Ringrazio per i contributi preziosi Giulia Bissaca, Massimo Franco, Mario Mattioda, Rita Melotti, Alberto Mingardi, Luca Savarino. Un grazie speciale a Giovanni Sabbatucci per aver posto mano alla «matita rossa»; ad Andrea Romano per avermi incoraggiato con la sua passione politica.
Tutte le epigrafi sono tratte da opere ambientate nella Germania dell’epoca di Lutero o in quella della guerra dei Trent’anni: Michael Kohlhaas di Friedrich von Kleist, Wallenstein di Friedrich Schiller, Friedenstag di Joseph Gregor, Madre Coraggio di Bertolt Brecht. Ringrazio Giorgio Pestelli per avermele segnalate.
Concluse affermando che in un caso cosí straordinario non bisognava farsi scrupolo di entrare in trattative con un suddito in armi; che questi in effetti, per la condotta tenuta nei suoi riguardi, si era trovato in un certo senso estromesso dalla comunità statale; e che insomma per venire a capo della faccenda bisognava considerarlo non tanto come un ribelle sollevatosi contro il trono, quanto come una potenza straniera calata nel paese.
HEINRICH VON KLEISTa
1. La questione televisiva.
Nel caso delle trasmissioni radiotelevisive, di fronte alle richieste di spazi di mercato da parte degli operatori privati, i governi europei reagirono in modi diversi da quelli adottati in altri settori industriali. La risposta non fu la privatizzazione, che non si realizzò in alcun paese d’Europa, ma una parziale liberalizzazione, una divisione di campo. Modi, gradi, percorsi attraverso i quali venne attuata: in questo consiste la questione televisiva.
Negli Stati Uniti le trasmissioni radio, prima, e televisive, poi, furono gestite da privati, e finanziate dalla pubblicità. In Europa invece, appena superata la fase sperimentale, quando si passò al servizio regolare, esse furono affidate a imprese pubbliche.
A spiegare questa differenza ci sono ragioni strutturali, relative al mercato dei beni di grande consumo: quello europeo, meno sviluppato, frammentato in diverse lingue e diverse identità nazionali, rendeva piú problematico il ritorno degli investimenti ingenti, soprattutto per la televisione. L’intervento dello Stato appariva giustificato per fornire le esternalità mancanti, le caratteristiche di non escludibilità e di assenza di rivalità inducevano a pensare che radio e televisioni avessero la natura di beni pubblici. Anche le aziende produttrici di apparecchiature per ricevere le trasmissioni guardavano con favore a una presenza pubblica che avrebbe accelerato la formazione della domanda.
Ci sono anche ragioni politiche: in un mondo che deve fare i conti, prima con i postumi della guerra, poi con la grande depressione, un mezzo di comunicazione serve a governi e governati. In America già nel 1924 la radio trasmette le convention dei democratici e dei repubblicani; AT&T collega ventiquattro stazioni in diretta per l’insediamento del presidente Coolidge; quattro anni dopo Hoover usa intensamente la radio come mezzo principale di propaganda, rivolgendosi a quaranta milioni di americani1. In Europa le dittature si accorgono presto del potere della radio, e questo induce anche i governi degli altri paesi a tenere lo strumento nelle proprie mani. Poi viene la guerra.
Solo con l’avvento della televisione, e solo negli anni Settanta, quando in Europa si sviluppa il mercato dei prodotti di largo consumo che incomincia a trascendere i confini nazionali, nasce il problema di non escludere l’imprenditoria privata dal settore televisivo.
2. La BBC: il servizio pubblico come monopolio e missione.
È singolare il modo in cui una questione di natura cosí generale venne influenzata da una singola persona, e piú per le sue convinzioni morali che per le sue realizzazioni imprenditoriali: John Reith, direttore generale della BBC dal 1922 al 1938. Fu lui a teorizzare, nel suo Broadcast over Britain 2 del 1924, le caratteristiche che doveva possedere la radio pubblica: avere motivazione di pubblico servizio e non commerciale; offrire copertura nazionale; dipendere da un controllo e da una gestione centralizzata e non da sedi locali; sviluppare alti standard qualitativi di programmazione. L’ispirazione etica di Reith, il suo rigore morale, la sua concezione della qualità come dovere, da un lato fissarono i canoni di come dovesse essere la televisione pubblica, ma – cosa assai piú notevole – li fecero accettare sia da chi creava i programmi, sia da chi li ascoltava. Il suo capolavoro fu di fare di un’emittente televisiva un’istituzione, che godeva della stessa reputazione della Casa reale e dello stesso affetto delle sue anziane regine. È per lui che la BBC diventò il modello in tutta Europa. Con il singolare risultato che fu proprio l’Inghilterra a registrare il maggiore successo nella promozione dei valori culturali nazionali, che la Francia sbandiera e diffonde e che l’Europa protegge e sussidia. Ancora oggi, e soprattutto in Italia, non c’è praticamente discussione in cui si parli di servizio pubblico nella quale il modello BBC non venga evocato. E ciò in relazione a criteri che vennero per la prima volta definiti da Reith, e che restano, quasi un secolo dopo, i paradigmi su cui si fonda il concetto stesso di servizio pubblico. Una sorta di platonica idea che è opportuno, all’inizio di questo percorso, esaminare in qualche dettaglio.
È già un fatto singolare che, in un paese orgogliosamente geloso della libertà di parola, la BBC sia riuscita a realizzare un monopolio su un intero mezzo di comunicazione, osserva LeMahieu3. Negli anni Venti esisteva una generale tendenza alla concentrazione della proprietà, nella stampa, nei film, nelle case discografiche; ma solo alla BBC riuscí di acquistare, senza apparente resistenza, una posizione di monopolio che in altri casi avrebbe fatto gridare allo scandalo. Solo per questo precedente, nel mondo della televisione finí per sembrare naturale ciò che resterà proibito per tutti gli altri mezzi di comunicazione. E con una stravagante giustificazione: come nei settori privati il monopolio consente ai produttori di alzare i prezzi, cosí nel servizio pubblico il monopolio avrebbe consentito di elevare gli standard culturali.
La definizione di «servizio pubblico» è consegnata nella testimonianza di Reith davanti alla Commissione Sykes che nel 1923 diede alla BBC il suo primo statuto. Autorità e controllo sono i due cardini, su cui ruota la sua costruzione intellettuale; per lui la cultura era una forma di automiglioramento, un mezzo di disciplina personale e sociale. Alla diffidenza delle classi medie vittoriane per il frivolo, lo spontaneo, il sensuale, Reith aggiungeva quella per i divertimenti che non avessero uno scopo educativo. Nella sua definizione di servizio pubblico c’è moralismo, c’è soprattutto paternalismo, un’autorità che nega il principio su cui si basa la cultura commerciale, e cioè quello di soddisfare una richiesta pubblica. In contrapposizione con i produttori commerciali, che servono il proprio interesse identificandosi con la loro audience, e che vedono nella vendita la misura del successo, Reith negava la popolarità come indice di valore, sosteneva che solo un monopolio condotto da esperti avrebbe assicurato uno standard elevato.
Nella visione di Reith vi era una corrispondenza tra il sistema dei mezzi di comunicazione e le esigenze dell’uomo medio, quali egli si raffigurava e riteneva di dover insieme soddisfare e indirizzare. Le implicazioni di una siffatta visione durano ancora oggi e anche in altri media: spiegano, secondo Peppino Ortoleva, perché il giornale, come «insieme organizzato di racconti relativo a eventi di varia natura, sia sopravissuto ai cambiamenti tecnologici e mediatici del Novecento, […] e perché continuiamo a percepire la notizia come oggetto di una domanda sociale non solo generalizzata, ma “spontanea”»5.
Ma il monopolio, se anche riesce a risolvere il problema della selezione dei programmi dal lato dell’offerta, ha difficoltà quasi insuperabili a soddisfarlo dal lato della domanda. Il paternalismo non può ignorare il problema dell’audience. Se Reith poté tenere la posizione, fu perché gli riuscí di guadagnarsi il consenso di segmenti chiave dell’opinione pubblica. E di numerosi interessi. Infatti il controllo monopolistico pubblico serviva, a ben vedere, gli interessi di tutti i gruppi che avevano a che fare con la comunicazione di massa: con la sola eccezione degli ascoltatori, come qualcuno fece osservare cinicamente. I fabbricanti di apparecchiature vi vedevano un modo di tener fuori la concorrenza estera. I musicisti e cantanti, che all’epoca temevano che la radio facesse crollare i ricavi da copyright, erano ovviamente dalla parte di un’azienda cosí poco corriva con i gusti degli ascoltatori. La stampa, rassicurata che il modello BBC si fondasse proprio sul fatto di non raccogliere pubblicità, si persuase presto che il monopolio non avrebbe rimpiazzato i giornali come prima fonte di informazione.
Sorprendente come, per puntellare il monopolio, si usino oggi gli stessi temi di quasi un secolo fa: quello tecnico, per cui le frequenze non sarebbero state sufficienti per sostenere in Gran Bretagna un sistema competitivo, ignorando le tante possibilità di realizzare un sistema pluralistico. Quello ideologico: da sinistra perché è uno dei maggiori esperimenti di socialismo che al mondo sia stato dato di osservare; e da destra perché paternalista e volto al perseguimento di un’alta rispettabilità sociale. Quello culturale, per cui era necessario resistere all’invasione del commercialismo americano, che avrebbe modificato i gusti, i modi di parlare e di pensare, e perfino, a causa della sua esasperata competizione, i rapporti sociali.
Conta anche il fatto che l’Inghilterra vinse la guerra contro nazismo e fascismo. Dalle antenne inglesi uscirono le voci che mobilitarono le volontà di resistere alle dittature, sia in Inghilterra sia in Europa. I quattro colpi di timpano che annunciavano i notiziari di Radio Londra, ascoltati di nascosto nell’Europa occupata, sovente con gravi pericoli, furono la fonte di informazioni da contrapporre alla propaganda nazifascista, furono soprattutto la testimonianza che c’era un mondo libero che resisteva, mantennero viva anche in giorni difficili la speranza ...