Nella precedente edizione di questo libro l’Appendice aveva il compito di fornire un supporto alla ricostruzione dei «fatti di Saba» proposta nel primo capitolo: si trattava di mostrare, con una verifica sui testi, che Saba, nelle sue qualità di «narratore a posteriori», aveva ritoccato «di volta in volta il primo episodio del Canzoniere» e lo aveva modellato «in funzione dell’esito che si era trovato tra le mani». A distanza di molti anni numerosi studi, e in particolare l’edizione critica del Canzoniere 1921 a cura di G. Castellani, hanno reso superflua e superata quella dimostrazione, integrandola e confermandola punto per punto. Chi volesse ulteriori conferme potrà trovarle in Tutte le poesie di Saba a cura di A. Stara. Altre se ne troveranno, a suo tempo, nell’Epistolario, che ho potuto vedere solo alcuni anni dopo l’uscita del mio libro, quando la figlia me lo mise a disposizione autorizzandomi a pubblicare alcune lettere sulla psicoanalisi.
A parte questo taglio, ho creduto di potere limitare al minimo i miei interventi: qualche precisazione accanto a piccoli aggiustamenti di scrittura. L’eliminazione dell’Appendice originaria mi ha indotto a recuperare, per questa ristampa, tre testi nati in tempi diversi, che di quei tempi conservano un’impronta molto netta, e perfino imbarazzante, e che tuttavia – mi sembra – possono offrire opportune integrazioni all’insieme di un libro «non riscritto».
Nascere a Trieste nel 1883 è stato pubblicato sul n. 268 di «Paragone» nel 1972; Conferme da Ernesto è del 1978 («Nuovi Argomenti», n.s., n. 57); Fra gli stessi ebrei è il testo di una relazione letta a un convegno («Gli Ebrei e la cultura italiana») organizzato nel dicembre 1986 dal Brooklin College a New York.
Hé bien, c’est vrai, la beauté n’est pas dans un
livre, elle est dans l’ensemble.
a) «Ernesto» costituisce l’ultimo tentativo compiuto da Saba per scrivere, o riscrivere, il primo capitolo del «Canzoniere».
Ernesto scriveva Saba alla figlia il 12 agosto 1953 «deve restare un “libretto” se no quel mascalzone mi ammazza il Canzoniere». Dichiarazioni di questo tipo non sono infrequenti: vanno prese con riserva, ma sarebbe un errore trascurarle. Costituiscono, nel loro insieme, una forma di auto-commento che prosegue e integra Storia e cronistoria: di sfuggita, quasi occasionalmente, richiamano l’attenzione su punti decisivi.
Nella stessa lettera Saba parla di «una gara fra Ernesto e la sventura […] fra Ernesto e la morte»; e, otto giorni dopo, scrivendo a Quarantotti Gambini: «Non so dirti cosa sia: posso dirti che è come una gara fra me e la sventura, fra me e la morte». Una volta sovrapposti, i testi fanno affiorare una equazione significativa a cui possiamo aggiungere, come terzo termine, il protagonista del Canzoniere.
Non è un caso che nello stesso 1953 Saba scriva una Prefazione a «Poesie dell’adolescenza», su cui ho già avuto occasione di insistere e che è opportuno riprendere. È ancora una volta un piccolo racconto, la storia di come Saba sia riuscito finalmente a portare a galla la «forma originale». Il lavoro, stando alle sue parole, non dovette differire molto da quello di un paleografo: con infinita pazienza egli avrebbe raschiato il palinsesto delle sue prime poesie fino a ritrovare le primitive iscrizioni, che per sua fortuna – lasciamo a Saba il tempo di ripetersi – non erano state compromesse irreparabilmente dall’accumulo di varianti «apportate in epoche diverse, alcune volte per un deplorevole errore di giudizio, altre per sostituire (necessariamente male) parti di esse cadute in oblio». E ancora: «È solo sul tardi che ho accettato con animo sereno, e magari divertito, certe imperfezioni formali o ingenuità sentimentali che, nell’età immediatamente successiva (e fu per me la vera “età ingrata”), quando la visione dell’arte e della vita mi si complicò e intorbidò, nonché piacermi, mi offendevano fino a generare amnesie. (Si dimentica volentieri quello che non si vorrebbe aver fatto o detto; e la memoria è, sul piano psicologico, un fenomeno di coraggio…)».
