La scomparsa dell'Italia industriale
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La scomparsa dell'Italia industriale

  1. 116 pagine
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La scomparsa dell'Italia industriale

Informazioni su questo libro

Il nostro paese ha perso o fortemente ridotto la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato fra i primi al mondo. È il caso dell'informatica e della chimica. L'Italia industriale è uscita quasi completamente da mercati in continua crescita quali l'elettronica di consumo. Né è pervenuta a far raggiungere un'adeguata massa critica a industrie dove ancora possiede un grande capitale di tecnologia e di risorse umane, come l'aeronautica civile. Dove essa esisteva, l'ha frantumata: è avvenuto con l'elettromeccanica ad alta tecnologia. Resta in piedi un ultimo settore della grande industria, l'automobile, la cui crisi procede peraltro verso esiti al momento imprevedibili. I costi economici e sociali di tali vicende sono stati immensi. Come lo è il rischio di diventare una colonia industriale di altri paesi.
Non è stata un'impresa da poco, aver lasciato scomparire interi settori produttivi nei quali si eccelleva; né aver mancato le opportunità per riuscirvi in quelli dove esistevano le risorse tecnologiche e umane per farlo. Sembra lecito chiedersi come ci si è riusciti. Questo saggio prova a delineare alcune risposte. Con l'auspicio di veder ricomparire una politica industriale, volta a favorire l'occupazione ad alta intensità di conoscenza e uno sviluppo piú autonomo ed equilibrato di tutto il paese.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806166281
eBook ISBN
9788858414125
Argomento
Business

III.

Formule nocive per la chimica

A proposito dello sgretolamento della grande industria chimica italiana, iniziato verso la metà degli anni Sessanta e conclusosi intorno al 2002, vari commentatori hanno parlato di «guerre chimiche» e del loro infelice quanto costoso esito. Tuttavia, se si guarda al modo in cui agirono i principali attori della vicenda, verrebbe piuttosto da concludere che il loro comune disastro fu generato, piú che da guerre, da ripetuti tentativi di stabilire alleanze volte a sopprimere la concorrenza, oltre che da ricorrenti scelte di procedere a fusioni e acquisizioni aventi uno scopo analogo. Le formule adottate per le une e le altre hanno prodotto un risultato paradossale: dopo ogni episodio del genere, il nuovo gruppo nato da un’alleanza, da una fusione, o dall’acquisizione di una grande impresa chimica da parte di un’altra, rivelava ben presto di essere, sotto il profilo dell’efficienza e della capacità industriale, decisamente inferiore alla somma delle parti.
A metà degli anni Cinquanta del Novecento, la società Montecatini, fondata a Milano nel 1888 ma entrata in grande nel campo della chimica solo verso il 1920, possedeva circa 160 stabilimenti chimici e laboratori di ricerca, oltre a parecchie miniere, e contava – esclusi gli addetti a queste ultime – 55000 dipendenti. La seconda industria italiana del ramo, la SNIA Viscosa, specializzata sin dagli anni Trenta nella produzione di fibre chimiche ma presente in forze anche in altri comparti, contava alla stessa epoca circa 20000 dipendenti. Capofila dell’industria chimica italiana, la Montecatini era collocata tra le prime cinque imprese del settore a livello mondiale, esclusi gli Stati Uniti13. Verso la fine del decennio la Montecatini era premuta da un problema, e attratta da una meta. Il problema era l’accresciuta concorrenza internazionale, che metteva a rischio la confortevole posizione di oligopolista che la società milanese deteneva da decenni. I prezzi scendevano per la concomitanza di diversi fattori: l’ingresso di nuovi attori di differenti paesi nel settore della chimica; l’avvento di tecnologie di processo piú avanzate; l’elevato tasso di invenzione di nuovi prodotti, in specie nel campo delle materie plastiche. La meta consisteva nell’accaparrarsi una quota la piú larga possibile dei cospicui capitali che in quel periodo lo stato metteva direttamente e indirettamente a disposizione per le imprese che investivano nel Mezzogiorno.
Quale passo per attenuare il problema, se non risolverlo, e avvicinarsi contemporaneamente alla meta, i padroni palesi e occulti di Montecatini concepirono in prima battuta un’alleanza con la Shell. Nasceva la Monteshell. Il primo progetto della nuova società fu la costruzione di un polo petrolchimico a Brindisi, specializzato nella produzione di derivati del petrolio, in massima parte materie plastiche. Realizzato quasi per intero dalla Montecatini, tra il 1960 e il 1962, il progetto aveva dimensioni galattiche: 800 ettari l’area costruita, ricavata da fertili terreni agricoli; decine di chilometri di strade e ferrovie; una centrale elettrica da 130000 Kw; una capacità di lavorazione di 2 milioni di tonnellate di petrolio l’anno; numero previsto di addetti con l’impianto a regime nell’area di Brindisi, compreso quindi l’indotto, intorno alle 16000-18000 unità.
