Trimalcione
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Trimalcione

La prima versione perduta del grande Gatsby

  1. 160 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Trimalcione

La prima versione perduta del grande Gatsby

Informazioni su questo libro

Un Gatsby più misterioso, più violento, più seducente. È quello che si trova nel Trimalcione, il testo da cui nacque la versione definitiva del Grande Gatsby dopo che, nell'inverno fra il 1924 e il 1925, Fitzgerald mise mano alle bozze del romanzo e apportò modifiche sostanziali: eliminò alcuni episodi, riscrisse interi capitoli, inserì nuovi dettagli e tagliò spiegazioni. In questo volume si propone la prima versione del capolavoro di Fitzgerald: uno scintillante quadro dell'età del jazz in cui ritroviamo personaggi e situazioni che costituiscono il fulcro del Grande Gatsby, uno scritto sorprendente che ci permette di riscoprire da una prospettiva unica l'origine di una delle opere più affascinanti del Novecento.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817071369
eBook ISBN
9788858666661
TRIMALCIONE

I

Negli anni miei più giovani e vulnerabili mio padre mi disse qualcosa che mi rigira nella mente da allora.
«Quando ti viene voglia di criticare qualcuno,» disse «ricorda che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu.»
Non disse altro, ma abbiamo sempre comunicato in modo strano, in maniera riservata, e capii che voleva dire molto di più. Ed è per questo che tendo a tenere per me ogni giudizio, un’abitudine che ha spinto temperamenti singolari a confidarsi con me e che mi ha reso vittima di non pochi inveterati scocciatori. La mente anormale è rapida nell’individuare e nell’approfittarsi di questa qualità quando si manifesta in una persona normale, e così all’università fui ingiustamente accusato di essere un politicante, perché ero a conoscenza delle pene segrete di folli sconosciuti. La maggior parte di quelle confidenze non erano cercate – spesso ho finto sonno, preoccupazione o un’ostile superficialità, quando mi rendevo conto, da qualche inconfondibile segnale, che una rivelazione intima si profilava vibrante all’orizzonte – perché le rivelazioni intime dei giovani, o almeno i termini con i quali le esprimono, di solito sono frutto di un plagio e alterate da palesi omissioni. Evitare i giudizi è questione di infinita speranza. Ho ancora un po’ paura di perdere qualcosa se dimenticassi che, come mio padre snobisticamente suggeriva e io snobisticamente ripeto, il senso della fondamentale decenza è distribuito in maniera diseguale alla nascita.
E dopo aver vantato in questo modo la mia tolleranza, devo ammettere che essa ha un limite. La condotta può fondarsi sulla roccia dura o su instabili paludi, ma da un certo punto in poi non m’importa più su cosa si fondi. Quando ritornai dall’Est lo scorso autunno, sentivo di volere che il mondo restasse per sempre in uniforme e, per così dire, moralmente sull’attenti; non ricercavo più scatenate escursioni con sguardi privilegiati nel cuore umano. Soltanto Gatsby era esente dalla mia reazione. Gatsby che rappresentava tutto ciò per cui nutro un naturale disprezzo. Se la personalità è una serie ininterrotta di successi, allora c’era qualcosa di magnifico in lui, un’accentuata sensibilità verso le promesse della vita, come se fosse collegato a una di quelle macchine complesse che registrano terremoti a diecimila miglia di distanza. Questa sensibilità non aveva niente a che fare con la fiacca emotività che si nobilita sotto il nome di “temperamento creativo” – era un dono straordinario per la speranza, una solerzia romantica come non ho mai trovato in nessun altro e che probabilmente non troverò mai più. No – Gatsby si rivelò a posto, alla fine; era ciò che tormentava Gatsby, quella polvere nauseante che fluttuava nella scia dei suoi sogni che pose fine temporaneamente al mio interesse per i dolori vani e le immotivate euforie degli uomini.
punti di stacco
Da tre generazioni la mia è una famiglia solida e benestante in questa città del Midwest. I Carraway sono una specie di clan e secondo la tradizione discendiamo dai duchi di Buccleuch, ma il vero fondatore della mia linea ereditaria fu il fratello di mio nonno che arrivò qui nel Cinquantuno, mandò un sostituto alla Guerra civile, e avviò l’impresa di ferramenta all’ingrosso che mio padre porta avanti ancora oggi.
Non ho mai conosciuto questo prozio ma credo di assomigliargli molto – con particolare riferimento al ritratto con l’aria da duro appeso nell’ufficio di mio padre. Mi sono laureato a New Haven1 nel 1915, giusto un quarto di secolo dopo mio padre, e poco dopo ho partecipato a quella migrazione teutonica ritardata conosciuta come Grande Guerra. La controffensiva mi era piaciuta così tanto che tornai a casa irrequieto. Invece di essere il centro accogliente del mondo, il Midwest sembrava l’orlo sdrucito dell’universo – così decisi di andare a Est per imparare il lavoro nel campo delle obbligazioni. Tutti quelli che conoscevo lavoravano con le obbligazioni, così supposi che potesse ancora esserci spazio per qualcun altro. Le zie e gli zii ne discussero tutti come se dovessero scegliermi una scuola propedeutica e alla fine dissero: «Be’… ss-ì…» con facce molto serie ed esitanti. Mio padre accettò di finanziarmi per un anno e dopo vari indugi mi stabilii a Est, pensavo in maniera definitiva, nella primavera del Ventidue.