Si tratta, abbiamo visto anche questo, di una finzione: piuttosto che nelle vesti di un paleografo Saba ci appare in quelle di un romanziere a ritroso, che ricostruisce il primo capitolo della sua opera dopo averne scritto, con Epigrafe, la fine. A quelle poesie è affidato il compito di rappresentare, nel Canzoniere, i suoi anni di apprendistato: dovrebbero contenere indizi, predizioni, rendere esplicito il suo rapporto con la tradizione, «narrativamente» plausibili i suoi errori. Ed è in tal senso che si muovono i successivi rifacimenti, le anticipazioni «introdotte dopo» e «i punti incappucciati di buio», le conferme e le sorprese, le piccole epifanie, tutto l’insieme delle mosse strategiche elaborate da Saba che non riesce, tuttavia, a realizzare fino in fondo il suo progetto. C’è un disavanzo, uno scarto che gli impedisce di chiudere i conti. Per quanto «vasta» fosse «la base di quelle poesie», Saba non sembra in grado di costringerle a contenere i germi di tutti i «possibili sviluppi futuri».
Ernesto è anche un tentativo di risolvere quel problema: Saba gioca nuovamente la sua partita, in prosa e a carte scoperte, sottraendosi alla relativa indeformabilità delle Poesie dell’adolescenza. Dice quello che non era riuscito a dire: sposta la testimonianza dal piano formale alla biografia del suo personaggio, sempre lo stesso, l’unico di cui dispone, ma tanto forte da trasformare paradossalmente il suo costruttore in una controfigura referenziale. Nel 1898 Ernesto è «un ragazzo di quindici anni». Ha insomma l’età di Odone Guasti e, all’anagrafe, di Umberto Poli. Il romanzo, leggiamo in «quasi una conclusione», avrebbe dovuto seguire il protagonista attraverso una serie di incontri decisivi, fino allo «scoppio della vocazione». A partire da quel momento la parola sarebbe passata alle Poesie dell’adolescenza (1900-1902), che, almeno nella lezione del ’53, possono essere lette come le poesie di Ernesto, una sorta di appendice ideale al romanzo di cui il Canzoniere costituisce l’ideale prosecuzione. L’anello in tal modo si sarebbe chiuso perfettamente. Ma Ernesto si interrompe prima, per la dissoluzione, dice Saba, dello stato di grazia e di felicità che aveva presieduto alla sua nascita.
Vecchiaia e stanchezza sono certo pesi reali e, tuttavia, se il testo si interrompe è anche (forse soprattutto) per ragioni interne. Cosí come è arrivato tra le nostre mani il romanzo è suddivisibile in due parti: la prima costituisce il racconto di una iniziazione che si chiude quando Ernesto ricapitola la propria esperienza confessandola alla madre. È un piccolo ciclo compiuto e risolto in se stesso. La seconda parte, viceversa, quella dedicata al concerto del violinista Franz Ondricek e all’incontro con Ilio, apre una nuova sequenza: «troppo larga» a sua volta e tale da presupporre «troppi possibili sviluppi futuri», perché Saba potesse avere la certezza di tenere Ernesto sotto controllo. Seguendo sino in fondo quella traccia, il romanzo avrebbe finito, quasi sicuramente, per sconfinare nel Canzoniere: per fargli concorrenza e metterlo a repentaglio. In ogni caso l’innesto sarebbe risultato difficile, piú difficile che non lasciando tra i due testi uno spazio bianco, una specie di cuscinetto per ammortizzare il colpo provocato dal cambiamento del mezzo narrativo. La scommessa piú difficile e consolatoria era già stata vinta: quando Saba si era offerto lo spettacolo della censura frantumata e della rinuncia euforica, ed euforicamente sottolineata, al galateo linguistico del Canzoniere.
b) «Ernesto», in quanto testo proibito, è parte integrante del «libro» di Saba.
«– Nol sa quel che me piaseria tanto farghe?
– Mettermelo in culo, – disse, con tranquilla innocenza, Ernesto».
Se – nonostante tutto, nonostante i tempi, nonostante Saba, e nonostante le nostre reticenze o sordità – la frase di Ernesto conserva la sua forza d’urto è, io credo, per l’allegra coniugazione della prima persona, per una sorta di trionfale riconoscimento del proprio corpo. Il «tabú», il non detto o l’indicibile, che si allunga come un’ombra sottintesa su tutto il Canzoniere, non viene aggirato o eluso: viene semplicemente mandato in frantumi. Con un gesto linguistico tanto semplice ed elementare, tanto deliberato e rettilineo da rinunciare anche allo schermo del dialetto. Saba spinge Ernesto a una dichiarazione perentoria e senza compromessi. Ad attutirla non c’è nessuno stato di emergenza; non ci sono figure retoriche, eufemismi, velature od obliquità. Ogni cosa è accuratamente predisposta per consentire a Saba di ricavare dall’episodio una «morale» poetica: «Con quella frase netta e precisa, il ragazzo rivelava, senza saperlo, quello che, molti anni piú tardi, sarebbe stato il suo “stile”: quel giungere al cuore delle cose, al centro arroventato della vita, superando resistenze ed inibizioni, senza perifrasi e giri inutili di parole; si trattasse di cose considerate basse e volgari (magari proibite) o di altre considerate “sublimi”, e situandole tutte – come fa la Natura – sullo stesso piano».
