Dono e perdono
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Dono e perdono

  1. 104 pagine
  2. Italian
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Dono e perdono

Informazioni su questo libro

Il tema del dono è uno tra i piú presenti nel grande cantiere della ricerca e della riflessione contemporanea, ma in una società dominata dal mercato e sempre piú individualista c'è ancora posto per l'arte del donare come atto autentico di umanizzazione? Oggi, poi, persino il perdono, atto che attira una curiosità mediatica morbosa e poco rispettosa, rischia di essere banalizzato. Chi è arrivato a perdonare sa però che questo è un cammino lungo e faticoso, compiuto a caro prezzo poiché deve fare i conti con il problema del male. Di fronte a esso le differenti vie religiose percorse dall'umanità hanno percepito che l'unica cosa seria che si può fare è «soffrire insieme», praticare la compassione. Essa, anche secondo la rivelazione ebraico-cristiana, è l'unica risposta sensata che l'uomo può dare davanti alla sofferenza. Questo sentimento, questa passione, da assumere in primo luogo nelle relazioni interpersonali, non si può limitare a tale dimensione, ma deve aprire una strada a livello sociale e anche politico ed economico.

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Informazioni

La compassione

Esiste un’autorità che viene riconosciuta in tutte le culture e in tutte le religioni e che non è stata mai negata da nessuna critica al principio di autorità: l’autorità di coloro che soffrono. È quest’autorità riconosciuta che fa muovere a compassione.
JOHANN BAPTIST METZ

Introduzione.

Ritengo molto significativo che un termine come «compassione», utilizzato fino a poco tempo fa per indicare un sentimento verso persone in situazione di sofferenza, ma usato in modo distorto e di conseguenza non accettabile – in espressioni come: «Non voglio fare compassione a nessuno!» –, recentemente sia invece tornato in uso con il suo valore semantico e in tutta la sua dignità. Compatire non è piú inteso come un atteggiamento esercitato dall’alto verso il basso, con superiorità, come un guardare l’altro con sufficienza «avendo pietà di lui» e neppure come una manifestazione di debolezza, ma significa «patire, soffrire con», secondo la sua etimologia latina (cum + patior). In tal modo la compassione è tornata a designare un movimento con il quale andiamo dove c’è il male e condividiamo con il sofferente la sua situazione, partecipando al male altrui: raggiunti dalla sofferenza di un altro, sentiamo il dolore sempre come suo, fino a sentirlo con lui come nostro. Il dolore dell’altro diventa il mio dolore.
Parlare di dolore ci riconduce al problema del male: non sempre siamo cosí vigilanti da vederlo in tutta la sua realtà, ma il male ci attende al varco, prima o poi nella nostra vita si manifesta. Noi esseri umani siamo, per cosí dire, affascinati dal problema dell’origine del male. Dalla notte dei tempi risuona la domanda: Unde malum? «Da dove viene il male?» (cfr., per esempio, Agostino, Confessioni VII,5,7: «Dov’è il male, da dove e per dove è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? Da dove viene dunque il male?») Operazione speculativa legittima ma che approda sempre e comunque all’enigma: non esistono risposte convincenti. In verità un’altra è la domanda che dovremmo porci: cosa fare contro il male?
È a questo interrogativo che gli uomini hanno cercato di dare risposte concrete, operative. Le differenti vie religiose percorse dall’umanità hanno percepito che l’unica cosa seria che si può fare contro il male è praticare la compassione, il soffrire insieme. La compassione non è la soluzione alla sofferenza ma è l’unica risposta sensata che l’uomo può dare di fronte al male. Si tratta di soffrire a causa della sofferenza di un altro, di accettare che l’altro con la sua sofferenza faccia soffrire anche me. E si faccia attenzione: questo sentimento, questa passione, da assumere in primo luogo nelle relazioni interpersonali, non si può limitare a tale dimensione, ma deve aprire una strada a livello sociale e anche politico. Tutto inizia in un rapporto faccia a faccia, ma la dinamica della vita porta a sentire la compassione come un problema sociale, di cui può e dovrebbe essere investita la polis.
Va anche detto, a onor del vero, che oggi la compassione è diventata particolarmente difficile: forse questo spiega la crescente attenzione a essa dedicata da parte di filosofi e teologi. Ma perché questa difficoltà? Perché il nostro contesto culturale ha una possibilità di percezione del male molto diversa dal passato: si pensi anche solo alla rimozione che le nostre società sanno fare della morte e, simultaneamente, alla spettacolarizzazione e all’esibizione della sofferenza, addirittura dell’orrido, del macabro in diretta, attraverso i mezzi di comunicazione. Da un lato ci si abitua alla visione del male, tenendolo di fatto lontano attraverso la mediazione del mezzo di comunicazione; dall’altro si soffoca, riducendola a un’emozione morbosa, quella che dovrebbe invece essere una chiamata, una domanda a cui rispondere. I media diventano in realtà barriere, muri tra noi e il dolore altrui, e ci condannano sempre di piú a un quotidiano di solitudine e di isolamento. Abbiamo paradossalmente difficoltà a diventare prossimi dell’altro: diventiamo con facilità prossimi virtualmente, attraverso Internet, e moltiplichiamo la nostra prossimità virtuale con contatti «liquidi», inversamente proporzionali alle relazioni concrete, «solide». E cosí la morte della prossimità è vissuta come negazione o «morte del prossimo», come ha acutamente compreso il filosofo e psicoanalista Luigi Zoja.
In merito a questa rinnovata attenzione alla compassione, non va neppure minimizzato o tralasciato quanto elaborato da altre vie religiose come per esempio il buddhismo, nel quale la compassione (in sanscrito karuna), fondata sulla percezione dell’interdipendenza tra tutti i viventi, appare la piú grande virtú e l’apice della vita interiore. A ragione Paul Ricœur vedeva nella compassione il punto di convergenza per eccellenza tra cristianesimo e buddhismo, e su di essa questo grande filosofo ci ha offerto riflessioni decisive, insieme a quelle di altri pensatori quali Vladimir Jankélévitch, Henri J. M. Nouwen, Johann Baptist Metz, Xavier Thévenot, André Comte-Sponville, Emmanuel Lévinas, Lytta Basset.
Ma prima di entrare in medias res mi sembra necessario fare alcune precisazioni. Se compatire significa «soffrire-con», allora «sim-patia» (dal greco sympátheia, parola composta da sýn + páscho, «patire insieme») è un termine apparentato a quello che ci interessa piú da vicino: esso dice con una radice greca ciò che il termine «compassione» esprime a partire dalla lingua latina. Tuttavia nella comprensione odierna la simpatia resta nella sfera dei sentimenti, mentre la compassione va oltre, riguardando atteggiamenti e comportamenti, fino a diventare un habitus e a essere ritenuta una vera e propria virtú. E se la simpatia indica una partecipazione affettiva ai sentimenti degli altri – un sentire nella stessa maniera, un avere uguali sentimenti –, la compassione è simpatia nel senso forte, ma per la sofferenza altrui: è condivisione della sofferenza dell’altro. In questo senso, la compassione è il contrario dell’insensibilità, dell’egoismo, del godere del male altrui. Nel suo L’anticristo Friedrich Nietzsche la condanna:
Il cristianesimo è chiamato la religione della compassione. La compassione sta in contrasto con gli affetti tonici che elevano l’energia del sentimento vitale: essa agisce in senso depressivo. Si perde forza quando si ha compassione. Si è osato chiamare la compassione una virtú, ma in ogni morale aristocratica essa è considerata una debolezza.
Questo giudizio in realtà intriga noi cristiani, spingendoci a chiederci in che cosa consista in profondità la compassione. Ovvero, perché ci ostiniamo a credere e a ripetere che senza compassione non c’è vera comunione con gli altri, non c’è solidarietà con tutti i viventi? Claude Lévi-Strauss la considera come il fondamento della sapienza universale, e oggi l’umanesimo cosmico appare umanesimo della compassione: senza la compassione c’è la barbarie, la dissoluzione del cosmo.
Un’altra precisazione doverosa riguarda il termine «misericordia», apparentato a «compassione». Il Dio rivelatosi a Mosè è il Signore rachum we-channun (Es 34,6; Sal 86,15; 103,8), cioè «misericordioso e compassionevole», oppure channun we-rachum (Sal 111,4; 145,8-9; 2Cr 30,9; Gn 4,2), cioè «compassionevole e misericordioso». E nel Corano i primi dei novantanove nomi di Allah sono Al-Rachman e Al-Rachim, due aggettivi tratti dalla medesima radice r-ch-m, per rinforzare ed esprimere al massimo grado il suo essere «il misericordiosissimo», se cosí si può dire.
Misericordia è un sentimento che esprime un forte coinvolgimento affettivo, una grande carica passionale che nasce dal grembo materno (rechem), dalle viscere (rachamim). Sentimento insieme materno e paterno, amore viscerale, la misericordia – termine calco dal latino – è un sentimento del cuore per chi è nella sofferenza, è commozione delle viscere. Può essere distinta dalla compassione? Il sentimento è quasi lo stesso, ma nella parola «misericordia» l’accento cade sulla fonte del sentimento, il cuore (etimologicamente: porre la miseria dell’altro nel proprio cuore), mentre in «compassione» l’accento cade sull’atteggiamento, sulla condivisione della sofferenza. In ogni caso, si può dire che compatire e fare misericordia siano quasi sinonimi, come mostra la traduzione latina dei due aggettivi ebraici presente (quasi sempre) nella Vulgata: miserator et misericors (o viceversa). Va infine messo in rilievo – e ci torneremo piú avanti – come, per esprimere la costellazione semantica di cui stiamo trattando, nel Nuovo Testamento appaia un termine utilizzato assai raramente nell’Antico Testamento greco: splánchna/splanchnízomai, che letteralmente significa «viscere / essere preso da viscerale compassione».
L’uomo può dunque chiudere le viscere in una philautía che lo disumanizza, oppure, al contrario, può aprire le sue viscere per soffrire e gioire con l’altro, per vivere autenticamente, perché non si vive mai senza l’altro!

1. La compassione di Dio nell’Antico Testamento.

Quando Dio risponde al desiderio di Mosè di vedere il suo volto (cfr. Es 33,18-23), non mostrandosi ma rivelando il proprio Nome, grida: «Il Signore (JHWH), il Signore (JHWH), Dio (El) misericordioso e compassionevole (rachum we-channun)» (Es 34,6). Dunque il Nome di Dio è il tetragramma JHWH, spiegato con il famoso Ehjeh asher ehjeh (Es 3,14), «Io sono chi sono», che potrebbe anche significare: «io amo appassionatamente chi amo». Questa ipotesi, avanzata piú di mezzo secolo fa su base linguistica dal grande arabista Salomon D. Goitein, potrebbe essere rafforzata proprio dal passo di Es 34,6: qui infatti i primi due attributi del Nome di Dio, paralleli alla duplice ripetizione del tetragramma, potrebbero essere resi «amante con misericordia, amante con compassione».
Come si accennava poc’anzi, «misericordioso e compassionevole» sono due attributi affini, una sorta di endiadi che ritorna piú volte nelle Scritture accanto al Nome di Dio: il nostro Dio è un Dio misericordioso e compassionevole, dunque un Dio con noi e per noi, ‘Immanu-El (Is 7,14). È un Dio che si fa a noi vicino, in un movimento di ék-stasis che è la sua stessa vita, cioè l’amore. Non a caso l’ultima definizione di Dio nel Nuovo Testamento, dopo la quale non ne sono possibili altre, è: «Dio è amore» (ho theòs agápe estín: 1Gv 4,8-16).
Ma noi vogliamo cogliere soprattutto la compassione di Dio, di cui le Scritture tentano di parlarci in modi umani, sempre inadeguati per i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il dono
  4. Il perdono
  5. La compassione
  6. Per andare oltre
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright