TERZA PARTE
Primo giorno di buio
L’Obersturmführer Otto Malik aveva perso il sonno. Non aveva effetti personali da sistemare perché aveva intrapreso il viaggio al Kommando 50 immaginando di ritornare a Mauthausen prima del tramonto. E invece, al calare delle tenebre, si ritrovava in un luogo estraneo, di cui aveva sentito solo chiacchiere e dicerie. Prima di andare a dormire negli alloggi messi a sua disposizione nella baracca degli ufficiali, decise di fumare l’ultima sigaretta fuori dalle Siedlungen. Ormai il freddo non gli dava più fastidio. La sua soglia di sopportazione si era alzata notevolmente nelle ultime ore e il suo corpo si era adattato alla temperatura. Poteva sentire la pelle delle mani sotto quella dei guanti indurita come pergamena. Scricchiolava a ogni movimento delle articolazioni. E gli sembrava perfino difficile capire quando i piedi toccavano il terreno, dato che le piante erano addormentate dal gelo.
Avrebbe dovuto fare un bagno caldo invece di girare come un cane abbandonato nella notte, un corpo insensibile che si aggirava tra le baracche in cerca del calore effimero di un mozzicone.
Malik si fermò proprio sotto alla torretta ovest. Il soldato di guardia accennò un saluto e tornò a guardare fuori dalle mura, mentre l’ufficiale rovistava in tutte le tasche del parka per trovare sigarette e fiammiferi. I movimenti gli davano fastidio. Il tessuto si era appiccicato alla pelle a causa del sudore ghiacciato.
Alla fine trovò le sigarette ma non i cerini. Si era scordato di averli prestati a Lauser, che aveva deciso di ricominciare a fumare.
Sorrise. Lo avrebbe fatto anche lui al suo posto alla fine di una giornata come quella. La verità , però, era che tutto sommato il pericolo di quell’assassino a piede libero nel campo non lo preoccupava più di tanto. Cosa c’era da temere in un prigioniero così ridotto? I proiettili della sua PPK erano un’ottima assicurazione sulla vita.
Un baluginio rossastro attirò la sua attenzione. Un soldato tutto imbacuccato stava fumando seduto su una pila di casse. Un caporale, a giudicare dai gradi che Malik intravide appuntati sul giubbotto mimetico.
«Aspetti il tuo turno?» chiese l’ufficiale, indicando la torretta più in alto.
Il soldato tirò una boccata di fumo. «Già » rispose laconico.
«Stai pure comodo, soldato. Non c’è bisogno che ti alzi per salutarmi» commentò con sarcasmo Malik.
«Scusate, tenente» fece l’altro, con lo stesso tono di voce. «Ma in questo campo non badiamo da un pezzo alle formalità dovute alle gerarchie. Lavoriamo tutti sodo per la stessa causa, e quando sei costretto a spalare cadaveri ventiquattr’ore al giorno, ti passa anche la voglia di salutare.»
Malik non riusciva ancora a vedere i lineamenti dell’uomo che gli stava parlando, ma si accorse comunque che mentre pronunciava le ultime parole fu scosso da un tremito. «È dura ritrovarsi a fare la guardia a questi topi di fogna. Non è ciò a cui aspiravamo quando abbiamo prestato giuramento al corpo delle SS, non è vero?»
«Per me un lavoro vale l’altro. Sia fatta la volontà del Führer.» Una densa voluta di fumo emerse dal cappuccio e si dileguò nell’aria come nebbia rarefatta. «Non mi pare di riconoscervi, tenente. Siete arrivato oggi con il carico dei nuovi?»
«Già . Rimpiazzi freschi. Da quel poco che ho visto, vi servivano davvero.»
«C’è anche qualche bambino? Qui ormai non ce ne sono più. E ad alcuni ufficiali piacciono molto i bambini...»
«Non dovresti parlare così dei tuoi superiori» rispose piccato Malik. «Comunque no. Non abbiamo portato altri bambini. Per fortuna ci siamo liberati di loro lungo la strada.»
