ALEXANDRE KOYRÉ
DAL MONDO DEL PRESSAPPOCO
ALL’UNIVERSO DELLA PRECISIONE
Introduzione e traduzione di Paola Zambelli
Einaudi
Le scoperte, le tecniche sempre piú potenti e sorprendenti, l’estensione straordinaria che esse hanno portato dei confini tradizionali dell’attività umana, sono una realtà di fatto ben nota a tutti i contemporanei degli astronauti: ma se l’esaltazione retorica di queste conquiste è divenuta un luogo comune, non si può dire che la riflessione filosofica e la meditazione storica vi si siano dedicate con altrettanta passione. Particolarmente l’Italia, se per un lato non è piú, da tempo, all’avanguardia della tecnica, molto raramente d’altronde vede la sua cultura interrogarsi sul grave problema dei rapporti fra progresso tecnico e livelli di vita, fra scoperte scientifiche e loro accettazione (o rifiuto) sul terreno della pratica e del regime di vita quotidiano, fra capacità degli intellettuali e iniziative dei politici.
Eppure piú d’una volta questi problemi si sono imposti nei fatti e sono stati riconosciuti dal pensiero critico: e essi sono alla base di tutta la discussione storica sulla magnifica fioritura della matematica e in genere della scienza greca, che appassí in modo sorprendente senza lasciar tracce né sul piano delle tecniche comunemente acquisite, né addirittura nel patrimonio culturale che la tradizione medievale ci tramandò. Gli storici del pensiero antico hanno avvertito il problema, fin dagli studi fondamentali e ormai remoti di Hermann Diels, di O. Neugebauer, di Abel Rey e di R. Mondolfo, ma solo fra le due guerre il problema è stato discusso e presentato in termini piú generali che miravano a investire l’attenzione di un pubblico non specialistico. Ne trattarono infatti alcuni epistemologi come Enriques e Rey nel convegno sulla Signification de l’histoire de la pensée philosophique (1934) e numerosi psicologi nella «journée de psichologie et d’histoire du travail et des techniques» (1941); le «Annales» dedicarono nel 1935 un numero speciale a discutere les techniques, l’histoire et la vie e dopo la guerra la rivista «Critique» consacrò una serie di saggi a questo problema. La presenza del tema entro la cultura francese non valse però in questo caso a introdurlo di riflesso in quella italiana: c’è da stupirsene, ma c’è soprattutto motivo di rammaricarsene perché discutere – attraverso il paradigma significativo della civiltà neolitica e della cultura greca – come vengono elaborate individualmente ed accettate (o respinte) dalla società le scoperte scientifiche e le conquiste tecniche, ha tanto piú interesse e tanto maggiori probabilità di trovare una risposta dell’altra domanda che l’antropologia culturale ha messo di moda fra noi: se le nostre abitudini o preferenze (nel campo delle «tecniche del corpo») si spieghino con la discendenza da una tribú che facesse il bagno in laguna o da una che prendesse la doccia ad una sorgente1.
Il problema dello sviluppo tecnico e delle responsabilità degli intellettuali (nonché dei politici) presenta oggi tanta maggior importanza in quanto la realtà lo mette in evidenza nei grandi dislivelli che caratterizzano l’economia e la cultura dei paesi del terzo mondo, nei problemi che si pongono alle loro classi dirigenti e agli intellettuali. Senz’andare cosí lontano, basta del resto che un cataclisma privi di colpo mezzo milione di abitanti di una città italiana contemporanea di quegli agi, che la società dei consumi garantisce loro da sempre e fa considerar del tutto naturali, perché non solo si riscopra l’affanno mai sperimentato e la fatica degli antichi portatori d’acqua, ma anche perché si valorizzi inaspettatamente un bene, come questo, altrimenti vilissimo e perché vengano in evidenza, fra le responsabilità dei governi, anche la competenza e previdenza tecnica in questo campo.
Per riproporre l’esame di tali questioni è parso opportuno tornare ai documenti di un dibattito, che a piú riprese lungo una trentina d’anni s’è svolto in Francia: reinterpretando i dati e i problemi messi in luce dal filologo Diels, una serie di studiosi ispirati a metodi e ad interessi profondamente diversi hanno presentato ipotesi e punti di vista che si integrano l’un l’altro e che chiariscono le contraddizioni della scienza e della tecnica greca alla luce dell’esperienza dei nostri tempi.
Un saggio di Pierre-Maxime Schuhl rilanciò in Francia la discussione su Machinisme et philosophie, estendendola fino ai piú maturi sviluppi di questa problematica durante la rivoluzione industriale. Il filosofo Alexandre Koyré riprese ed allargò il dibattito introducendovi concetti e periodizzamenti propri della sociologia (di Lewis Mumford e di Georges Friedmann in particolare) ed arricchendolo soprattutto con la sua conoscenza storica delle concezioni scientifiche e dei corrispondenti quadri mentali. Dopo di lui altri tentativi non meno interessanti e complessi sono stati fatti dal punto di vista della «psychologie historique» e da quello del metodo materialistico-storico: anche di questi saggi (in particolare di quelli di J.-P. Vernant e di V. de Magalhães-Vilhena) meriterà parlare, ma poiché – pur polemizzando coi presupposti metodici e con l’impostazione ideale – anch’essi si fondano sui risultati in qualche modo acquisiti dai saggi del Koyré varrà la pena di presentare preliminarmente al lettore italiano I filosofi e la macchina e l’ancor piú felice Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione con qualche informazione ed analisi sul metodo dell’autore.