Né le previsioni produttive né quelle occupazionali si realizzarono mai. Tredici anni dopo l’entrata in funzione del complesso produttivo, il Petrolchimico di Brindisi aveva poco piú di 4000 dipendenti, e circa 1700 l’indotto. La capacità complessiva dell’impianto, come avvenne poi per quasi tutti i nuovi impianti chimici costruiti in Sardegna e in Sicilia con l’analogo scopo di sfruttare gli incentivi statali, apparve presto molto superiore alla domanda. Quanto alla durata dell’alleanza con la Shell, fu di circa un lustro. Troppo differenti erano i rispettivi interessi, le culture aziendali, le visioni strategiche. Nel 1966 il Petrolchimico di Brindisi ritornò alla casa madre con il nome di Montesud Petrolchimica. Due anni dopo sarebbe entrato a far parte del gruppo nato dalla fusione di Montecatini ed Edison. Sarebbe stata questa a fornire trama e personaggi alla seconda serie di fusioni & acquisizioni che hanno tinto di rosso – il colore dei bilanci in passivo – la storia della grande industria chimica.
Nello stesso periodo in cui la Montecatini era alla ricerca di sostanziosi fondi pubblici per difendere la propria declinante posizione, e li trovava negli incentivi per effettuare investimenti nel Mezzogiorno, un’altra grande società, la Edison, prevedeva di essere presto afflitta da una sovrabbondanza di essi. Fondata a Milano nel 1884, quindi quasi coetanea della Montecatini, la Edison era il maggior produttore italiano di energia elettrica, tra i cinque che dominavano allora tale mercato. Gli altri erano la Società Adriatica di Elettricità (Sade), poco piú tardi assorbita dalla Montecatini; la Centrale, operante nel centro-Italia; la Società Idroelettrica del Piemonte (Sip), e la Società Meridionale di Elettricità (Sme). Nella seconda metà degli anni Cinquanta era ormai chiaro che il governo avrebbe quanto prima deciso di nazionalizzare l’energia elettrica. In vista di tale evento nefasto la Edison iniziò un programma di marcata diversificazione, avventurandosi in settori nei quali il suo management aveva limitata esperienza: anzitutto la chimica, ma anche l’industria estrattiva, l’elettromeccanica, il tessile, il vetro. Restava il problema di come impiegare i colossali capitali che stavano per piombarle addosso quale indennizzo statale per la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Lo stato versò infatti direttamente alle imprese nazionalizzate, non ai loro azionisti, circa 2200 miliardi di lire, comprensivi di interessi, equivalenti a 18 miliardi di euro di oggi14; la quota di gran lunga maggiore, circa 1800 miliardi, spettò alla Edison, le cui dimensioni surclassavano le altre.
Il decreto di nazionalizzazione venne pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 12 dicembre 1962. Di conseguenza, come produttore di elettricità, la Edison era rimasta disoccupata, ma con i relativi indennizzi si era ritrovata ricca. Nel frattempo i nuovi settori in cui si era avventurata non davano risultati particolarmente promettenti. In conformità al criterio guida per cui non c’è problema industriale in Italia per il quale non si possa escogitare una soluzione finanziaria, fu il banchiere Enrico Cuccia di Mediobanca a indicare alla Edison la strada da seguire. Bastava procedere, grazie ai fondi freschi messi a disposizione dallo stato, all’acquisizione della Montecatini. Ci volle qualche tempo per preparare l’operazione, ma nell’estate 1966 questa era compiuta. La Edison e la Montecatini si fondevano, mediante incorporazione della seconda nella prima. La nuova società si sarebbe chiamata Montecatini-Edison S.p.a. Fu solamente qualche anno dopo, nel 1969, che la denominazione si sarebbe contratta in Montedison.
Con la fusione era nato un gigante che controllava il 20% del mercato europeo delle materie plastiche, il 10% di quello delle fibre sintetiche e oltre il 15% dei prodotti intermedi15. Un gigante che però aveva i piedi di argilla. Come ogni modesto docente d’una qualsiasi business school avrebbe potuto far preventivamente notare, fondere tra loro culture aziendali differenti è un’operazione assai piú complessa e rischiosa che non la fusione finanziaria di due imprese. È anzi uno dei principali motivi per cui, anche ai giorni nostri, due fusioni su tre falliscono. Il punto è colto perfettamente da due studiosi di questo capitolo di storia della chimica italiana:
[Con la fusione tra Montecatini ed Edison] si trovarono le une accanto alle altre due classi dirigenti, due classi impiegatizie, due classi di tecnici e di maestranze che per anni erano state abituate a scontrarsi e che necessariamente dovevano ora misurarsi l’una con l’altra e trovare il proprio spazio all’interno della stessa azienda. Il conflitto si trasferí cosí dall’esterno all’interno16.
Era la prima esemplificazione concreta, nel settore della grande chimica, del paradosso che vuole che una mega-organizzazione sorta da una fusione sia assai meno efficiente delle organizzazioni che sono andate a comporla. Esistevano ovviamente motivi anche piú sostanziali che concorrevano a creare un colosso intrinsecamente fragile. La chimica era estranea alla storia – se non per un brevissimo periodo – all’anima, alle competenze manageriali dell’impresa, la Edison, che solo grazie all’enorme liquidità di cui disponeva aveva incorporato quella che di chimica si occupava da oltre cinquant’anni, la Montecatini.
L’Eni, gruppo pubblico, che aveva nell’Anic una sua divisione chimica, non aveva ovviamente gradito la formazione di un supergruppo privato capace, sulla carta, di dominare la chimica italiana. Avrebbe potuto affrontare la competizione con la Montecatini-Edison nel modo che i manuali di economia assicurano essere normale tra le imprese capitalistiche, ossia sfidandola sul terreno dell’innovazione di prodotto e di processo, della politica dei prezzi, delle strategie di marketing. Oppure avrebbe potuto cercare di accordarsi con la nuova società per spartirsi su basi territoriali o merceologiche quote dell’immenso e differenziato mercato europeo della chimica, come usano fare gli oligopoli di ogni ramo dell’economia. L’Eni avrebbe potuto cioè seguire la via industriale alla concorrenza, o, al peggio, a quel suo succedaneo che è la spartizione dei mercati, compiuta la quale entro e tra ciascuno di essi qualche forma di concorrenza permane. Preferí invece seguire la via finanziaria al monopolio. Nel corso del 1968, con la partecipazione dell’Iri e con l’assenso del governo, rastrellò in borsa il 15% delle azioni Montecatini-Edison. Una quota che equivaleva di fatto, data la diffusione dell’azionariato della società milanese, ad una partecipazione di controllo. In tal modo la possibilità di una reale concorrenza tra il gruppo pubblico e il gruppo privato veniva soppressa alla radice. Attaccare la Montecatini-Edison avrebbe collocato l’Eni-Anic nella posizione del cacciatore sprovveduto che si spara sui piedi.
Affermatosi nell’eliminare la reciproca concorrenza, il talento dei condottieri dei due gruppi ebbe presto modo di manifestarsi in altre iniziative che avrebbero contribuito a peggiorare il bilancio delle loro aziende. Eni e Montedison – come dal 1969 era denominata la società milanese – si accordarono nei primi anni Settanta per costruire in Sardegna, a Ottana, due giganteschi stabilimenti, al fine precipuo di ottenere altri finanziamenti pubblici. La capacità produttiva dei due impianti, come apparve evidente sin dalla loro entrata in funzione, eccedeva largamente la domanda nazionale e internazionale dei prodotti che fabbricavano. Le conseguenze furono perdite considerevoli17. Mentre l’Eni poteva sopportare tali perdite, giacché la chimica non rappresentò mai piú che pochi punti percentuali del suo volume d’affari – a prescindere dal fatto che si trattava di denaro pubblico – per la Montedison esse si sommavano, per i motivi già menzionati e altre difficoltà sopravvenute, a quelle derivanti dall’andamento negativo della maggior parte delle sue attività.
Tra il 1981 e gli anni successivi viene quindi tentata una nuova operazione di risanamento della società milanese su base finanziaria, iniziata con il conferimento delle azioni Montedison possedute da Eni e Iri a Mediobanca. Ciò nonostante i mercati da un lato, i processi produttivi e i comportamenti organizzativi dall’altro, dimostrarono scarsa sensibilità alla variazione dell’assetto societario della Montedison. Le loro condizioni continuarono a peggiorare, e con esse il bilancio consolidato della holding. Non fu quindi eccessivamente impegnativo per un gruppo industrial-finanziario emergente, il ravennate Ferruzzi, conquistare il controllo della Montedison. Lo fa raccogliendo in borsa, tra la fine del 1986 e la primavera dell’87, il 40% delle azioni di questa. Sembra l’inizio di una nuova stagione per la società nata dalla fusione di due prestigiose aziende fondate a Milano circa un secolo prima.