«Mi pareva di averlo sentito da qualcuno della vostra scorta mentre si sistemava in camerata.»
Malik rimase interdetto per qualche istante. Il soldato aveva risposto con un tono strano. Indecifrabile. «Se lo sapevi già , perché me lo hai chiesto?»
«Per esserne sicuro. Questa è una guerra giudaica. Lottiamo per l’esistenza del nostro popolo. Facciamo a quegli sporchi ebrei solo ciò che loro farebbero a noi, giusto?»
«Giusto.»
«Non capisco perché dovremmo sentirci in colpa, non siete d’accordo? Del resto» continuò il soldato, «ciò che facciamo, lo facciamo perché siamo convinti, perché siamo consapevoli. Se ci rifiutassimo di eseguire gli ordini, non ci accadrebbe niente. Almeno, io non ricordo punizioni inflitte a soldati che si rifiutavano di far parte di plotoni d’esecuzione o di manovrare i Gaswagen. Siamo tutti liberi di scegliere.»
Malik soppesò le ultime parole del soldato. Non riusciva a capire il senso di quella tirata dal vago sapore propagandistico, ma annuì per la seconda volta. «Hai da accendere?»
L’altro gli lanciò qualcosa nel buio. «Servitevi pure.»
Il tenente prese al volo le sigarette. La scatola di cerini era attaccata al pacchetto con del nastro adesivo consunto. Malik riconobbe il simbolo del faro sulla scatola gialla. «Africaine» commentò divertito. «Queste sigarette dovrebbero stare dall’altra parte del globo e non in mezzo a questo inferno di neve.»
«Sono le mie preferite. Me le faccio mandare da un amico che lavora all’ufficio rifornimenti di Berlino.»
«Non te le consumerò» disse il tenente, sfilando un fiammifero. Lo accese e, quando avvicinò la fiammella alla sigaretta che aveva già tra le labbra, si accorse dell’oggetto a terra, proprio ai suoi piedi. Si chinò per raccoglierlo. «Ti è caduto qualcosa» disse, avvicinandosi al soldato. Alla luce fioca della luna, Malik vide di che si trattava.
«Cioccolato. Accidenti, non ne vedevo dalla fine dell’estate.»
L’uomo allungò la mano. Era bianca, esangue. Le unghie torturate dal nervosismo. «Ne ho dell’altro in camerata. Posso scusarmi per non avervi salutato a dovere regalandovene una barretta?»
Malik scosse la testa divertito. «Come hai fatto ad averlo?»
«In questo campo si scambia tutto per un giorno di vita in più, tenente. Non lo sapevate?»
Il soldato si alzò e gettò via il mozzicone. «Seguitemi.»
«Un attimo. E il tuo turno di guardia?» L’ufficiale raggiunse il soldato e cercò di guardarlo in faccia, ma quello si girò verso la torretta per seguire i movimenti della sentinella.
«Abbiamo ancora un po’ di tempo. Sempre che siate d’accordo.»
«Per una barretta di cioccolato sono disposto a chiudere un occhio.» Rise.
«Quando ne sentirete il sapore, li chiuderete entrambi. Posso assicurarvelo...»
«Non lo metto in dubbio, soldato.»
«Oh, figuriamoci io, tenente.»
Malik si fermò un momento e scosse il capo, un sorriso sornione stampato sulle labbra. «Non mi sembri spaventato come gli altri. Non hai paura di quel maniaco? In fin dei conti potrei perfino essere io.»
Il soldato si avviò verso le baracche. «Oh, no. Sono certo che non siete voi.»
L’emissario della Gestapo non riuscì a chiudere occhio per tutta la notte. Aveva preso possesso dei suoi alloggi all’interno del comprensorio della Siedlung delle SS e si era fatto portare dall’attendente una frugale cena a base di pane nero e qualcosa che somigliava vagamente a un caffè lungo. Ma, soprattutto, aveva chiesto l’elenco dei prigionieri.
Era contenuto in un registro dalla copertina di pelle nera. A sinistra di ogni pagina erano stati riportati i nomi dei detenuti. Non in ordine alfabetico, ma in quello di arrivo e di registrazione. Le colonne successive indicavano l’età , il luogo di nascita, la sigla corrispondente al reato per il quale erano stati internati, il numero che aveva sostituito tutti gli altri parametri identificativi al momento dell’arrivo, il reparto di assegnazione e, in molti casi, la data di morte. A corredo dell’elenco, c’era una mappa dettagliata del campo e delle miniere attigue.
Il sottocampo 50 era principalmente un AT, una Arbeitstrennung specializzata nell’estrazione di minerali e metalli usati per realizzare le carlinghe dei caccia Messerschmitt ME 209 e per le corazzature Zimmerit dei Panzer IV di prima generazione. Un intricato sistema di gallerie conduceva nel cuore della montagna, dove prigionieri e guardie vivevano gran parte delle loro giornate spesso senza nemmeno rientrare nelle baracche. Ogni galleria scendeva nel sottosuolo per almeno due o tre livelli. L’aria, l’acqua e la luce venivano portate attraverso un sofisticato sistema di condotte scandito da piazzole di raccordo che consentivano di riparare eventuali guasti isolando singole aree di intervento. Ma da quando l’assassino del campo aveva sabotato la centrale elettrica i detenuti delle miniere erano costretti a lavorare praticamente al buio, e questo rappresentava un serio problema anche per la sorveglianza.
Il rappresentante della polizia segreta cominciò a scorrere i nomi, distratto. La gran parte erano detenuti politici. Molti dei tedeschi e degli austriaci presenti erano ebrei, ma c’era anche una nutrita colonia di russi e un discreto numero di italiani. Per scavare la roccia c’era bisogno di gente abituata a resistere agli sforzi fisici, per questo nel campo c’erano molti ASO, gli Asozialen, tanti prigionieri di guerra e un certo numero di criminali comuni. L’uomo a cui stava dando la caccia era da ricercare in mezzo a loro, ne era convinto. Ma, come sempre, non voleva e non poteva fidarsi di nessuno. Aveva potuto constatare di persona come i sistemi di sicurezza del Kommando 50 fossero blandi. L’assassino aveva fatto i suoi comodi vagando indisturbato senza che nessuno si accorgesse dei suoi spostamenti. Aveva torturato, ucciso e poi si era ritirato, prendendosi gioco delle unità d’élite dei reparti di vigilanza. Era convinzione comune che quella della Ostmark fosse una delle migliori Totenkopfverbänden e per questo era stata assegnata al Lager di Mauthausen e al suo alveare di sottocampi. Ma l’esperienza degli ultimi anni nella Sicherheitspolizei gli aveva insegnato che non bisogna mai dare nulla per scontato.
Sorseggiò il caffè e fece una smorfia. Rigirò tra le dita una fetta di pane ma la lasciò subito ricadere nel piattino sbuffando. Cercò senza guardare il portasigarette su cui erano incise le sue iniziali e si mise una sigaretta tra le labbra. Poi prese la scatola di fiammiferi Roland Hulzer che aveva comprato alla stazione di Vienna. Di solito non faceva distinzioni, ma di quella scatola lo aveva colpito l’immagine del cavaliere armato di spada e corno. Fiammiferi tedeschi in Austria. Una rarità in tempo di guerra.
Portò la sigaretta accesa alla bocca e prese una matita per cerchiare i nomi che riteneva degni di nota. Avrebbe potuto decidere di far eliminare subito tutti gli ASO, i BV, i criminali professionisti e i KG, i prigionieri di guerra. Avrebbe potuto far uscire tutti i soldati e appiccare il fuoco. Oppure avrebbero potuto semplicemente inviare un ordine di soppressione di massa. Ma a Berlino non volevano questo. Il peggiore dei mali poteva diventare un grande strumento di propaganda politica. Ma a cose fatte. Quando il problema fosse stato risolto. Per questo avevano mandato lui. Il migliore.
Così aveva deciso di assecondare la strategia dell’avversario, che invece si sarebbe aspettato una reazione opposta. Voleva isolare il campo per farne il suo personale terreno di caccia? Bene, avrebbe avuto ciò che cercava: un recinto dal quale le sue prede non avrebbero mai potuto fuggire. Ma nemmeno il predatore. Presto l’assassino avrebbe fatto una mossa sbagliata e in quel momento avrebbe maledetto il giorno in cui aveva deciso di isolare il Kommando 50.
Passò molto tempo seduto a disegnare geroglifici sul registro. Le sigarette finirono presto, mentre tutto attorno era silenzio. Ogni segno rappresentava vita o morte per un uomo. Sentire tra le mani questo potere lo aveva sempre elettrizzato.
Il rumore di stivali in corsa ruppe la quiete che regnava all’esterno delle Siedlungen. Gli uomini dell’ultimo turno di guardia notturno stavano tornando nelle camerate. Forse avrebbe potuto fare una pausa. Così spense l’ultima sigaretta, posò la matita e fece per chiudere il registro. Ma un paio di sommessi colpi alla porta gli comunicarono che la possibilità di assopirsi per qualche minuto era svanita.
«Avanti!» esclamò, stirando le gambe sotto alla scrivania.
Un caporale delle SS spalancò la porta accompagnato da una folata di nevischio e dalle prime luci elettriche dell’alba. Sbatté i tacchi degli stivali prima di entrare per scrollare il ghiaccio dalle suole dentellate. «Signore» disse, dopo il saluto, «il comandante ha bisogno di voi.»
«Puoi dire al comandante che lo ringrazio per la cortesia» rispose l’uomo della Gestapo, «ma sono troppo stanco e non parteciperò all’appello della mattina.»
«Non è per l’appello, signore.»
«È il nuovo comandante. Qualunque sia il problema sono sicuro che saprà cavarsela da solo. Io» aggiunse, indicando il registro, «ho un lavoro da finire.»
«Signore, vi prego...» Solo in quel momento l’uomo della Gestapo si accorse che il soldato tremava. Ma non per il freddo. Conosceva quel tipo di tremiti. Erano diversi. Inconfondibili. Suscitati nella carne e nella mente da un solo virus: il terrore puro.
L’ufficiale della polizia segreta scattò in piedi, facendo cadere la sedia. Non furono necessarie altre domande. Era successo ancora.
Franz Lauser guardava l’amico d’infanzia con espressione stupefatta. La sua bocca, appena socchiusa, pareva sul punto di dire qualcosa. Sul fondo degli occhi, una patina rossastra rendeva lo sguardo lontano e malinconico. Indossava ancora il parka con cui aveva fatto il viaggio dal Lager di Mauthausen. Non era nemmeno passato in stanza per cambiarsi. Forse aveva preferito perdere ancora qualche minuto per l’ultima sigaretta. Che si era rivelata fatale.
Il colonnello Lauser ricambiò lo sguardo assente con un’espressione incredula. Era incapace di dare ai suoi uomini qualunque tipo di ordine.
«Quando è successo?» L’ufficiale della Gestapo arrivò alle sue spalle come un’ombra solida che lo risvegliò dalla momentanea catalessi.
Lauser si voltò a osservare l’uomo in borghese, ma i suoi occhi passarono oltre la sagoma e si soffermarono sul lontano reticolato che delimitava il muro ovest del campo, proprio dove la roccia si confondeva con la pietra e la calce. «Non lo so. Il medico» aggiunse, mentre un ufficiale con le mostrine sanitarie gli passava davanti confabulando con Graf, «sostiene non più di un paio d’ore fa.» Sbatté le palpebre e tornò a scrutare il tenente.
Malik era sospeso a due metri da terra. Alcuni rampini da scalata, di quelli usati dalle truppe da montagna, lo sostenevano in posizione eretta sulla superficie ruvida della roccia, proprio sopra l’ingresso della galleria 1. Gambe allargate, braccia distese. Un rivolo di bava violacea si era congelato al lato della bocca e scendeva fin sotto il mento come una piccola stalattite. All’altezza dei bottoni che chiudevano i pantalon...