Auschwitz spiegato a mia figlia
eBook - ePub

Auschwitz spiegato a mia figlia

  1. 88 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Auschwitz spiegato a mia figlia

Informazioni su questo libro

Per quale motivo i nazisti spesero tante energie per sterminare milioni di uomini, donne e bambini ebrei? Perché Hitler riteneva che gli ebrei fossero la maggior minaccia per il Terzo Reich? Chi sapeva quello che stava succedendo, e chi poteva fare qualcosa? Per quale ragione gli ebrei non hanno opposto resistenza? Annette Wieviorka risponde alle domande crude e dirette di sua figlia Mathilde su Auschwitz e sull'assurda tragedia dei lager nazisti. Un dialogo serrato e puntuale sull'enigma del male assoluto.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Auschwitz spiegato a mia figlia di Annette Wieviorka, Eliana Vicari Fabris in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Storia mondiale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806219130
eBook ISBN
9788858413999
Argomento
Storia

Annette Wieviorka

Auschwitz spiegato a mia figlia

Traduzione di Eliana Vicari Fabris
Postfazione di Amos Luzzatto
Note all’edizione italiana di Frediano Sessi

Einaudi

A mia figlia Mathilde.
Alle mie nipoti Sophie, Ève, Elsa e Nadia.

L’estate scorsa, mentre eravamo in vacanza, abbiamo incontrato sulla spiaggia una mia amica, Berthe. Dieci anni prima ne avevo raccolto la testimonianza sulla deportazione nel lager di Auschwitz-Birkenau, e avevamo subito simpatizzato. Non passava quasi settimana senza che ci facessimo almeno una telefonata per discutere dei diversi avvenimenti d’attualità che riguardavano il genocidio degli ebrei, il processo di Maurice Papon, il film di Roberto Benigni, La vita è bella… Mathilde, mia figlia, che allora aveva tredici anni, conosceva Berthe e ovviamente sapeva che era stata ad Auschwitz. Spesso, quando non ero in casa, parlava con lei al telefono. Eppure, quell’estate rimase scioccata vedendo un numero sull’avambraccio sinistro di Berthe, un tatuaggio fatto con dell’inchiostro azzurrognolo. D’un tratto tutto ciò che aveva visto a casa, alla televisione, nei film o a scuola si incarnava, diventava in qualche modo reale.
Qualche anno prima quando frequentava le elementari, Mathilde aveva dovuto disegnare il suo albero genealogico. Per i nonni era stato semplice, li aveva conosciuti; per i suoi bisnonni, invece, era difficile indicare con esattezza la data e il luogo del decesso. Ad Auschwitz erano morti sia i parenti di suo padre, Rywka Raczymow, che i miei, Roza e Wolf Wieviorka. La sua bisnonna materna, Ewa Perelman, era stata uccisa dai tedeschi nei pressi di Châlonssur-Marne, dopo la grande retata del Vél’d’Hiv1 del 16 luglio 1942, mentre cercava di attraversare la linea di demarcazione che separava allora la zona occupata da quella libera. Erano stati assassinati anche alcuni zii che tuttavia non figuravano nell’albero genealogico. Sia io che suo padre avevamo ereditato il nome di un familiare morto ad Auschwitz. Quanto ci ha condizionato quest’eredità? Lui come scrittore, io come storica, abbiamo subito indirettamente questa vicenda e, nel tentativo di dominarla, le abbiamo consacrato una parte del nostro lavoro. Era impossibile che Mathilde, a tredici anni, non lo sapesse: ne discutevamo troppo spesso fra noi e con i nostri amici. A casa sono sempre circolati molti libri e molte riviste su quei fatti, e mi aveva sentito parlare di quell’argomento anche alla radio o alla televisione. Eppure, in realtà, non mi aveva mai posto domande, non avevo mai dovuto «spiegarle» nulla.
Una cosa mi ha colpito soprattutto mentre cercavo di rispondere a Mathilde, di spiegarle che cos’era Auschwitz: il fatto che le sue domande fossero le stesse che continuano ad assillarmi. Le stesse che da piú di mezzo secolo alimentano la riflessione degli storici e dei filosofi. Domande cui è difficile rispondere. Erano solo espresse in modo piú crudo, piú diretto. In qualità di storica, ovviamente, è piuttosto facile per me descrivere Auschwitz, raccontare come si è svolto il genocidio degli ebrei. A un certo punto ci si scontra, però, con un nocciolo assolutamente incomprensibile e quindi inspiegabile: perché i nazisti decisero di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra? Perché spesero tanta energia per andare a scovare vecchi e bambini ai quattro angoli dell’Europa che occupavano – da Amsterdam a Bordeaux, da Varsavia a Salonicco – soltanto per sterminarli?

Perché quel numero tatuato sul braccio di Berthe?
Berthe fu, come si dice, deportata. Deportata significa in senso proprio che fu trasportata contro la sua volontà dal paese in cui viveva, la Francia, in un altro paese, la Polonia. Quando si parla di deportati durante la seconda guerra mondiale, non bisogna dimenticare che la fine del viaggio coincide con un campo di concentramento.
Perché dici che l’hanno trasportata in Polonia?
Perché il campo di Auschwitz, cui era destinata, si trovava in terra polacca.
Qual è esattamente la storia di Berthe? È strano, la conosco da sempre e in realtà non so niente di lei.
Berthe fu arrestata a Parigi il 16 luglio del 1942. Quel giorno la polizia francese arrestò, per ordine dei tedeschi, circa 13 000 ebrei. Le coppie con figli furono rinchiuse al Velodromo d’Inverno, un grande stadio dove prima della guerra si svolgevano gare ciclistiche e riunioni politiche. Per questo l’arresto di massa del 16 luglio è noto come la retata del Vél’d’Hiv.
Che cos’è una retata?
È un arresto in massa effettuato all’improvviso dalla polizia. Oggi lo stadio del Velodromo d’Inverno non esiste piú, ma, nel luogo in cui sorgeva, ogni anno si svolge una cerimonia commemorativa. Berthe aveva diciannove anni ed era nubile. Per questo motivo non fu portata al Velodromo d’Inverno, ma condotta in autobus, assieme a chi non era sposato e alle coppie senza figli, in un campo vicinissimo a Parigi, a Drancy.
Drancy era un campo di concentramento?
Sí, perché un campo di concentramento è un posto in cui vengono concentrate persone private della libertà. Drancy non assomigliava, però, ai lager nazisti. All’epoca in cui vi arrivò Berthe, era un campo di transito dove si restava per poco tempo in attesa della deportazione definitiva nei lager. Berthe fu trattenuta soltanto per una quindicina di giorni, poi, sempre in autobus, fu condotta da quel campo fino a Bobigny, una piccola stazione. Lí, venne costretta a salire su un vagone merci con circa altre mille persone. Il viaggio, durato tre giorni e tre notti, fu atroce. Era estate, faceva un caldo insopportabile in quel vagone dov’erano ammucchiati uomini, donne e bambini, senza niente da mangiare e, quel che è peggio, senza niente da bere. Si può impazzire per la sete e alcuni effettivamente diventarono pazzi. A un certo punto arrivarono in una piccola stazione, in un posto che allora nessuno conosceva. Si chiamava Oświęcim, in polacco, e Auschwitz, in tedesco.
Perché due nomi per indicare la stessa località?
La regione dell’Alta Slesia, sorta di limite estremo del mondo, che si trova a sud della Polonia, fu annessa alla Germania nazista nel 1939. A partire da quella data tutto venne ribattezzato con nomi tedeschi.
Images
Quando si aprirono le porte dei convogli – è una scena che hai visto ricostruita in molti film – Berthe sentí urla in tedesco e latrati di cani. Poiché era vissuta in Germania (aveva lasciato il paese a dieci anni, nel 1933, dopo che Adolf Hitler aveva preso il potere), capiva il significato di quelle grida: dovevano sbrigarsi, depositare pacchi e valigie sulla banchina dove si affannavano uomini di una magrezza incredibile, con i crani rasati, vestiti con abiti a righe, simili a pigiami. I tedeschi dissero che tutti coloro che erano stanchi potevano recarsi al campo in camion e separarono i nuovi arrivati in due gruppi. Chi era affaticato – le persone anziane, i bambini, le donne visibilmente incinte – salí sui camion. Gli altri, fra cui Berthe, proseguirono a piedi. Successivamente gli uomini furono separati dalle donne e rinchiusi in sottocampi diversi. Berthe finí a Birkenau, a circa tre chilometri dal campo principale di Auschwitz, da cui dipendeva.
Che cosa successe allora?
Le donne furono costrette a spogliarsi. A quei tempi mettersi nudi davanti a sconosciuti rappresentava un trauma. Per molte di loro, questa fu la prima umiliazione. Poi vennero perquisite fin negli orifizi piú intimi, portate sotto le docce, rasate: testa, ascelle, pube. Seguí la distribuzione dei vestiti. Non pigiami o abiti a righe come quelli che si vedono nelle fotografie, nei film o nei musei ma abiti qualsiasi, tutti sbrindellati, di una sporcizia ripugnante. Erano vestiti recuperati nelle valigie delle deportate che le avevano precedute, di qualità troppo scadente per essere conservati dai tedeschi, o già usati da altre detenute. Alla fine, servendosi di una specie di stilografica metallica e di un inchiostro azzurro – è quel che hai visto sull’avambraccio di Berthe –, incisero nelle loro carni un numero indelebile.
Era doloroso?
A quanto mi è stato detto, in genere, non faceva molto male. Ma contribuiva a privarli dell’ultima cosa che ancora possedevano, il loro nome. Ormai venivano chiamati solo con quel numero inciso per sempre sulla pelle. Un numero da pronunciare rigorosamente in tedesco durante gli appelli che radunavano tutti i detenuti, mattina e sera, sulla piazza del campo, e che a volte duravano ore e ore. Non possedevano piú nulla della loro vita precedente, né un oggetto, né una fotografia, né un vestito. «Nulla è piú nostro», scrive Primo Levi in Se questo è un uomo, libro che l’autore pubblicò subito dopo essere uscito dal lager e che ti consiglio di leggere: «Ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli […]. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sí che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga». Erano entrati in un altro mondo, un universo descritto nelle testimonianze di molti sopravvissuti ed evocato, probabilmente nel modo migliore, da Primo Levi: «Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso piú fortunato, in base a un puro giudizio di utilità».
Non sapevo che Berthe fosse tedesca e che avesse dovuto lasciare il suo paese nel 1933, quando Hitler salí al potere.
In effetti Berthe era tedesca. La sua famiglia viveva come tutte le altre famiglie tedesche appartenenti alla stessa classe sociale. Suo padre faceva il medico, lavorava in un ospedale ed era stimato dai colleghi. Non appena Hitler e il partito nazista giunsero al potere, cominciarono a tradurre in fatti l’odio che nutrivano verso gli ebrei. Il primo obiettivo di Hitler fu quello di separarli dagli altri tedeschi, di tagliare a uno a uno i fili che li univano alla società e all’economia del paese. Chi era bollato come ebreo non poteva piú conservare il lavoro, né andare in piscina, a teatro, ai concerti… I suoi figli erano obbligati a frequentare scuole speciali. La vita non era per niente facile. Dei circa 500 000 ebrei che vivevano in Germania, pochi erano davvero osservanti. Per questa minoranza essere ebrei significava adottare un certo stile di vita. Alcuni di loro, ad esempio i sionisti, erano impegnati politicamente. I membri di questo movimento volevano che gli ebrei avessero una loro patria in terra di Palestina e nel 1948, dopo la fine della guerra, fondarono lo stato di Israele. Ma altri, la maggioranza, erano perfettamente integrati e per loro essere ebrei non aveva piú alcun significato. Non erano praticanti, non erano affiliati a nessuna associazione ebraica, non sapevano piú nulla dell’ebraismo. Alcuni ebrei tedeschi o i loro genitori o addirittura i loro nonni si erano perfino convertiti al cattolicesimo o al protestantesimo, molti si erano sposati con persone non ebree.
In tal caso non erano piú ebrei e quindi non correvano nessun rischio…
Per Hitler essere ebreo equivaleva ad appartenere a una «razza». Se i tuoi nonni erano ebrei allora lo eri anche tu, che lo volessi o meno, anche se avevi abbracciato la fede cattolica. Nella sua visione del mondo, questa «razza» doveva essere eliminata dalla grande Germania che sognava di costruire, annettendo al suo impero, con la guerra se necessario, tutti i paesi di lingua tedesca, ad esempio l’Austria, e sottomettendo i popoli slavi, i russi, gli ucraini o i polacchi. Diceva che la Germania doveva essere judenfrei, liberata dagli ebrei, o judenrein, ripulita dagli ebrei. Allora la «razza ariana» avrebbe potuto conservare il potere pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Auschwitz spiegato a mia figlia
  3. Note all’edizione italiana
  4. Postfazione di Amos Luzzatto
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Copyright