È impossibile non cogliere in queste parole un’eco dell’enfasi che a tratti sembra minare la voce di Giuseppe Carimandrei e che può renderla di volta in volta troppo partigiana o almeno troppo corriva alle intenzioni del suo autore. E davanti al riemergere di una sottintesa e un po’ scontata ideologia della natura come luogo della «verità», si pensa alla «calda vita» che non è la piú felice, ma la piú esclamativa e la piú imitabile delle invenzioni di Saba. Il quale, tuttavia, riesce sempre a dirci qualcosa di decisivo: magari troppo compiaciuto, il suo commento è anche un atto di coraggio ironico, un invito formale ad assistere alla nascita di una vocazione cosí poco laureata da sfiorare lo scandalo. Servendosi della frase di Ernesto come di un piccolo detonatore, Saba ha scritto la parabola della propria anomalia poetica, della sua irriducibilità alla norma. Non resta che prendere atto e ammirare, ancora una volta, la sua intelligenza, la sua abilità nel costruire i nostri percorsi di lettura.
Allo stesso modo non si può non sottolineare la previdenza, la sottile ingegneria con cui Saba riserva al primo e all’ultimo capitolo del suo «libro» (a Ernesto e ad Epigrafe) un destino postumo. La messa in scena è perfetta: c’è un punto, dopo la morte, in cui tutto verrà detto. Perché non credergli? Perché non credere a questa intelligente sceneggiatura dell’impulso a confessare? A questa splendida invenzione che si colloca ai margini del testo, oltre i limiti di una scrittura limpida, molto funzionale, molto attenta, ma talvolta minacciata da una sorta di compiacimento o di equivoco? Dal pregiudizio che induce Saba a identificare la bellezza con l’ingenuità (a fare di Eros un fanciullo addomesticato e indenne) e che lo porta – avrebbe detto Thomas Mann – a una «incompleta comprensione di se stesso», non dissimile da quella che induceva un poeta, da Saba lontanissimo, come von Platen, a «non ammettere che il suo amore non era per nulla piú sublime, ma un amore come tutti gli altri»1. Ernesto va letto in sintonia con il Canzoniere, come il capitolo di un libro piú ampio di cui Saba ha edificato le mura in momenti successivi, affidando poi a se stesso, in veste di glossatore e di critico, il compito di indicarci le linee generali del suo progetto e di integrarle quando sembravano troppo deboli o sfuggenti. Le lettere che accompagnano il romanzo sembrano «scritte apposta» per ridare la parola a questa figura insostituibile e complementare.
c) Il lettore di «Ernesto» è costruito in modo conforme al lettore del «Canzoniere».
Il 27 giugno 1953 l’Università di Roma conferisce a Saba la laurea ad honorem: «Nel suo discorso di ringraziamento, dopo avere riformulato ancora una volta la poetica del bambino che si meraviglia delle cose che accadono a lui stesso diventato adulto», Saba racconta «un complesso ricordo scolastico»: quello di un «severo ma giusto» insegnante di greco che aveva ingiustamente valutato una sua versione e lo aveva indotto ad abbandonare gli studi classici. La laurea, conclude, gli giunge come una tardiva ma consolante riparazione. Si tratta di un raccontino, ma anche, per l’«enfant terrible» che Saba ha appena dichiarato di portare dentro di sé, di un compromesso: in realtà, mentre sta parlando di fronte a un’aula gremita, Saba – se prestiamo fede a quanto scriverà tre giorni dopo a Bruno Pincherle – è costretto a reprimere un desiderio piú forte. Se lo avesse esaudito, avrebbe pienamente confermato l’asserzione che «un poeta non si sa mai cosa possa fare o dire: dire soprattutto». «Oh Dio, se invece di quel discorsetto avessi potuto leggere Ernesto (chiudendo d’autorità gli ascoltatori nell’Aula Magna; in modo che avessero potuto dire a se stessi e agli altri che ascoltavano solo perché obbligati dai cordoni della Celere) credo che sarebbero tutti impazziti di gioia, compreso il Magnifico Rettore e Funaioli, che deve essere sugli ottanta. La gente, Bruno mio, ha un bisogno, un “bisogno urgente” di mettersi in libertà, di essere insomma liberata dalle sue inibizioni».
Le dichiarazioni di Saba, lo abbiamo visto, sono sempre da prendere con cautela e possono essere il risultato di un calcolo retroattivo. Tuttavia, a confermare la versione dei fatti che S...