò a rallentare il trotto e avanzò. Quando fu tanto vicino da toccare quasi la figura con la staffa, il cavallo si impennò e quella scivolò sul margine del viottolo con un movimento strano, che non sembrava appartenere a questa terra – a ritroso, e apparentemente senza usare i piedi –, e quindi scomparve. Lo zio della moglie di mio fratello esclamò: – Santo cielo! Ma è mio cugino Harry di Bombay! – Spronò il cavallo, che subito si ricoprí di sudore, e, interrogandosi sulle ragioni di un cosí bizzarro comportamento, si precipitò verso casa, fermandosi davanti all’edificio. Lí vide la stessa figura varcare la soglia delle alte porte-finestre che si affacciavano sul giardino. Lanciò le redini a un domestico, e si affrettò a seguirla. Sua sorella sedeva lí, sola.
– Alice, dov’è mio cugino Harry?
– Tuo cugino Harry, John?
– Sí, quello che sta a Bombay. L’ho incontrato poco fa nel viottolo, e proprio adesso l’ho visto entrare qui.
Nessuno aveva veduto anima viva. Esattamente in quell’istante, però, come si venne a sapere in seguito, il cugino in questione moriva in India.
Un’altra storia è quella dell’anziana signorina, una donna piena di buon senso, che morí a novantanove anni, serbando intatta la lucidità sino alla fine. Lei vide davvero l’Orfanello. Questa vicenda è stata spesso raccontata in modo impreciso, ma la versione autentica – si tratta infatti di una storia che appartiene alla nostra famiglia, cui l’anziana signorina era legata – è la seguente. La protagonista aveva all’incirca quarant’anni, ed era ancora una donna di bellezza non comune (l’uomo che amava era morto giovane, e per questo lei non si era mai sposata, sebbene avesse ricevuto molte profferte), quando andò a vivere in una residenza di campagna nel Kent che suo fratello, un mercante della Compagnia delle Indie, aveva acquistato di recente.
Correva voce che la proprietà fosse un tempo appartenuta al tutore di un fanciullo, che ne era anche l’erede piú prossimo, e si diceva che questi avesse ucciso il ragazzo, sottoponendolo a dure e crudeli vessazioni. Di tutto ciò la signorina non sapeva nulla. Qualcuno ha sostenuto che nella sua camera da letto ci fosse una gabbia in cui il tutore era solito rinchiudere il giovinetto. Niente di tutto questo. C’era solo un ripostiglio. Lei andò a coricarsi, non diede alcun segno di allarme durante la notte, e al mattino disse senza scomporsi alla cameriera, quando quella entrò: – Chi è quel bambino dall’aria infelice che per tutta la notte ha fatto capolino dal ripostiglio? – La cameriera rispose lanciando un grido stridulo, e abbandonò il campo in men che non si dica. La signorina rimase stupita; ma era una donna di notevole lucidità, per cui si vestí, scese a pianterreno e si appartò a tu per tu con il fratello. – Ebbene, Walter, – disse, – per tutta la notte sono stata disturbata da un bel ragazzino dall’aria infelice che ha continuato a far capolino da quel ripostiglio che non riesco ad aprire. È uno scherzo?
– Temo di no, Charlotte, – fu la risposta, – è la leggenda della casa. È l’Orfanello. Che cosa faceva?
– Apriva la porta pian piano, – rispose lei, – e faceva capolino. A volte avanzava di uno o due passi nella stanza. Allora lo chiamavo, lo invitavo a entrare, e lui si faceva piú piccolo, si metteva a tremare, sgattaiolava dentro un’altra volta, e chiudeva la porta.
– Quel ripostiglio, Charlotte, – disse il fratello, – non comunica con nessun’altra parte della casa, e la porta è inchiodata.
Era sicuramente vero, poiché ci vollero due falegnami e un’intera mattinata per aprirlo e poterlo cosí ispezionare. Solo allora lei si convinse di aver davvero visto l’Orfanello. Ma la parte raccapricciante e terribile della storia è che il fanciullo fu visto anche, in tempi successivi, da tre dei figli del fratello, i quali morirono tutti in tenera età. Ogni volta, dodici ore prima di cadere malato, ciascun bambino era tornato a casa in preda a grande eccitazione, e aveva detto: – Oh, mamma, ho giocato sotto quel certo noce, in quel tale prato, con uno strano ragazzo... un bel ragazzo dall’aria infelice, timidissimo, che mi ha fatto dei cenni! – Per loro fatale esperienza, i genitori non dubitarono che si trattasse dell’Orfanello, né del fatto che il destino del bambino da lui scelto come compagno di giochi fosse irrimediabilmente segnato.
Legione sono i castelli tedeschi, dove vegliamo in solitudine in attesa dello Spettro; dove veniamo accompagnati in una stanza resa relativamente gaia per il nostro arrivo; dove seguiamo con lo sguardo le ombre proiettate sulle pareti nude dal fuoco scoppiettante; dove ci sentiamo davvero soli quando il proprietario della locanda e la sua graziosa figlia si ritirano, dopo aver alimentato il focolare con una nuova provvista di legna e aver imbandito sul tavolo una ricca cena, composta di arrosto freddo di cappone, pane, uva e un fiasco di vino vecchio del Reno; dove le porte si richiudono sbattendo, l’una dopo l’altra, sui loro anditi segreti, come ripetuti scoppi di un lugubre tuono; e dove, alle ore piccole della notte, facciamo la conoscenza di tanti misteri soprannaturali. Legione sono gli studenti tedeschi ossessionati dai fantasmi, in compagnia dei quali ci trasciniamo ancor piú vicini al fuoco, mentre lo scolaretto nell’angolo sgrana tanto d’occhi e solleva il piccolo sgabello che si è scelto per sedile... e la porta accidentalmente si spalanca.
I.
La storia di Capitan Assassino.
Non sono molti i posti che, quando mi sento particolarmente ozioso, mi faccia piú piacere rivisitare di alcuni dove non sono mai stato. Infatti, la mia familiarità con questi luoghi è di cosí antica data, ed è maturata in un’intimità cosí affettuosa, che trovo un particolare interesse nell’assicurarmi che non siano cambiati.
Non sono stato mai sull’isola di Robinson Crusoe1; eppure ci ritorno di freque...