Nostro Onore
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Nostro Onore

Una donna magistrato contro la mafia

  1. 216 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Nostro Onore

Una donna magistrato contro la mafia

Informazioni su questo libro

Marzia Sabella studiava per diventare notaio, senza però «immaginare che avrebbero sventrato autostrade e quartieri, senza prevedere - racconta - che il suo treno sarebbe stato colpito dallo stesso esplosivo per deragliare su un altro binario». Non era un tempo qualunque. Era il 1993, quando, dopo le stragi, lo Stato reagiva alla mafia. Ed era impossibile sottrarsi alla chiamata: magistrato, dunque. Alla procura di Palermo. Cosí, i primi processi: gli scecchi morti, le indagini di routine, quindi la pedofilia. Poi Cosa nostra: dall'arresto di Bernardo Provenzano alle indagini per la ricerca di Matteo Messina Denaro, l'ultimo capo latitante. E, nel frattempo, il cambiamento del sentire comune verso la magistratura e la trasformazione del suo stesso ufficio, fino a non riconoscerlo piú come il proprio posto. Con una narrazione vibrante, ma priva di enfasi e che sa cedere all'ironia, Nostro Onore ci conduce nella realtà della mafia siciliana e, al contempo, nel quotidiano di chi lotta contro di essa dal «palazzaccio» di piazza Vittorio Emanuele Orlando. Ma, soprattutto, ci restituisce un ritratto antieroico dei magistrati, anche quando vivono eventi straordinari e imparano a ripararsi dalla seduzione degli «abbagli da telecamera sempre accesa». Perché, l'onore, quello vero, è dato dalla «sacralità del Codice e di chi, di quel Codice, difende le ragioni».

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Capitolo primo

«Preso»

Solo dopo averlo visto con i miei occhi mi sono convinta che Binu, il latitante di Corleone, l’avevamo preso veramente. Il viaggio da Palermo a Montagna dei Cavalli, la contrada dove si nascondeva, l’avevo fatto tutto a ripetere: Michè ma siamo sicuri che è lui? Michè ma siamo proprio certi? Cosí fino all’incrocio fra la strada provinciale e la trazzera che serpeggiava fra un campo e l’altro, per arrivare alla masseria. Lí, a vedere l’esultanza del ragazzo mandato da Renato, il capo della Catturandi, per indicarci il percorso, ho pensato che forse era meglio restarmene zitta. Cento chili d’uomo correvano verso di noi con in mano un bastone, sventolato quasi come una bandiera piú che per segnare il passo. Salite da qui, venite, siamo da questa parte.
Per la verità l’ansia me l’aveva fatta venire Vittorio. Ché io, sotto sotto, la contentezza subito avrei voluto godermela. Ma vedi tu. Una moglie che, per anni, quattro anni e passa, si è persa dietro l’indagine delle indagini, l’indagine per eccellenza se proprio vogliamo dirla giusta, l’indagine che ti capita una volta, massimo due, nella vita. Ecco, una moglie che fa questa cosa e alla fine riesce. Riesce in ciò per cui si è arrovellata i pensieri e angustiata la vita, peraltro coinvolgendo tutta la famiglia perché è inevitabile che uno, di tanto in tanto, sbotti di stanchezza nervosismo esasperazione. Riesce e manda al marito un sms con una sola parola, semplice e diretta a scanso di equivoci: Preso. E cosa si sente rispondere? Anzi, cosa deve leggere in due centimetri per due annunciato da un laconico bip? Ma siete sicuri che è lui? Non un brava oppure fantastico o, meglio, eccezionale. Che ne so, il dizionario è pieno di sinonimi. No, Ma siete sicuri che è lui? Cosí una moglie che del marito si fida, perché lo sa che nei quattro anni e passa, quasi cinque per la precisione, si è tormentato quanto lei, l’ha appoggiata consolata caricata ascoltata; una moglie che lo sente il marito accanto a lei, che lo sente che ci tiene quanto lei, che la sente tutta l’alleanza; una moglie a questo punto che fa? Fa che frena l’entusiasmo. E pensa: alt, ma siamo sicuri che è lui o stiamo facendo una bella figura di merda? Non lo so se siamo sicuri. Nemmeno se mezza procura della Repubblica si scioglie, finalmente, in una specie di collettiva esaltazione, nemmeno se Renato, che non sbaglia un colpo, ha detto Preso. Preso, bip, Ma siete sicuri che è lui? Avrei dovuto lasciarlo in memoria quel messaggio. Come una dichiarazione. Come una dichiarazione di bene. Di bene premura partecipazione presenza.
La storia comincia cosí, nell’estate del 2001. Il Palazzo di giustizia è vuoto come la città, che si è riversata al mare. Ancora pochi minuti e me ne vado anch’io. Via da Palermo, al riparo dall’occhio vigile della scorta. Sulla scrivania un raro ordine, l’ordine definitivo di quando si sta per partire. Le ultime carte firmate. La segreteria avvisata per ogni emergenza. Posso spegnere il computer e la luce al neon. Squilla il telefono e torno indietro: un numero interno. È Guido, il procuratore aggiunto. Marzia ciao, scusa, ti disturbo, come va. Dimmi, Guido. Abbiamo pensato a te per un’indagine, da seguire insieme a Michele, al posto del collega che si è trasferito. Penso alla trappola, allo scecco morto che non vuole nessuno e mi viene da dirgli che stavolta no, mi dispiace, me ne vado in ferie, se ne riparla al rientro se è proprio il caso, se nel frattempo non trovate qualcun altro dotato di spirito di sacrificio, sprezzo del pericolo e amore per la patria. Mi calmo e fingo di interessarmi: Di che si tratta? Guido opta per la sintesi: La cattura di Binu. Dentro di me un mizzica, mizzica e, ancora cento volte, mizzica! Mi riprendo. Siete convinti? Certo! E come mai proprio io? Sai, dobbiamo arrestare un po’ di persone, sai la terra bruciata, insomma c’è da lavorare. Il trucco c’era. Ci voleva il mulo da soma, uno in grado di macinare paginate e paginate di intercettazioni, di buttare l’orologio, di scrivere e, daccapo, scrivere. Ma non spiegava lo stesso il perché proprio io. Molti sarebbero stati disposti ad accollarsi gli oneri di un’indagine cosí. Riaggancio e mi vedo in spiaggia con il portatile. A leggere come gli uomini della Catturandi avevano capito che la pista per giungere al latitante partiva da un uomo, da Pino il geometra. Sarà contento Vittorio, mi dico, un’altra vacanza ad avermi a metà, due ore al mare due ore a lavorare, quattro ore a lavorare mezz’ora al mare. Resto in bilico tra lo smarrimento e la curiosità, tra le vacanze defunte e la smania di quando si comincia. È l’estate del 2001. E sono stata appena assegnata all’indagine per la cattura del superlatitante, del latitante dei latitanti, della primula rossa, dell’invisibile, dell’introvabile. Di Binnu. U tratturi, u ragionieri, u vecchiu, u ziu. Binnu, anzi Binu, perché era bastato un errore di battitura su un verbale per cambiare l’immagine di un’identità. Binu, cioè Bernardo di Corleone, che si nasconde da quarantatre anni. Sí, quarantatre. E non passa un giorno senza che qualcuno scriva che Manca la volontà dello Stato di prenderlo! senza che qualche altro proclami Ormai è morto! senza che in questo triangolo di terra si muova foglia previo l’ordine il comando il nullaosta il benestare l’assenso di un fantasma.
Rallenta la mia uscita un nuovo squillo del telefono. Ancora un interno. È Michele. Sono contento che lavoreremo insieme. Grazie Michè, contenta lo sono anch’io.
La sintonia tra noi due era nata al bar di fronte al tribunale. Lí ci ritroviamo i magistrati all’ora di pranzo. Il signor Pino conosce i gusti e ci anticipa sull’ordinazione. Panino, grigliata di verdure, ma anche penne alla norma con una spolverata di ricotta, caffè in chiusura. Lí parliamo ancora di lavoro. Per l’indomani avevo un processo: omesso deposito, in tribunale, delle scritture contabili entro le ventiquattr’ore dalla dichiarazione del fallimento. L’imputato, il fallito cioè, era un novantenne. E ci ho voluto ricamare. Lo stato di necessità, Michè, ma non sarebbe giusto invocare lo stato di necessità? Ascolta, ma te lo immagini un vecchio di novant’anni che deve portare fin qua le scritture contabili entro le ventiquattr’ore? Le scritture contabili che solo a sentirle c’è da tremare. E poi, ventiquattr’ore che sono? Togline un paio per rendersi conto che è stato dichiarato fallito e che schifíu significa, tre per recuperare la montagna di carte chissà in quale scantinato, due per mangiare, pranzo e cena, ché uno non è che perché è fallito gli si chiude lo stomaco, otto per dormire, altre tre per lavarsi e vestirsi ché un anziano il tempo ce lo mette. E gli restano sei ore. E ammesso che in queste sei ore riesca a caricarsi come un mulo, riesca ad arrivare in tribunale, riesca a posteggiare, ché parcheggio da queste parti non se ne trova, riesca a salire le scale a piedi, ché i nostri ascensori sono sempre fuori servizio, riesca a capire in quale Cancelleria deve sbarazzarsi delle scritture, ammesso tutto questo, ci stramazza qui, morto, stecchito. Niente, non si può fare, non si può pretendere una cosa del genere. Lo stato di necessità ci sta tutto. Domani chiedo l’assoluzione. Che ne dici? La risata di Michele è a ondate o, piuttosto, come l’accensione di un motore che fatica a partire. La volta in cui ci siamo intesi è stata cosí. Michele l’ho conosciuto e convinto in questo modo, davanti a un piatto di pasta, con la mia personale, personalissima, giurisprudenza. Sta di fatto però che, qualche tempo dopo, il termine delle ventiquattr’ore è stato allungato. Insomma, proprio torto non avevo.
Il vero inizio è un pomeriggio di fine estate palermitana che arriva quando, altrove, è autunno pieno. Tempo inesistente e stagione sconosciuta. Ero rientrata dal mare con l’informativa studiata esaminata metabolizzata riletta e con, ancora, la stessa domanda: perché io? Sulla carta ero fuori dalla partita e, per la verità, non avevo neanche mai pensato di entrarci. Perché ho sempre giocato fuori dai giochi, battitore libero, procuratore capo della procura della Repubblica della mia stanza. Hanno scelto me o hanno silurato un altro? Sul punto avevo fatto subito chiarezza con i colleghi, per mettere ordine e sentire il sollievo delle incombenze risolte. Il resto, tutte le altre risposte è stato Michele a darmele, cinque anni dopo, in una dedica, con il segno nero della sua stilografica che avrebbe riempito la pagina bianca del suo libro su Binu.
Quando mi dissero «Marzia» già sapevo che era il magistrato in assoluto migliore per quella avventura difficile e rischiosa, poi il tempo mi ha insegnato che non era il magistrato migliore per quella avventura, ma il magistrato migliore e basta. A Marzia impareggiabile collega, donna coraggiosa, amica affettuosa, con la gratitudine per essermi stata sempre vicino come solo lei sa fare e la felicità per le grandi emozioni che abbiamo condiviso sempre insieme. Michele.
Avevamo lasciato che la giornata trascorresse in modo da riservare alla chiacchierata il tempo necessario, senza l’ansia dei telefoni, delle udienze, delle firme e dei timbri. Vado io nella stanza di Michele. Da dietro la scrivania allinea le parole, una dietro l’altra, mentre si arrotola una ciocca di barba. Parla, spiega e, senza riserve, svela intuizioni e retroscena. Si fida, mi posso fidare.
Nei mesi successivi la palude di quell’indagine mi avrebbe portata a domandarmi fino a che punto fossimo davvero i titolari dell’inchiesta o se, sopra le nostre teste, si stesse giocando un’altra partita. Fra contorcimenti investigativi, depistaggi e carognate, muoversi con passo sicuro non era facile. Fosse stato solo perché sulla latitanza di Binu ci lavoravano polizia e carabinieri, ognuno seguendo le proprie strade che, per forza, a un certo punto si incontravano e si scontravano per determinare il finalista. Fosse stato solo perché ci lavoravano anche coloro che non avrebbero dovuto lavorarci. Magari in buona fede. Non c’erano intercettazioni, anche quelle avviate per un giro di prostituzione o per un usuraio, in cui l’attento orecchio non coltivasse la spifferata giusta, nella speranza del colpo grosso, della prima pagina di un quotidiano. Anche a costo di sventrare i nostri risultati con iniziative affrettate. O magari, in malafede, con manovre al margine. Almeno di noi, io e Michele, potevamo fidarci. Giocavamo a carte scoperte, senza sorprese sorpassi rivalità menzogne reticenze. Ma verso l’esterno avevamo imparato a proteggerci con maniacale accortezza. Al telefono parlavamo come i mafiosi, a mezzi termini e per allusioni, e ogni approfondimento si risolveva in un Puoi venire ti devo parlare. E il Ti devo parlare di presenza, senza questa camurria di cellulare che non sappiamo se ci sentono e chi ci sente, non conosceva né orari né festività.
Pino il geometra. La ricerca di Binu era partita da qui. La polizia che, per anni, era rimasta fuori dalle indagini, da una qualche parte doveva iniziare. E nel niente, da dove si comincia per trovare un’ombra? Si comincia, forse, da un contatto dimenticato, da una traccia antica: Pino, vecchio amico e consigliere economico di Binu.
È il 1998 e Pino è in galera per i fatti suoi. Cosí, i poliziotti posizionano alcune microspie nella sala colloqui del carcere. Il risultato è una conversazione tra il geometra e suo figlio Arturo dove si parla di un infermiere e di una risposta che dovevano fargli avere. Ma chi è l’infermiere?, si erano domandati. Ascolta e riascolta, perché le intercettazioni si devono ascoltare cento volte, ché il senso spesso è in un sospiro, dunque ascolta e riascolta, da quella stessa conversazione viene fuori un particolare che pareva insignificante. Un terreno, nominato cosí, tanto per dire. E di chi è il terreno? È di Vito. E chi è Vito? Un infermiere. E di chi è parente l’infermiere? È nipote di Binu. E allora la risposta che razza di risposta è? Ascolta e riascolta appunto, i due accennano ai vestiti del detenuto. Cosa ovvia per uno che è arrestato e si fa arrivare dall’esterno ogni indumento. Ma Pino ha una leggera esitazione riferendosi ai pantaloni. Non costa niente controllare la biancheria sporca che consegna alla famiglia. Centro: la risposta. C’è un pizzino nascosto nella cucitura dell’orlo. Con Carissimo zio esordisce per poi elencare le proprietà del latitante che Pino deve far vendere prima che gli sbirri capiscano chi sia il vero titolare. Gli agenti fotocopiano il pizzino e lo rimettono a posto, nell’orlo dove lo avevano trovato: la lettera per lo zio deve fare il suo corso per rivelare qual è il suo corso.
Il suo corso è l’ascensore dell’ospedale dove lavora Vito. Qui, l’infermiere e Arturo si incontrano e, pigiando la tastiera dei piani, si scambiano, con una veloce stretta di mano, minuscoli rotoli di carta. Il suo corso è anche la risposta di Binu che arriva a Pino, in carcere, forse nella cartella di Cinzia, l’altra figlia del geometra. Lei è avvocato e, dato che avvocato è, nessuno le controlla i documenti.
Ma se Pino contatta Binu tramite i propri parenti, figli, moglie e generi compresi, Binu di chi si serve? Chi c’è oltre suo nipote Vito? Passaggi e passaggi di foglietti accartocciati, fino a Paolo, cognato del latitante. I pizzini, però, sembrano fermarsi nelle sue tasche. Dopo di lui non si vede piú niente. Mesi ad aspettare un passo falso, un segnale, un indizio. Paolo non sbaglia una mossa e la ricerca finisce con lui. La famiglia è sempre la famiglia.
Per questo Guido mi aveva telefonato quel giorno di inizio estate. Che aspettiamo a fare, non serve attendere, arrestiamoli tutti. Una trentina di nomi, in testa Pino e i suoi parenti al completo. Ore e ore, io e Michele, a leggere e rileggere le intercettazioni. A volte ad alta voce per capire meglio le parole, le sfumature, la forza e la debolezza di un nucleo familiare. Lui faceva la parte di Pino e io quella della moglie Marianna. Aspetta, com’era quando temevano che il genero, il marito di Cinzia, collaborasse con la giustizia se mai fosse finito in carcere? Pino: È venuta Cinzia. Abbiamo parlato del piú e del meno con Cinzia. Arrivati ad un certo punto lei dice: «Papà è venuto mio marito è molto preoccupato...» Marianna, da fimmina cugliunuta, capisce al volo: Digli: «Giusto, giusto a lui devono arrestare?» Glielo hai detto tu? Pino prosegue, rammaricato, perché i suoi parenti non sono all’altezza dell’impresa: Cinzia dice: «Io per la seconda volta ti debbo dire una cosa, quello è troppo spaventato, questo – senza mai Iddio – gli succede cosa, ci consuma a tutti. È tanto spaventato che – senza mai Iddio – gli dovesse succedere che... questo dall’indomani gli racconta dalla A alla Z della nostra vita». Ora, Marianna, quante pillole mi devo prendere io per dormire la notte? Quante? Io vorrei sapere quante me ne devo prendere! A furia di ripetere quelle conversazioni, ho imparato a parlare come loro. Quante pillole mi devo prendere per dormire, lo dico anch’io quando voglio evidenziare l’assurdità degli eventi. E pure il Senza mai Iddio, che non sia mai mio Dio, ha preso a far parte del mio vocabolario. Parli come loro e, la prima volta che li vedi, li riconosci, prevedi le risposte e sai dove insinuarti.
Per il nostro lavoro, composto da centinaia di pagine scritte rilette e corrette, ci voleva una bella introduzione. La troviamo in un vecchio rapporto dei carabinieri, ripescato chissà come, presentato nel 1984 a un magistrato, uno che l’intuito ce l’aveva, uno che poi l’hanno ammazzato su un’autostrada vicino Capaci. Pure allora Pino il geometra amministrava il patrimonio dei corleonesi, Totò, Binu e Luchino che, dalle montagne, avevano conquistato Palermo. C’erano quasi tutti nel rapporto, tutti quelli che noi stavamo arrestando e che Giovanni aveva arrestato prima di noi. Dopo diciotto anni, quindi, la mafia era rimasta uguale a se stessa.
Pino il geometra. Lo rispediamo in carcere e andiamo a interrogarlo, sicuri che non risponderà perché i veri mafiosi non rispondono. L’assioma ce lo avevano spiegato qualche anno prima: Se io fossi u mafiusu che dite, con voialtri non ci dovrei parlare, se invece fossi il povero viddano che dico io, a maggior ragione non avrei niente da dirvi. Chiusura del verbale. Pino, invece parla: Sí, conosco Binu, gli scrivo, lui mi scrive, l’ho incontrato. Ma Pino parla da uomo d’onore, ammette l’innegabile, nulla che possa servire per la cattura o per aggiungere una virgola alle prove. Parla per l’ansia di minimizzare i danni, per salvare la sua famiglia e il patrimonio del latitante, per la paura che il genero, arrestato pure lui, ci raccontasse dalla A alla Z della loro vita. Chissà quante pillole aveva preso Pino la notte prima dell’interrogatorio. Parla dunque. Non una parola fuori posto. Non una parola fuori asse, non una parola con la sintassi a caso. Eleganza sobria, postura d’altri tempi, maglione di cachemire, distanza sorniona dalla mafia dei graniti, cioè, come diceva lui, degli arricchiti che si erano costruiti le ville con le scalinate di marmo dozzinale. Pino, collezionista di auto d’epoca, portavoce dei viddani corleonesi nei salotti, mostra consapevolezza del suo rango e sente di poter interloquire con il fronte opposto, noi, da pari grado. Quindi con rispetto. Con Pino ho conosciuto la mafia. Da lui ho imparato che i picciotti, che spargono benzina nelle saracinesche dei negozi e si dànno le arie con i revolver infilati nei calzini, sono un’altra vittima di Cosa nostra. La manodopera senza tutela sindacale assoldata con oboli spacciati per stipendio sicuro.