Nell’ambito di questo dibattito, infatti, tali saggi si distinguono per il loro interesse e pertanto paiono meritevoli esser tradotti.
Con Alexandre Koyré è scomparso di recente (il 28 aprile 1964) uno degli ultimi intellettuali cosmopoliti di alto livello. La sua biografia, la sua tipica peregrinatio studiorum, sono assai varie e interessanti, ma sebbene egli abbia avuto contatti diretti con studiosi e soprattutto con temi della storia intellettuale italiana, la sua personalità e le sue ricerche sono rimaste pressoché sconosciute da noi. La sua presenza per lungo tempo può ridursi a qualche cenno sommario o addirittura a qualche citazione di seconda mano. Ed è un silenzio piuttosto sorprendente se si rifletta alle molteplici suggestioni che la cultura italiana, cosí largamente e improvvisamente convertita alla fenomenologia e allo strutturalismo, avrebbe potuto trovare nelle pagine del Koyré: o, forse, sono state proprio la raffinatezza e la maturità di un’indagine aliena da ogni dichiarazione programmatica che hanno fatto passare inosservato questo alunno di Husserl, considerato fondatore del metodo dell’analisi concettuale2.
Nato nella Russia zarista (a Taganrog, la città di Gor′kij, il 29 agosto 1892), a sedici anni, dopo aver frequentato le scuole secondarie a Rostov e a Tiflis, come molti studenti solevano fare, Alexandre Koyré andò a completare i suoi studi in Germania e in Francia.
Nel 1908 era a Gottinga, dove seguí i corsi di Hilbert e di Husserl. Di Edmund Husserl fu uno dei primi alunni stranieri: si inserí nel gruppo formatosi fra Monaco e Gottinga, che comprendeva Roman Ingarden, Fritz Kaufmann, Edith Stein e il teologo protestante Jean Hering. Era già in contatto con l’ambiente filosofico di Parigi, ed è ricordato per aver suscitato a Gottinga discussioni sull’intuizionismo di Bergson. Piú tardi, trasferitosi in Francia venne dedicando la sua attività alla ricerca storica piuttosto che alla speculazione teorica, per cui sembra probabilmente esagerato vedere in lui, come fece I. M. Bochenski3, il principale rappresentante della fenomenologia in Francia, anche se, indubbiamente, va riconosciuta l’importanza del lavoro di mediazione che, negli anni venti, fu condotto avanti da lui e da un gruppo di slavi emigrati a Parigi che risentivano dell’influenza di Husserl. I loro nomi sono significativi e oggi ben noti: Alexandre Kojève, Eugène Minkowski, Aron Gurwitsch e soprattutto Georges Gurvitch; fra loro toccò proprio a Koyré l’incarico di dirigere la traduzione francese delle Meditazioni cartesiane4.
Si era stabilito definitivamente in Francia nel 1911: oltre a Bergson, professore al Collège e filosofo alla moda, ascoltò Victor Delbos, André Lalande, Léon Brunschvicg, e François Picavet, il medievalista sotto la cui guida preparò la tesi su L’idée de Dieu dans la philosophie de Saint-Anselme, che terminò e discusse dopo la prima guerra mondiale (1923), ottenendo il doctorat d’Université. La stesura dell’opera, che nel 1914 egli aveva in programma di terminare durante un soggiorno di studio in Svizzera, dovette essere interrotta lungamente: alla mobilitazione generale, considerandosi ormai cittadino francese, Koyré aveva voluto offrirsi come volontario.
Dopo quest’esperienza, era tornato agli studi; per ottenere il diploma della quinta sezione della Ecole pratique des hautes études, compose una nuova tesi connessa alla prima su L’idée de Dieu et les preuves de son existence chez Descartes (1922).
Queste due tesi, e particolarmente la terza (discussa nel 1929 per il doctorat d’état), che è un’opera ancor oggi importante su La philosophie de Jacob Boehme, caratterizzano bene il primo periodo della sua attività, nettamente orientato verso ricerche di storia delle idee religiose. I temi prescelti e il metodo sono significativi: la minuta discussione logica delle «prove» di Anselmo e di Descartes e in genere l’interesse per il Medioevo non sono senza rapporto con l’insegnamento ricevuto da Husserl. Il primo articolo importante di Koyré, pubblicato appunto sulla rivista di Husserl5, mostrava la sua vicinanza alla prima fase del pensiero del suo maestro corrispondente alle Logische Untersuchungen; ma della stessa dottrina fenomenologica Koyré aveva tentato un confronto – molto suggestivo – con la filosofia scolastica6. Contro l’opinione della sua vecchia compagna di studi a Gottinga, quella Edith Stein che vedeva fra tomismo e fenomenologia una possibilità di avvicinamento e anche di sintesi, Koyré era d’accordo col medievalista Gilson nel considerare la filosofia di Husserl «piú vicina agli agostiniani che agli aristotelici, piú vicina allo scotismo che al tomismo»7. D’altronde le ricerche un poco posteriori sulla religiosità di Böhme, di Sebastian Franck, di Paracelso, di Valentin Weigel e di Caspar Schenckfeld, mettono in luce una componente nuova, un’allargamento dei suoi orizzonti e dei suoi criteri di giudizio: accanto alla logica husserliana, lo interessano ora gli studi di Paul Alphandéry sulle crociate e soprattutto le analisi di Lévy-Bruhl sulla mentalità primitiva. Quest’ultimo accostamento è stato proposto già da Lucien Febvre, che era collega di K...