Purtroppo la nuova stagione dura poco piú di una stagione del calendario. Appena un anno dopo – siamo al 1988 – vengono avviate le trattative tra il gruppo Ferruzzi, le cui finanze erano state messe a repentaglio dalla baldanzosa conquista della Montedison guidata dal suo amministratore delegato Raoul Gardini, e l’Eni, allo scopo di costituire una nuova società – nome di battesimo Enimont, data di nascita 1º gennaio 1989 – alla quale conferire le rispettive attività chimiche. L’Eni avrebbe recato alla Enimont le attività gestite da Enichimica, includenti quelle dell’Anic e delle ex imprese private Sir e Liquichimica, di cui aveva acquisito il controllo verso il 1980; la Montedison le avrebbe ceduto, in forma di azioni, la proprietà di gran parte dei suoi impianti. La fusione fu salutata dagli esperti con entusiasmi non minori, né maggior preveggenza, di quelli che avevano accolto la fusione di Edison e Montecatini. Essi stimavano che la Enimont si sarebbe collocata, in termini di fatturato, tra le prime dieci società chimiche del mondo.
A questo punto le avventure della chimica italiana si susseguono a ritmo incalzante, come pure su un piano via via piú inclinato verso l’abisso. Anche entro la Enimont la convivenza tra i manager provenienti dai due gruppi costituenti, tra le diverse strutture organizzative che si sarebbero dovute uniformare, e anche tra i rispettivi bilanci, si rivela subito ingestibile. Poco piú di un anno dopo la nascita di Enimont l’Eni decide di tagliare il nodo gordiano, acquistando la totalità delle azioni Montedison in Enimont. Avrà cosí il potere di dirigere le attività chimiche secondo i propri criteri. Nel 1991 la società controllata, inizialmente denominata Enichimica, prenderà il nome di Enichem. Nel 1992 questa si collocherà effettivamente tra le prime dieci società chimiche del mondo in termini di fatturato, testa a testa – il che vuol dire, quantificando il fatturato di allora in euro di oggi, mezzo miliardo piú, mezzo miliardo meno – con colossi quali Sandoz, Merck & Co., Mitsubishi Kasei, Roche. I dipendenti superano le 30000 unità.
Supera anche gli 8000 miliardi di lire, sfortunatamente, il debito consolidato dell’Enichem. Dinanzi alla voragine che si apre nei conti del gruppo, l’Eni corre ai ripari a colpi di dismissioni e di tagli all’occupazione. Numerosissimi impianti produttivi d’ogni dimensione, delle piú diverse specializzazioni, vengono chiusi o ceduti a imprese italiane ed estere. Da fine 1992 a fine 2000 gli occupati scendono da oltre 30000 a meno di 1300018. Il seguito della storia vede l’Eni che a far data dal 1º gennaio 2002 costituisce una nuova divisione, la Polimeri Europa, alla quale l’Enichem conferisce tutti i suoi stabilimenti esteri e la maggior parte di quelli italiani. Per sé tiene solamente un insieme di attività di servizio. Nel corso del 2002 l’Eni avvia una trattativa con un gruppo di proprietà saudita, la Sabic (Saudi Basic Industries Corporation), al fine di cedergli il pacchetto di maggioranza posseduto in Polimeri Europa. Ancora un anno dopo la trattativa non sembrava aver avuto successo, ma stava a dimostrare l’intenzione dell’Eni di uscire completamente dal settore della chimica, fatte salve le attività piú direttamente legate ai derivati del petrolio. Intenzione peraltro espressa senza ambiguità dai dirigenti Eni in piú occasioni, comprese le citate audizioni sull’industria chimica tenutesi dinanzi alla Commissione Attività produttive della Camera.
Piú o meno alla stessa data anche le attività chimiche della Montedison si potevano considerare pressocché estinte. Schiacciato da un indebitamento consolidato di oltre 31000 miliardi di lire, il gruppo Ferruzzi-Montedison aveva rischiato nel 1993 di dover portare i libri in tribunale. Venne salvato solamente dall’azione svolta nei confronti delle 311 (trecentoundici) banche creditrici, nazionali ed estere, da un gruppo di intervento formato da alcune delle maggiori aziende di credito italiane, guidato ancora una volta da Mediobanca. Nell’occasione aveva già dovuto sacrificare una parte di quanto le rimaneva come resto del suo impero chimico. Otto anni dopo, tra il 2001 e il 2002, questo scompare del tutto con la cessione di Ausimont, apparsa necessaria – insieme con il sacrificio di molte altre società controllate – dopo che il controllo della Montedison era passato ad una nuova società, la Italenergia, per c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La scomparsa dell'Italia industriale
  3. Introduzione Dei criteri seguiti per disfarela grande industria senza crearne di nuova
  4. I. «Un neo da estirpare»: l’informatica
  5. II. L’aeronautica civile: l’impegno a restare piccoli
  6. III. Formule nocive per la chimica
  7. IV. Il brevetto rifiutato e l’elettronica di consumo
  8. V. Cessioni e smembramento di imprese high tech
  9. VI. L’automobile: strategie non riuscite per diventare grandi
  10. VII. Quali riforme per una politica industriale?
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright