La città come opera d'arte
eBook - ePub

La città come opera d'arte

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

La città come opera d'arte

Informazioni su questo libro

La città europea è da sempre l'ambiente della nostra civitas democratica. Quello dove i cittadini si riconoscono come tali, dove sono cresciuti i diritti umani e le libertà. Per questo i muri dell'urbs sono stati immaginati con la pretesa di offrire una prospettiva di eternità nella quale radicare le nostre speranze terrene e riconoscerci pienamente come cittadini. Il degrado delle periferie europee, i cui abitanti sono privati della loro appartenenza alla civitas, è uno dei disastri del Novecento. L'Europa è stata capace di risollevarsi dalle sbandate per i totalitarismi, salvata dall'antica radice democratica della civitas, ma non sembra ancora avviata a rigenerare con altrettanta consapevolezza la consolidata figura dell'urbs.
Senza alcuna nostalgia tradizionalista, Marco Romano ci invita a riscoprire il linguaggio consolidato attraverso i secoli nella sfera estetica della città. Quel linguaggio che non è soltanto una declinazione artistica tra le tante, ma il solo modo con il quale la civitas esprime il sentimento della propria cittadinanza e il riconoscimento della dignità dei suoi cittadini. «Da mille anni in Europa la sfera estetica della città è il mondo simbolico delle nostre libertà e dei nostri diritti. Se vogliamo sanare le ferite delle avanguardie e il disastro delle periferie occorre conoscere e applicare le regole consolidate della bellezza».

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a La città come opera d'arte di Marco Romano in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Architettura e Architettura generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806192563

Parte prima

Il principio estetico

Perché un manufatto possa venire considerato un’opera d’arte è consuetudine ritenere che debba essere stato realizzato proprio con quella consapevole intenzione di farne un’opera d’arte e che d’altra parte esista qualcuno – magari soltanto il suo committente o il suo acquirente – che la consideri tale e come tale la apprezzi.
Vero è che per darne un giudizio estetico noi impieghiamo l’opposizione semantica bello/brutto, cui ricorriamo anche per altre cose nelle quali quell’intenzione manca e dunque vere e proprie opere d’arte non sono: «bello» è infatti un paesaggio, «bello» un tramonto, «bello» il corpo di una persona – tutte cose messe dalla natura sul nostro cammino senza quell’intenzione – e «bella» è anche talvolta per noi una città davvero accuratamente pulita, anche se la sua pulizia non è l’esito di un’intenzione di renderla bella.
Ma questa vasta gamma tematica del giudizio bello/brutto non ci impedisce di riconoscere la differenza tra i campi nei quali il suo oggetto è un prodotto della natura o è comunque un fatto accidentale – e dove si tratta di registrare il suo maggiore o minore corrispondere a un modello mentale della bellezza che la nostra cultura ha immaginato o che forse serbiamo da sempre come un archetipo – da quello specifico dell’opera d’arte, dove è l’artista medesimo a proporre un modello che non esiste nella natura, anche quando era d’uso sottolineare come supremo fine di un artista proprio la sua imitazione.
La pretesa di considerare la città come un’opera d’arte incontra qualche difficoltà perché il suo paesaggio visibile, che costituisce il tema della volontà e dell’apprezzamento estetici, è costituito da molte e diverse categorie di manufatti – in sostanza case private frammiste a vari spazi ed edifici collettivi, di solito pubblici – ciascuno dei quali corrisponde a una sua propria specifica sfera espressiva con propri codici di lettura e di apprezzamento, che tuttavia nel loro insieme debbono riuscire a dar luogo, perché poi la città possa venire considerata un’opera d’arte, a un manufatto in qualche modo unitario.
Questo libro mostra, nella prima parte, come e perché la città lievitata in Europa negli ultimi mille anni possa legittimamente venire considerata tutta intera un’opera d’arte, dal momento che i suoi singoli manufatti sono stati immaginati in se stessi per essere tali e che la loro reciproca disposizione è stata a sua volta pensata proprio con quell’intenzione.
Se la città è un’opera d’arte sarà per sua natura il tema di un giudizio critico, un giudizio in ogni città competenza di ciascun cittadino per il suo diritto a contribuire al suo modificarsi nel corso della propria generazione, ma che è poi anche quello del cittadino di un’altra città che la visiti: e questa visita sarà per lui un esercizio critico – come l’apprezzamento di un quadro o di una poesia – per il quale vengono suggeriti, nella seconda parte di questo libro, i principî fondamentali.
Come ogni opera d’arte la città ha un suo committente: nel nostro caso quell’insieme dei suoi cittadini che ne fondano il Comune – originale creazione europea – per i quali la sua bellezza costituisce un obiettivo ma anche il riconoscimento della loro stessa esistenza collettiva, sicché implica un significato sociale che pervade in linea di principio l’intera comunità. Ma come molti altri principî anche questo, che la bellezza voluta dall’intera cittadinanza sia poi percepita e vissuta da tutti i cittadini nella medesima maniera, costituirà per secoli un problema, al cui approfondimento abbiamo dedicato la terza e ultima parte di questo libro.

Case

Da mille anni in Europa le case hanno una facciata piú o meno decorata con l’intenzione di renderla bella, ricorrendo a una consolidata e costante sequenza di elementi architettonici – sempre per consuetudine i medesimi – il cui diverso trattamento consente di fatto una gamma espressiva praticamente illimitata. Questa sequenza, alla quale siamo cosí assuefatti da non percepirla neppure, consiste di solito in un basamento lavorato e in qualche modo distinto dai piani superiori, nel solenne portone dell’ingresso, nell’eleganza delle modanature intorno alle finestre, nelle complicate balaustre dei balconi, in uno spigolo sottolineato che irrobustisca gli angoli, e infine in un cornicione o in un tetto sporgente che la concluda in alto.
Le facciate piú cospicue ricorreranno all’intera gamma della sequenza – magari arricchendola di bassorilievi, di ringhiere lavorate, di decorazioni pittoriche, di aerei loggiati –, le piú modeste a semplici cornici di pietra alle porte e alle finestre, e quelle poverissime – dipinte da Ambrogio Lorenzetti o dal Vecchietta – almeno a un vaso di fiori, indizio comunque di una esplicita intenzione estetica esposta sulla strada al giudizio dei passanti.
Le Corbusier aveva sostenuto, negli anni Venti del Novecento, che la modernità dovesse consistere proprio nel cancellare codesti elementi, prescrivendo nei suoi manifesti il piano terreno libero dove compaiono soltanto i pilastri – cancellato dunque il basamento, come in tutte le case di Brasilia –, finestre in un nastro orizzontale continuo che avrebbe impedito di per se stesso i timpani e le cornici consueti, e infine il tetto piano senza alcuna sporgenza. Ma di fatto poi gli architetti si guarderanno bene dal seguire questi principî e le facciate delle case moderne avranno gli stessi elementi costitutivi della loro bellezza, disegnati in un nuovo stile affiancato a quelli in uso fino a ottant’anni fa: anche se poi il rigore del purismo moderno è diventato la distesa di case anonime e insignificanti dei quartieri contemporanei.
Questa usanza europea di decorare la facciata non è quella della città romana, delle città cinesi o di quelle dell’Islam, dove le case erano tutte raccolte intorno a un cortile interno e sulla strada mostravano soltanto muri nudi appena tagliati dall’ingresso, come le vediamo a Pompei o a Ercolano o negli udoing di Pechino o come le raccontano le Mille e una notte a Bassora, dove il califfo Hārūn al Rashīd intuisce la ricchezza di Sindbad soltanto per la musica echeggiante oltre il muro sulla strada o come a Granada nell’Alhambra, le cui severe mura esteriori nulla fanno presagire dell’interno fasto.
Nella massima parte delle società umane gli uomini sono infatti appartenuti prima di tutto a gruppi cementati da un legame di sangue – la gens, il clan, la tribú – i cui ricorrenti modelli di casa sono appunto le grandi corti di Pompei, di Pechino, di Bassora, dove coabita l’intera stirpe, dove ogni generazione ha propri locali e della solitudine dei vecchi, dei problemi connessi alla loro assistenza, nessuno ancora oggi ha mai sentito parlare.
Sicché lí la città è costituita essenzialmente dall’insieme di codesti gruppi, che potrebbero in qualche misura abbandonarla senza perdere la loro esistenza sociale, la gens romana rifugiandosi nelle proprie villae di campagna – come quella di Piazza Armerina – seppure rinunciando ai suoi piaceri, alle terme ai teatri agli anfiteatri o alla varietà delle merci nell’agorà, e le tribú di Baghdad e del Cairo riprendere la strada del deserto pregando la sera il Signore sui loro tappeti, sotto le stelle.
Ma intorno all’anno Mille in Europa è nata una società nella quale l’affiliazione a un clan è diventata secondaria e le persone appartengono prima di tutto a una città – in questo libro il termine «città» designa tutti i suoi centomila abitati, dal villaggio alla capitale –, una civitas organizzata in famiglie nucleari tenute volonterosamente in piedi per secoli procrastinando i matrimoni finché la nuova coppia trovasse il campo patrimoniale liberato dalla vecchiaia o dalla morte dei genitori, che oggi invece continuano felicemente a vivere all’ombra della pensione. «Ogn’om che al mondo vene | nasce primamente ai suoi e al suo Comune», dirà Brunetto Latini, il maestro di Dante, sicché per essere cittadini europei occorrerà avere la propria residenza in un Comune.
Questo Comune è da mille anni una società aperta perché chiunque può farne parte (da quando abbiamo qualche dato statistico, ottocento anni fa, gli abitanti autoctoni di rado superano il 50%) e ne diventa cittadino alla sola condizione di condividerne gli statuti – un tempo con un solenne giuramento pubblico rinnovato annualmente e oggi con la mera sottoscrizione di un modulo – e di possedervi una casa a qualsiasi titolo, in proprietà ma anche in affitto, residenza che un vigile urbano si incaricherà di verificare: mentre anche della mitica polis ateniese erano cittadini soltanto i discendenti dei fondatori, meteci e liberti esclusi senza remissione.
Beninteso codesta apertura di principio è poi sottoposta a continue vessazioni, cui chi è già cittadino sottoporrà chi vuole diventarlo, come il praticare un lavoro riconosciuto e il risiedere per un certo periodo di attesa, condizioni gestite a seconda dei tempi con mano piú o meno leggera – da quando esistono le nazioni peraltro inoperanti per gli altri connazionali – e in ogni caso non nei confronti degli immigrati piú ricchi, «la gente nova e i subiti guadagni» di Dante, sempre accetta se non benvenuta.
Questa società è poi una società mobile, nel senso che qualsiasi cittadino può ascenderne la gerarchia sociale, sicché un conciatore potrà diventare nel Trecento sindaco di Strasburgo e un macellaio di Bologna nel secolo successivo, e oggi Riccardo Illy, Beppe Pericu o Letizia Moratti di Trieste o di Genova o di Milano. Anche qui è l’affermazione di un principio perché noi sappiamo bene che persistono tuttora clamorose barriere sociali, e per questo in molte città, fino all’avvento della impersonale democrazia moderna nell’Ottocento, le cariche venivano spesso sorteggiate, una volta all’anno, tra tutti quelli che ne avevano diritto – un diritto la cui soglia era di solito patrimoniale –, e a chi non era stato sorteggiato veniva comunque assegnato un qualche incarico pubblico che rendesse effettiva la partecipazione alla vita collettiva, a Siena almeno ogni quattro anni.
Mentre nelle altre parti del mondo le città erano dovunque costituite dalla giustapposizione di decine di recinti occupati da una qualche tribú formata da molti clan – ma talvolta anche da una corporazione o da una etnia o, come i ghetti europei, da una comunità di fede – che alla sera chiudevano le proprie porte, e a Pechino, circondati da un canale, alzavano il ponte levatoio, le famiglie nucleari delle città europee abitano invece ciascuna nella propria casa, case accomunate dalla loro contiguità fisica, che presentano lungo le strade facciate la cui decorazione esteriore mostra l’evidente intenzione di volerle belle.
Se un cittadino è infatti tale perché ha il possesso della propria casa, e se la società è mobile, sarà quasi scontato che ogni famiglia esprima pubblicamente il proprio status nella facciata della casa, e per questo le strade europee dei primi secoli – delle quali sopravvivono dovunque pittoreschi brandelli – erano fiancheggiate da case strette strette addossate le une alle altre, in genere larghe sui cinque metri (quanto era lunga una trave appoggiata sui due muri laterali) e sviluppate in profondità, con magari un piccolo cortile e soprattutto un orto, mentre in seguito prenderanno consistenza – dopo l’invenzione dei camini comuni che permettevano di sovrapporre gli alloggi – case condominiali abitate da famiglie di un ceto sociale omogeneo.
Quanto le facciate delle case esprimano le differenze di status è nostra esperienza comune, gli intonaci poveri e i serramenti malamente verniciati dei quartieri popolari contrapposti ai marmi e ai portoni scintillanti delle case piú ricche, proprio come un tempo i palazzi delle famiglie eminenti emergevano – con la ricchezza della loro decorazione e con la solennità della loro veste architettonica – sul mare uniforme dei tetti.
Alla decorazione delle case nessun limite è mai stato imposto, se non il ricorrente rimprovero morale dei predicatori trecenteschi ai fedeli piú doviziosi per lo sperpero di quel denaro che avrebbe ben altrimenti giovato alla salute eterna delle loro anime se distribuito ai poveri, rimprovero laicamente rinnovato, ancora nell’Ottocento, dall’altrettanto ricorrente idea di Engels che per risolvere il problema dell’alloggio dei meno abbienti sarebbe bastato spartire i troppo grandi appartamenti dei borghesi.
D’altra parte lo status di un cittadino non ha a che vedere soltanto con la ricchezza ma anche con altri fattori di attendibilità sociale, tra i quali la sensibilità estetica soggettiva e la consuetudine collettiva al suo significato, sicché il giudizio dei cittadini sulla singola facciata non sarà necessariamente omogeneo, perché la libertà dei comportamenti a fondamento della mobilità comporta anche, in se medesima, la varietà dei legittimi punti di vista estetici, e le case operaie a ringhiera dell’Ottocento, in molte città considerate tout court da demolire, diventeranno – ora garbatamente reintonacate – apprezzate e costose abitazioni dell’élite milanese.
Il confronto di status richiede tuttavia che per costituirne la leggibile rappresentazione in ogni città, la gamma delle case, la loro dimensione, lo stile architettonico corrente e il suo vigore nelle facciate corrispondano a una conformità locale diversa da città a città, che renda poi le differenze davvero percepibili a tutti i cittadini di una stessa civitas, sicché la propensione per le case di ringhiera dei ceti abbienti milanesi non verrà per molto tempo condivisa a Palermo o a Torino, i cui quartieri antichi venivano invece lasciati progressivamente degradare.
Conformismo che sedimenta poi a partire dalla occasioni piú diverse, i mattoni delle facciate di Firenze reintonacati alla maniera di Parigi dai maggiorenti che vi avevano accompagnato Caterina sposa del re, ma anche – quando alla metà dell’Ottocento diventerà accessibile con la ferrovia la calce di Casale, piú a buon mercato ma non proprio bianchissima – le facciate di Milano e di Torino tutte gialle, colore confermato dagli architetti locali di cinquant’anni fa come caratteristica i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La città come opera d’arte
  3. Indice delle illustrazioni
  4. Parte prima. Il principio estetico
  5. Parte seconda. La critica estetica della città
  6. Parte terza. La bellezza e la giustizia
  7. Nota bibliografica
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright