O primavera, gioventú dell’anno,
Bella madre di fiori,
D’erbe novelle e di novelli amori...
Pastor fido
Mi chiedete, amico, se mi sia possibile ritrovare qualcuno dei miei versi d’un tempo, e addirittura v’interessa sapere come io sia stato poeta, prima di farmi umile prosatore.
Vi spedisco le tre età del poeta – in me è rimasto solo il prosatore ostinato. Ho scritto i primi versi per entusiasmo di gioventú, i secondi per amore, gli ultimi per disperazione. La Musa mi è entrata in petto come una dea dalle parole dorate; ne è fuggita come una pizia, con alte grida di dolore. Però, a mano a mano ch’ella si allontanava, i suoi ultimi accenti si addolcivano. Per un attimo si volse indietro, e rividi come in un miraggio l’effigie adorata d’un tempo!
La vita di un poeta è quella di tutti. Inutile definirne le varie fasi. E adesso:
Riedifichiamo, amico, il castello precario
Che il soffio del mondo gettò sulla rena.
Rimettiamo il sofà sotto i quadri fiamminghi...1.
O primavera, gioventú dell’anno,
Bella madre di fiori,
D’erbe novelle e di novelli amori...
Pastor fido
Mon ami, vous me demandez si je pourrais retrouver quelques-uns de mes anciens vers, et vous vous inquiétez même d’apprendre comment j’ai été poète, longtemps avant de devenir un humble prosateur.
Je vous envoie les trois âges du poète – il n’y a plus en moi qu’un prosateur obstiné. J’ai fait les premiers vers par enthousiasme de jeunesse, les seconds par amour, les derniers par désespoir. La Muse est entrée dans mon cœur comme une déesse aux paroles dorées; elle s’en est échappée comme une pythie en jetant des cris de douleur. Seulement, ses derniers accents se sont adoucis à mesure qu’elle s’éloignait. Elle s’est détournée un instant, et j’ai revu comme en un mirage les traits adorés d’autrefois!
La vie d’un poète est celle de tous. Il est inutile d’en définir toutes les phases. Et maintenant:
Rebâtissons, ami, ce château périssable
Que le souffle du monde a jeté sur le sable,
Replaçons le sopha sous les tableaux flamands...
I.
Via del Doyenné
Nel nostro comune alloggio di via del Doyenné ci eravamo riconosciuti fratelli – Arcades ambo – in un angolo del vecchio Louvre dei Medici, vicino al luogo in cui sorgeva l’antico palazzo di Rambouillet.
Il vecchio salotto del decano, con le quattro porte a doppio battente e il soffitto istoriato a rocce e biscioni, – restaurato dalle cure di tanti pittori amici nostri, che poi divennero celebri, risonava di rime galanti, spesso trapassate dalle risa gioiose e dalle folli canzoni delle Cidalise.
Il buon Rogier sorrideva nella barba dall’alto d’una scala a pioli, dove stava dipingendo su uno dei tre sovraspecchi un Nettuno, che gli somigliava! Poco dopo, i due battenti d’una porta si spalancavano fragorosamente: era Teofilo. Ci precipitavamo a offrirgli una poltrona Luigi XIII, e anch’egli leggeva i suoi primi versi, – mentre Cidalisa Prima, o Lolly, o Vittorina, si dondolava languidamente sull’amaca di Sara la bionda, tesa attraverso il salone immenso.
Ogni tanto qualcuno di noi si alzava e sognava versi nuovi, contemplando dalle finestre le facciate scolpite della galleria del museo, rallegrata, da quel lato, dagli alberi del maneggio.
L’avevate detto:
Teo, rammenti come le verdi stagioni
Si sfogliavano rapide nelle vecchie case
Con la fronte protetta sotto un’ala del Louvre?
Oppure dalle finestre opposte, che davano sul vicolo cieco, lanciavamo vaghi adescamenti agli occhi spagnoli della moglie del commissario, che abbastanza spesso comparivano sopra la lanterna municipale.
Che tempi felici! Davamo balli, cene, feste mascherate, – recitavamo vecchie commedie in cui la signorina Plessy, ancora ai suoi inizi, non sdegnava d’accettare una parte: – quella di Beatrice in Jodelet. E il nostro povero Edoardo, com’era buffo nella parte di Arlecchino!
Eravamo giovani, sempre allegri, spesso ricchi... Ma ho fatto vibrare la corda cupa: il nostro palazzo è stato raso al suolo. L’autunno scorso ho camminato sui suoi detriti. Non sono state rispettate neanche le rovine della cappella, che si stagliavano con tanta grazia contro il verde degli alberi, e la cui volta crollò un giorno, nel Settecento, su sei sventurati canonici riuniti a celebrare un uffizio. Il giorno in cui abbatteranno gli alberi del maneggio andrò sul posto, a rileggere la Foresta Distrutta di Ronsard:
Ascolta, boscaiolo, ferma un istante il braccio:
Non sono tronchi quelli che tu abbatti;
Non vedi a stento trasudare il sangue
Delle ninfe, vive sotto la corteccia?
Come sapete, la fine è la seguente:
La materia permane e la forma si sperde!
In quel periodo mi ritrovai abbastanza ricco, ancora per un giorno, da sottrarre ai demolitori e acquistare due boiseries intere da salotto, decorate dai nostri amici. Ho le due sovrapporte di Nanteuil; il Watteau di Vattier, firmato; i due lunghi pannelli di Corot, che rappresentano due Paesaggi provenzali; il Monaco Rosso di Châtillon, intento a leggere la Bibbia sopra il fianco ondulato di una donna, nuda e addormentata; le Baccanti di Chassériau, con le tigri al guinzaglio come cani; i due trumeaux di Rogier, dove la Cidalisa in costume Reggenza – abito di taffetà color foglie morte, triste presagio – sorride con i suoi occhi cinesi, respirando una rosa di fronte al ritratto in piedi di Teofilo, vestito alla spagnola. L’odioso proprietario, che abitava al pianterreno, ma sulla cui testa danzavamo troppo spesso, dopo due anni di patimenti, che lo indussero a darci lo sfratto, fece ricoprire quei dipinti con uno strato di colore a tempera, perché diceva che le nudità gli impedivano di affittare ai borghesi. – Benedico il senso dell’economia, che lo indusse a evitare la pittura a olio.
E cosí, tutto o quasi si è salvato. Non sono riuscito a trovare l’Assedio di Lerida, di Lorentz, in cui l’esercito francese si lancia all’assalto preceduto dai violini; e neanche i due piccoli Paesaggi di Rousseau, che probabilmente erano già stati ritagliati via; ma del Lorentz ho una marescialla incipriata, in uniforme Luigi XV. – Quanto al letto Rinascimento, alla mensola Medici, alle due credenze, al Ribeira, agli arazzi dei Quattro Elementi, erano andati dispersi molto tempo prima. «Dove avete perso tante belle cose?» mi chiese un giorno Balzac. «Nelle disgrazie!» risposi, citando una delle sue battute preferite.
II.
Ritratti
Riparliamo della Cidalisa, o piuttosto diciamo di lei soltanto questo: – È imbalsamata e conservata per sempre nel puro cristallo d’un sonetto di Teofilo, – Teo, come lo chiamavamo noi.
Di Teofilo si è sempre detto che era bene in carne; tuttavia non ha mai messo su pancia, e si è conservato tal quale l’abbiamo conosciuto. I nostri abiti striminziti sono cosí assurdi, che l’Antinoo in frac sembrerebbe enorme, come la Venere in vesti moderne: il primo avrebbe l’aria d’un fusto dei mercati agghindato a festa, l’altra d’una pescivendola. La colossale armatura del corpo del nostro amico (se ne può parlare, perché sta viaggiando in Grecia) sovente gli nuoce presso le signore abbonate ai giornali di moda; una conoscenza piú approfondita gli ha conservato il favore del sesso piú debole e intelligente; nella nostra cerchia godeva d’una grande reputazione, e non sempre gli toccava perire ai piedini cinesi della Cidalisa.
Risalendo indietro nei ricordi trovo un Teofilo magro... Non lo avete conosciuto. Lo vidi un giorno disteso sul suo letto, – lungo e verdognolo – col petto coperto di ventose. Se ne andava a raggiungere pian piano il suo pseudonimo, Teofilo di Viau, del quale avete descritto gli amori panteisti – lungo l’ombroso cammino del Viale di Silvia. Quei due poeti, separati da due secoli, si sarebbero stretti la mano un po’ troppo presto, nei Campi Elisi di Virgilio.
I fatti erano questi:
Eravamo parecchi amici d’una cerchia precedente, e menavamo una vita allegra, che allora andava di moda perfino fra gente seria. Quel Teofilo morente ci stringeva il cuore, e avevamo sull’...