Lo stato del patrimonio culturale oggi in Italia è, abbiamo cercato di mostrarlo, condizionato da crescenti e profonde incertezze istituzionali. Il suo valore fondante della società civile, di un senso condiviso di identità, di cultura e di cittadinanza è ancora affermato nel modo piú solenne dalla Costituzione, e ribadito dalla Corte costituzionale1. Nonostante ciò, la lenta erosione della cultura istituzionale, l’ascesa apparentemente irresistibile di considerazioni economicistiche in cui null’altro ha luogo se non il conto della spesa, la sequenza di ministri incapaci di qualsiasi visione strategica di lungo periodo hanno portato a un impasse sempre piú evidente, sempre piú grave. Crescono le disfunzioni della pubblica amministrazione, cresce la pressione per considerare musei e monumenti solo in funzione del loro cartellino del prezzo; e questo in un Paese in cui si registra, secondo uno studio promosso dal presente governo Berlusconi, un’evasione fiscale di oltre 200 miliardi di euro ogni anno, e «Al Fisco sfugge il 18,7 per cento del Pil», secondo un efficace titolo del «Sole-24 Ore»2. Con queste cifre è ovvio, secondo il ministro Tremonti, che per accrescere le entrate dello Stato occorre diminuire le tasse, condonare gli evasori e vendere i monumenti. Cittadini meno smaliziati preferirebbero una politica di contenimento dell’evasione fiscale (qui davvero verrebbe buono il «modello americano», richiamato solo, e a sproposito, quando serve a giustificare gli escamotages nostrani) e la rigorosa protezione del patrimonio pubblico, garanzia non verso le banche, ma del mutuo rapporto fra Stato e cittadini che è il fondamento della Repubblica. Preferirebbero che si desse retta agli osservatori stranieri che si chiedono scandalizzati come mai l’Italia, «pur avendo il patrimonio culturale piú grande del mondo, investe in esso solo un quinto di quanto fanno i suoi vicini europei», come scrive il piú importante settimanale tedesco, «Die Zeit»3, deplorando la nuova legge sulla dismissione del patrimonio culturale.
Sul nostro patrimonio culturale grava da tempo una strana maledizione. Da quando è venuto di moda dire che l’arte è «il petrolio d’Italia», da quando le «belle arti» sono diventate «beni (o “giacimenti”) culturali», si è innescato un perverso meccanismo di immediata monetizzazione di musei, scavi, monumenti. Ci si chiede sempre piú spesso «quanto possono rendere gli scavi di Pompei, il Colosseo, gli Uffizi, Brera?» Questa impostazione è intrinsecamente sbagliata, per ragioni non solo istituzionali, storiche e culturali, ma anche squisitamente economiche. Molto piú importante per l’economia nazionale è infatti l’«indotto» del nostro patrimonio artistico, difficile ma non impossibile da calcolare4: quanti convegni si svolgono a Roma o a Firenze per la loro fama di città d’arte? Quanti visitatori vengono in Italia attratti dal nostro patrimonio artistico? Quanto spendono non in biglietti di museo, ma in alberghi, ristoranti, scarpe, libri, vestiti? Quanto di questo «indotto» è dovuto all’unicità del «modello Italia» su cui tanto abbiamo insistito, e cioè nel continuum territoriale che lega l’una all’altro città e paesaggio, la lingua della letteratura e la cultura dei cittadini? Questa unicità va coltivata sia perché riguarda l’identità nazionale come bene prezioso da non perdere, sia in quanto importante fattore di attrazione e di competitività.
Ragioni istituzionali, politiche ed economiche dovrebbero spingere, e subito, a guardare al destino del nostro patrimonio con progetti di largo respiro. Al contrario, i meccanismi che abbiamo via via indicato, primo fra tutti la mancanza ormai cronica di una coerente visione strategica e istituzionale, lasciano prevedere una crescente paralisi e il perpetuarsi di piccole manovre tattiche, piú privato o meno privato, piú regioni o meno regioni, vendere questo e non vendere quello, la gestione si definisce cosí o si definisce cosà. Nulla fa sperare che conflittualità, sovrapposizioni e incroci fra Stato, devoluzioni a regioni ed enti locali, privati, fondazioni, marchingegni di concertazione vengano affrontati non con regolamenti e commissioni ma con lo strumento di una larga e penetrante visione istituzionale, non barcamenandosi in compromessi di corta durata ma preoccupandosi di costruire per le generazioni future.
Intanto, lo ha osservato opportunamente Marco Cammelli5, nel nuovo gioco politico il patrimonio culturale
non è piú un elemento di coesione (e dunque, in qualche modo, fuori dalla mischia come nelle prassi consociative della seconda metà del secolo scorso), ma di dura e diretta competizione fra schieramenti opposti.
Tanto piú duro sarà anzi lo scontro, aggiungerei, quanto piú diventerà evidente non solo ai politici ma ai cittadini fino a che punto ministri di centro-sinistra hanno di fatto spianato la strada a misure che oggi essi stessi condannano come «tipicamente di destra».
Se questo è vero, – continua Cammelli – attraverso i rapporti centro-autonomie e pubblico-privato sono destinate a passare anche le nuove dinamiche, con il risultato che le conseguenze della situazione di stallo vanno ben oltre i profili di funzionalità amministrativa e istituzionale del settore.
Un altro caso di piena continuità fra ministri di opposte coalizioni: il ministro Urbani, attuando norme e disposizioni varate negli anni del centro-sinistra, ha istituito a Roma, Firenze, Napoli e Venezia altrettante soprintendenze speciali per i poli museali delle rispettive città (decreto dell’11 dicembre 2001). Questo vuol dire che, per la prima volta nella storia d’Italia e in contraddizione con tutta la storia della tutela del patrimonio culturale in questo Paese, i musei (quelli delle principali città italiane d’arte) sono «scorporati» dal territorio, considerati come entità a parte. Per esempio, a Roma le grandi gallerie fidecommissarie (come la Galleria Colonna e la Galleria Doria Pamphilj) ricadranno sotto una competenza diversa da quella delle gallerie nazionali (per esempio, di Palazzo Barberini). Si è spezzato il nesso vitale, delicato eppure fruttuoso ed efficace per secoli, fra la città, coi suoi palazzi e le sue chiese, e i musei, che dall’identico tessuto di committenze, mecenatismi, collezioni trassero origine e alimento. Nata dall’ossessione del modello americano coi suoi musei ovviamente del tutto staccati dal territorio (ma nelle chiese di New York non c’è Giotto, non c’è Tiziano, non c’è Caravaggio), questa ulteriore ferita al modello italiano di tutela, c’è da chiedersi, è stata attuata per mera forza d’inerzia, giacché un ministro precedente, di opposta parte politica, aveva già preparato le carte? Perché, anche su questo punto, tanto accordo, da Veltroni a Urbani, contro una cultura istituzionale che dovrebbe essere vanto del Paese?
Che cosa ci aspetta dietro l’angolo? Tanto per cominciare, che cosa faranno il governo in carica e i suoi ministri? Se dobbiamo imparare da quello che si è visto con l’ultima Finanziaria e poi col «decreto Tremonti», sarà bene riflettere che abbiamo visto ripetersi due volte lo stesso scenario: il governo presenta un testo molto aggressivo (prima sulla gestione, poi sulla proprietà del patrimonio culturale), ne nascono generali proteste, in seguito alle quali si introducono dei correttivi; infine, il governo spiega che l’intenzione che «appariva» nella prima versione non era quella «vera», con soddisfazione di quelli che abbiamo chiamato sopra6 «gli increduli». Non c’era mai stato nessun rischio, nessuno mai intendeva attentare, ecc. ecc. A distanza di pochi mesi, segue un provvedimento ancor piú aggressivo. La strategia sembra essere: tre passi avanti e uno indietro sulla via dello smantellamento del patrimonio culturale, per poi fare ancora tre passi avanti e uno indietro pochi mesi dopo (risultato netto, dopo due mosse: quattro passi avanti), con piena sintonia fra ministero dell’Economia e ministero dei Beni culturali. La prima domanda, a proposito di quel che bolle in pentola, è se questa strategia continuerà nei prossimi mesi, per esempio con norme della prossima Finanziaria o altri regolamenti e decreti che, magari tornando sulla prima versione della Finanziaria 2002 (art. 22), risolvano le contraddizioni della versione finale in favore della concessione non dei servizi, ma dei beni stessi7. E perché non dovrebbero esser dati in concessione, visto che ormai possono anche essere dismessi e venduti, grazie alla «Patrimonio S.p.a.»? E che prefetti e Carabinieri, scuole e università, biblioteche e musei potrebbero essere costretti a pagare l’affitto per usare edifici demaniali? E che, infine, l’art. 35, comma 15 della stessa Finanziaria 2002, modificando il Testo Unico sugli enti locali, consente senz’altro a comuni e province «l’affidamento diretto dei servizi culturali» ai privati? Quest’ultima norma vuol dire che si è cominciato dagli enti locali per passare alle regioni e dalle regioni allo Stato, e che si è cominciato dai «servizi» (non meglio specificati), per poi via via allargare a tutto il resto?
Che cosa accadrà sul fronte delle devoluzioni e dell’applicazione del nuovo titolo V della Costituzione? Prevarrà l’idea inaccettabile di separare tutela da gestione per lasciare la prima allo Stato e poter devolvere la seconda, o distribuirla fra regioni e privati? O si comincerà a capire che tutela e gestione del patrimonio culturale sono strettamente interdipendenti? E in tal caso, prevarranno meccanismi di accentramento, visto che la Costituzione riserva la tutela allo Stato, o si vorrà invece, puntando sulle ambiguità della riforma costituzionale, suddistinguere la tutela tagliandola a fette con le armi del giure, e riservando allo Stato certi aspetti, e altri alle regioni? In particolare: come verrà interpretato e messo in atto, in riferimento al principio fondamentale espresso nell’art. 9, il nuovo art. 118, comma 3 della Costituzione, che prevede «forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali»? Si saprà trovare (e prima ancora, si vorrà cercare) un equilibrio, istituzionalmente fondato, fra normazione e amministrazione che consenta di tener conto dei vari soggetti coinvolti?
Altra domanda: quali saranno le prossime mosse delle S.p.a. del Patrimonio e delle Infrastrutture? Come saranno sciolti, se non s’ingarbuglieranno ancora, i nodi che abbiamo sopra indicato? Qualche indizio si è avuto da uno scambio di lettere al massimo livello istituzionale e da qualche dichiarazione politica. Il fatto piú rilevante su questo fronte, dopo l’approvazione della legge, è stata infatti la lettera che il Capo dello Stato ha scritto al Presidente del Consiglio lo stesso giorno della promulgazione della legge (15 giugno 2002): una lettera che è un severo richiamo, carico di senso istituzionale, alla necessità che
la valorizzazione affidata alla Patrimonio S.p.a. sia coerente non solo con principî di economicità e di redditività, ma anche con il rigoroso rispetto dei valori che attengono alle finalità dei beni pubblici, intese alla luce dei principî costituzionali che riguardano la tutela dei predetti beni, e in primo luogo di quelli culturali e ambientali, che costituiscono identità e patrimonio comune di tutto il Paese.
Ciampi continua auspicando che il governo «traduca tempestivamente in disposizioni operative» l’ordine del giorno Vizzini, approvato dal Senato e accolto dal governo, con cui «si impegna l’esecutivo ad assicurare particolari garanzie per la gestione di tutti i beni di interesse culturale e ambientale»; aggiunge infine che i beni da trasferirsi alla «Infrastrutture S.p.a.» non possono che essere beni alienabili, «il che porta implicitamente ad escludere tutti i principali beni pubblici, dei quali appare necessario preservare l’indisponibilità». La lettera di Ciampi ha subito catalizzato l’opinione pubblica, costringendo i media a dedicare molto piú spazio a questo tema. Si è visto cosí che gli Italiani non sono indifferenti al destino del loro patrimonio culturale: basta un po’ d’informazione per rendere estremamente impopolare ogni tentativo di espropriare i cittadini di un patrimonio che solo a loro appartiene.
Ma come ha risposto Berlusconi? Tredici giorni dopo (il 28 giugno) ha scritto in risposta una lettera, anch’essa ampiamente riportata dai media, nella quale dichiara di condividere tutte le osservazioni del presidente della Repubblica, e assicura «che la nuova normativa postula il mantenimento di tutte le garanzie che la legislazione vigente prevede per il demanio e per il patrimonio indisponibile», che «il ruolo del ministero per i Beni e le attività culturali rimane integro e intangibile», e cosí via. Insomma, tutto a posto e niente da cambiare, anzi è da «escludere ogni ulteriore intervento normativo». Una nota giuridica in appendice alla lettera precisa che la «Patrimonio S.p.a.» si occuperà di «crediti, concessioni, beni immateriali, terreni e immobili di non particolare pregio» (corsivo mio). Curiosa affermazione che ha tutto l’aspetto di una bugia, visto che dice esattamente il rovescio di quello che è scritto nella legge che dovrebbe commentare, e cioè, lo ripetiamo, che «il trasferimento di beni di particolare valore artistico e storico è effettuato d’intesa col Ministro per i Beni e le Attività Culturali» (art. 7, comma 10). Come? La legge prevede meccanismi perché perfino ciò che è di particolare valore artistico e storico sia alienabile, e il Presidente del Consiglio scrive al Capo dello Stato che in realtà quella stessa legge si vuol riferire solo a immobili di non particolare pregio? E che non occorrono nuovi interventi normativi per chiarire questo punto? Come farà il cittadino, che ha diritto a un’informazione piena e chiara, a capire se si tratta qui di idee confuse, di abissi del diritto o di tortuosità della politica? E dove cade il confine fra gli «immobili di non particolare pregio» e quelli «di particolare valore artistico e storico»? Una prima risposta viene dal sindaco di Milano Albertini, che piú o meno a ferragosto, invocando piena sintonia con Urbani e Tremonti, ha dichiarato l’intenzione di mettere in vendita la Galleria Vittorio Emanuele di Milano, evidentemente ritenendola «non di particolare pregio». I milanesi saranno d’accordo? Vedremo.
Intanto, il Dpef (Documento di Programmazione Economico-Finanziaria) 2003-2006, adottato dal Consiglio dei ministri il 5 luglio 2002, dà altre indicazioni sulle linee di indirizzo del governo. Quanto ai Beni culturali, vi si dice, la spesa dovrà essere ridefinita, passando da spesa corrente a spesa per investimento, in quanto il patrimonio culturale è «di importanza strategica per lo sviluppo di rilevanti settori economici e finanziari, dal turismo alla promozione della produzione made in Italy». Tutto bene, specialmente se, come il documento promette, la spesa verrà incrementata (vedremo se lo sarà davvero); ma preoccupa l’assenza, fra le ragioni per cui il nostro patrimonio culturale è considerato di valore strategico, di ogni accenno di natura istituzionale, storica, civile. Turisti e made in Italy, vien fatto di obiettare, sono importanti, ma non sono tutto. Quanto alla «Patrimonio S.p.a.», il Dpef dichiara con orgoglio che essa costituisce un’esperienza d’avanguardia, in cui l’Italia è prima al mondo «in un settore importante ed innovativo delle politiche pubbliche e nell’evoluzione verso il mercato della contabilità dello Stato». Prima al mondo o isolata nel mondo? Secondo il Dpef, il meccanismo per il finanziam...