Era la stagione in cui le tarme depongono le uova, disse la moglie a Shimamura quando egli partí da Tokyo, e non doveva lasciare gli abiti all’aperto. Infatti c’erano tarme, nell’albergo. Cinque o sei grosse tarme del colore del grano erano attaccate alla elegante lanterna sotto il cornicione, e nel piccolo spogliatoio c’era una tarma dal corpo enorme rispetto alle ali.
Le finestre erano ancora schermate come in estate. Una tarma, immobile come fosse incollata, pendeva da una delle grate. Le antenne sporgevano come fili delicati, del colore della corteccia del cedro, e le ali, lunghe quanto un dito di donna, erano di un verde pallido, quasi diafano. Le catene dei monti in lontananza avevano già il rosso dell’autunno nel sole morente. Quell’unica macchia di verde pallido lo colpí stranamente come il colore della morte. Le ali anteriori e posteriori si sovrapponevano dando luogo a un verde piú scuro, e si muovevano leggermente come sottili frammenti di carta nel vento autunnale.
Incerto se la tarma fosse viva Shimamura si avvicinò alla finestra e strofinò il dito sulla parte interna della grata. La tarma non si mosse. La colpí con il pugno ed essa cadde come una foglia dall’albero, fluttuando leggermente a mezz’aria.
Nel boschetto di cedri di fronte, le libellule si dondolavano in sciami innumerevoli come steli di bocche di leone al vento.
Il fiume pareva scaturire dalle punte dei rami di cedro.
Egli pensò che non si sarebbe mai stancato di guardare quei fiori autunnali sparsi come una coperta d’argento sul fianco della montagna.
Una russa bianca, una venditrice ambulante, era seduta nell’ingresso quando egli uscí dal bagno. Le trovi perfino fra queste montagne… egli si avvicinò per darle un’occhiata piú da vicino.
Pareva sui quarant’anni. La faccia era rugosa e sporca, ma la pelle della gola e piú giú, dove s’intravedeva, era di un bianco puro, luminoso.
– Di dove siete? – chiese Shimamura.
– Di dove sono? di dove sono? – La donna parve imbarazzata a dare una risposta. Incominciò a metter via la sua merce, cosmetici e fermagli da capelli giapponesi del tipo piú dozzinale.
La sua veste pareva un lenzuolo sporco avvolto intorno al corpo, aveva quasi perduto l’aspetto dell’abito occidentale e aveva invece assunto qualcosa dello stile giapponese. Si caricò la merce sul dorso entro un grande fazzoletto di tipo giapponese. Malgrado questo portava però ancora scarpe di foggia straniera.
La moglie dell’albergatore stava accanto a Shimamura a guardare la russa che se ne andava. I due entrarono nell’office dove una donna robusta era seduta vicino al focolare volgendo la schiena verso di loro. Costei raccolse nella mano le lunghe gonne e si alzò per andarsene. Il suo mantello era completamente nero.
Era una geisha che Shimamura ricordava di aver visto con Komako in una fotografia pubblicitaria, ambedue sugli sci con i «calzoni da montagna» di cotone infilati sui kimono festivi. Era piuttosto avanti con gli anni, grassoccia e aveva un’espressione cordiale.
L’albergatore stava riscaldando sulla brace certe focacce spesse di una forma allungata.
– Ne volete una? – chiese a Shimamura. – Non potete dir di no. La geisha che avete visto le ha portate per festeggiare la fine del suo contratto.
– Parte?
– Sí.
– Ha l’aria di un’ottima persona.
– Era molto simpatica a tutti. Oggi fa il suo giro d’addio.
Shimamura soffiò sulla focaccia e diede un morso. La crosta dura, un po’ inacidita, aveva un odore di muffa.
Fuori della finestra il rosso luminoso dei kaki maturi era bagnato dal sole morente. Un rosso chiarore pareva raggiungere anche il bambú del gancio sul focolare.
– Guardate che lunghezza –. Shimamura osservava pieno di meraviglia il ripido sentiero lungo il quale alcune vecchie camminavano faticosamente portando sulla schiena fascine di erba autunnale. L’erba pareva alta il doppio delle donne, e le florescenze sulla punta erano lunghe e robuste.
– È erba kaya.
– Kaya, vero?
– Le ferrovie dello stato hanno costruito una specie di salone, se cosí si può chiamarlo, per la mostra pubblicitaria delle terme, e hanno il padiglione da tè con kaya di queste montagne. Qualcuno di Tokyo l’ha comprato cosí com’era.
– Kaya dunque, – ripeté Shimamura quasi tra sé. – C’è kaya quindi sulla montagna? Credevo fosse qualche strana specie di fiore.
La prima cosa che aveva colpito l’occhio di Shimamura mentre scendeva dal treno, era stata quella striscia di bianco argenteo. In alto sulla montagna la kaya si stendeva argentea nel sole, inondandola proprio come la luce del sole autunnale. Ah, eccomi arrivato, gridò Shimamura nel segreto del suo cuore mentre guardava in alto.
Ma i lunghi steli che egli vedeva ora parevano di tutt’altra natura dall’erba che lo aveva tanto commosso. I grandi fasci nascondevano le donne che li portavano, e frusciavano contro le pietre che fiancheggiavano il sentiero. E le piume erano lunghe e robuste.
Nella debole luce dello spogliatoio Shimamura vide la grossa tarma deporre le uova sulla lacca nera dell’armadio. Altre tarme continuavano a sbattere contro la lanterna sotto le grondaie.
C’era un continuo ronzio d’insetti autunnali che durava dal calar del sole.
Komako arrivò un po’ in ritardo.
Rimase a guardarlo dall’entrata.
– Perché siete venuto qui? perché siete venuto in un posto come questo?
– Sono venuto a vedervi.
– Non è vero. Non mi piace la gente di Tokyo perché mente sempre –. Si sedette e la sua voce si ammorbidí. – Non andrò mai piú ad accompagnare qualcuno al treno. Non posso descrivere quello che ho provato nel vedervi andar via.
– Questa volta andrò via senza dirvelo.
– No. Volevo dire che non verrò piú alla stazione.
– Cosa è accaduto di lui?
– È morto, naturalmente.
– Mentre mi stavate salutando?
– Non è questa la ragione. Non sapevo che fosse cosí odioso vedere qualcuno partire.
Shimamura annuí col capo.
– Dove eravate il 14 febbraio? Vi ho aspettato. Ma la prossima volta non farò la sciocchezza di credervi.
Il 14 febbraio era la «festa della caccia agli uccelli», una festa di bambini che esprimeva lo spirito piú autentico di questo paese della neve. Per dieci giorni prima della festa i bambini del villaggio pestavano la neve con stivali di paglia, poi, tagliata la neve ormai solida come una tavola, in cubi di mezzo metro, costruivano un palazzo di neve di circa sei metri di lato e alto piú di tre metri. Poiché qui il Nuovo Anno si celebrava ai primi di febbraio, le tradizionali corde di paglia erano ancora appese sulle soglie del villaggio. Il 14 i bambini raccoglievano le corde e le bruciavano in un rosso falò davanti al palazzo di neve. Si spingevano e si urtavano tra loro sul tetto e cantavano la canzone della caccia all’uccello, e poi, spente le luci, passavano la notte nel palazzo. All’alba del 15 si arrampicavano di nuovo sul tetto per cantare la canzone.
Quella era l’epoca in cui la neve era piú alta, e Shimamura aveva detto a Komako che sarebbe venuto per la festa.
– Ero a casa a febbraio. Avevo preso una vacanza. Ero sicura che sareste venuto qui il 14 ed ero ritornata per questa ragione. Avrei potuto restare a curarla piú a lungo se avessi saputo.
– Qualcuno era ammalato?
– L’insegnante di musica. Aveva preso la polmonite sulla costa. Il telegramma arrivò quando ero a casa e andai giú per curarla.
– È guarita?
– No.
– Mi spiace –. Le parole di Shimamura potevano essere sia un’espressione di simpatia, sia una scusa per la promessa non mantenuta.
Komako scosse la testa dolcemente e fece scorrere il fazzoletto sul tavolo. – Questo posto è pieno di insetti –. Uno sciame di minuscoli insetti alati caddero dal tavolo sul pavimento. Parecchie piccole tarme volavano intorno al lume. Tarme di tutte le specie punteggiavano la grata, fluttuando nella chiara luce lunare.
– Mi duole lo stomaco –. Komako poggiò le mani strettamente sull’obi e lasciò cadere la testa sul ginocchio di Shimamura. – Mi duole lo stomaco.
Insetti piú piccoli delle tarme si raccolsero sulla spessa cipria bianca che le copriva il collo. Alcuni di essi vi morirono mentre Shimamura li guardava.
La carne del collo e delle spalle di lei era piú florida di quanto lo fosse l’anno prima. Aveva ora venti anni, egli si disse.
Sentí qualcosa di caldo e di umido sulle ginocchia.
– «Komako, salite su nella Stanza delle Camelie», mi hanno detto nell’office con un’aria piena di sottintesi. Non mi piace il loro modo di fare. Ero andata a salutare Kikuyu ed ero pronta per un buon sonnellino quando qualcuno mi ha detto che c’era stata una chiamata da qui. Non mi sentivo di venire. Ho bevuto troppo ieri sera alla festa d’addio di Kikuyu. Giú nell’office non facevano che ridere e non volevano dirmi chi c’era qui. Ed eravate voi. È passato un anno. Voi siete di quelli che vengono solo una volta all’anno?
– Ho avuto una delle focacce della donna che è partita.
– Sí? – Komako si raddrizzò. La sua faccia era rossa dove aveva premuto contro il ginocchio di lui. Sembrava giovanissima. Aveva accompagnato la vecchia geisha Kikuyu alla seconda stazione della linea, disse.
– È molto triste. Eravamo abituate a lavorare insieme, ma ora ogni geisha se ne sta per conto suo. Il posto è cambiato. Nuove geishe sono arrivate e nessuna dà confidenza alle altre. Sarà triste senza Kikuyu. Era il centro di ogni cosa. E guadagnava piú di tutte nel nostro gruppo. La sua gente aveva molta cura di lei.
Kikuyu aveva terminato il contratto e andava a casa. Si sarebbe sposata o avrebbe aperto un albergo o un ristorante? Shimamura domandò.
– Kikuyu è un caso molto triste. Aveva fatto un cattivo matrimonio e poi era venuta qui –. Komako tacque per un po’, incerta se parlare e quanto. Guardò fuori verso il declivio sotto i campi digradanti a terrazze illuminati dalla luce lunare.
– Sapete quella casa nuova a metà strada sulla collina?
– Il ristorante; il Kikumura, si chiama cosí?
– Proprio quello. Doveva dirigerlo Kikuyu, ma all’ultimo momento ha cambiato idea. Ciò provocò grande scalpore. Un suo cliente costruí il posto per lei e lei invece, quando era pronta per incominciare, piantò in asso ogni cosa. Aveva trovato qualcuno che le piaceva e stava per sposarlo, ma egli fuggí e la lasciò. È questo che succede quando si perde la testa per un uomo? mi chiedo. Ormai non può tornare come prima al vecchio lavoro, non può accettare il ristorante dopo averlo rifiutato, e si vergogna di rimanere qui dopo tutto quello che è successo. Ormai non le restava che partire e ricominciare in qualche altro luogo. Mi rattrista molto il pensiero di Kikuyu. C’era tanta gente di mezzo… ma certo non possiamo conoscere esattamente tutti i particolari.
– Uomini? Quanti? Cinque o di piú?
– Vorrei saperlo anch’io –. Komako rise leggermente e si girò. – Kikuyu era debole. Una debole creatura.
– Forse per lei non c’era niente altro da fare.
– Ma non è sempre cosí? Non si può perdere la testa per ogni uomo che ci piace –. Gli occhi rivolti al pavimento ella si lisciava i capelli con il fermaglio, con aria meditabonda: – Non è stato facile vederla partire.
– Cosa ne è stato del ristorante?
– Lo ha rilevato la moglie dell’uomo che l’ha costruito.
– Una situazione interessante. La moglie che dirige il ri...