Pino sarà condannato e, per singolare coincidenza, uscirà dal carcere il 13 aprile del 2006, due giorni dopo la cattura di Binu. Due giorni soltanto e ci toccava ricominciare perché il geometra il vizio non lo perdeva. Dopo nemmeno ventiquattr’ore di piede libero, stava vendendo un’area edificabile, un’area da costruirci una città, del vecchio amico suo, u tratturi, ora al quarantunobis. E perciò, nel settembre del 2007, lo arrestiamo di nuovo: altri interrogatori, altri processi, altra condanna.
Lo rivedo due anni dopo, nel 2009, mentre era agli arresti domiciliari. Dovevo sentirlo per un procedimento di poco conto, senza tensione. Quando arriva nel mio ufficio percepisco un’incomprensibile familiarità. Il segno, forse, degli anni passati a rileggere le sue intercettazioni, ad ascoltare le sue dichiarazioni e a intercalare con il Senza mai Iddio e con il Quante pillole mi devo prendere. Pure lui pare contento di vedermi. Il verbale lo chiudiamo presto, ma Pino vuole scambiare quattro chiacchiere sulle stagioni che non ci sono piú, sui treni che arrivano in ritardo, sulla fame nel mondo e, infine, sulla mafia di oggi che non è quella di una volta. C’è da dire che a qualcuno, giornali soprattutto, era piaciuto sostenere che un altro latitante, Totuccio, poi arrestato nel novembre del 2007, per un certo periodo aveva preso il posto del corleonese, ormai catturato. Certo che Totuccio mafioso di primo livello era, ineguagliabile nell’imposizione del pizzo, ma un’altra stoffa rispetto a Binu il ragioniere. Pino aspettava il momento per prendere le distanze: Dottoressa, glielo posso dare un consiglio? Perché non se ne va via da Palermo? Non comprendo: è una minaccia o vuole dirmi che sono in pericolo? L’esitazione passa con la frase successiva: Una persona preparata come lei che ci fa qua, non è che può occuparsi di questa mafia di pizzaioli. Per pizzaioli, il geometra intendeva, con scherno, i mafiosi che campano di pizzo. Capisco che mi sta facendo un complimento e sorrido. Capisco che ci tiene sempre a sottolineare che la mafia, la mafia scritta tutta in maiuscolo grassetto e doppio sottolineato, ha un’altra faccia e non ha bisogno di passamontagna e di cartucce 7,65 Parabellum. Cambiamo argomento. Dottoressa le posso chiedere una cortesia? Mi dica. Ho bisogno di un permesso per fare alcuni esami medici, lo vede sono fatto vecchio ormai. E lei lo fa un favore a me? Certo, se posso. La finisce di farsi arrestare e mi fa lavorare su qualcos’altro? Ora è lui a sorridere. E da allora non l’ho visto piú.
Fuori scena il geometra, Vito il nipote, Paolo il cognato e tutti quanti gli altri arrestati, il lavoro si ferma. Ci ritroviamo ai blocchi di partenza. Quasi, però. Perché, appunto, le intercettazioni si sentono e si risentono. Anche quelle piú datate, quelle che pare che non servano piú. Specie quando a parlare è Pino e ogni suo termine, persino un ciao, può essere la chiave del rompicapo. Come la volta che, discutendo del piú e del meno, aveva domandato a un suo amico se si fosse sentito con Giuseppe. E l’amico, distrattamente, aveva rispo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nostro Onore
  3. Prefazione
  4. Nostro Onore
  5. I. «Preso»
  6. II. Nostro onore
  7. III. «Sei troppo bellissima»
  8. IV. «Non lo guardare in faccia, il morto»
  9. V. ’Nfami e sbirri
  10. VI. «Palermo-Milano, solo andata»
  11. VII. Mafia, singolare femminile
  12. VIII. Cori di ragionieri e di leoni
  13. IX. L’altra giustizia
  14. X. Agnello e sugo
  15. Il libro
  16. Le autrici
  17. Dello stesso autore
  18. Copyright