Sarebbe stato più pratico cercare una stanza in città, ma era una stagione calda e io avevo appena lasciato una terra fatta di grandi prati e alberi invitanti, così quando un giovane collega mi propose di prendere casa insieme, in un villaggio di pendolari, mi sembrò un’ottima idea. Lui trovò la casa, un bungalow di cartone pressato segnato dalle intemperie, a ottanta al mese, ma all’ultimo momento l’azienda lo mandò a Washington e io andai in campagna da solo. Avevo un cane, almeno lo ebbi per qualche giorno finché non scappò, una vecchia Dodge e una signora finlandese che mi rifaceva il letto e mi preparava la colazione e borbottava tra sé perle di saggezza finlandesi china sulla stufa elettrica.
Mi sentii solo per qualche giorno, finché un mattino un tale arrivato dopo di me mi fermò per la strada.
«Come si arriva al villaggio?» chiese scoraggiato.
Glielo dissi. E quando ripresi a camminare non mi sentivo più solo. Ero una guida, un pioniere, uno dei coloni originari. Senza saperlo mi aveva conferito il diritto di cittadinanza nella zona.
E così con la luce del sole e le grandi esplosioni di foglie che crescevano sugli alberi – proprio come le cose evolvono nei film accelerati – ebbi quella familiare sensazione che la vita ricominciasse con l’estate.
Prima di tutto c’era tanto da leggere e tanta buona salute da mandar giù in quell’aria giovane e rinvigorente. Comprai una dozzina di volumi sulle banche, le valute e i titoli di investimento e se ne stavano sullo scaffale in rosso e oro come denaro nuovo di zecca, con la promessa di rivelarmi fulgidi segreti che solo Mida e Morgan e Rothschild2 conoscevano. E avevo la ferma intenzione di leggere molti altri libri oltre a quelli. Ero stato piuttosto incline alla letteratura all’università – un anno scrissi una serie di editoriali, molto solenni e scontati, per il «News» di Yale – e ora stavo per riportare tutte queste cose nella mia vita e tornare a essere il più limitato degli esperti, un uomo “a tutto tondo”. Non è solo un epigramma – la vita la si guarda molto meglio da una sola finestra, dopo tutto.
Fu una coincidenza che avessi affittato una casa in una delle comunità più strane del Nord America. Si trovava su quella sottile isola selvaggia che si estende a est di New York e dove, tra le altre curiosità naturali, si trovano due insolite formazioni di terra. A venti miglia dalla città un paio di enormi uova, dal contorno identico e separate soltanto da una baia di cortesia,3 si protendono nello specchio d’acqua salata più addomesticato dell’emisfero occidentale, la grande aia sommersa conosciuta come Stretto di Long Island. Non sono ovali perfetti – come l’uovo nella storiella di Colombo sono entrambi schiacciati all’estremità – ma la loro somiglianza fisica dev’essere fonte di perpetua sorpresa per i gabbiani che le sorvolano. Per gli abitanti della terra, un fenomeno più interessante è la loro diversità in ogni dettaglio tranne che nella forma e nelle dimensioni.
Io abitavo a West Egg, quello – be’ quello meno alla moda dei due, anche se questa è un’etichetta assai superficiale per spiegare il contrasto bizzarro e non poco sinistro tra loro. La mia casa era proprio sulla punta dell’uovo, ad appena cinquanta metri dallo Stretto, strizzata in mezzo a due enormi edifici che si affittavano per dodici o quindicimila a stagione. Quello alla mia destra era un qualcosa di colossale sotto ogni punto di vista – era la copia tangibile di qualche Hôtel de Ville in Normandia, con una torre su un lato, nuova di zecca sotto una rada barba di edera spontanea, e una piscina di marmo e più di quaranta acri di prato e giardino. Era la villa di Gatsby. O piuttosto, siccome non conoscevo il signor Gatsby, era una villa abitata da un signore che si chiamava così. La mia casa era un pugno in un occhio, ma era un piccolo pugno nell’occhio ed era trascurabile, così avevo una vista sul mare, una vista parziale sul prato del mio vicino e la rassicurante prossimità di milionari – tutto per ottanta dollari al mese.
Dall’altra parte della baia, i bianchi palazzi della mondana East Egg scintillavano sul filo dell’acqua. La storia di quell’estate inizia davvero la sera in cui la raggiunsi in macchina per cenare con Tom Buchanan e la sua signora. Daisy era mia cugina di secondo grado e Tom l’avevo conosciuto all’università. E una volta subito dopo la guerra avevo trascorso due giorni con loro a Chicago.
Suo marito, tra le varie imprese fisiche, era stato una delle ali laterali più forti del football a New Haven – in un certo modo una figura di livello nazionale, uno di quegli uomini che già a vent’anni raggiungono una tale limitata eccellenza che tutto dopo sa di delusione. La sua famiglia era immensamente ricca – persino all’università la sua grande disponibilità finanziaria era stata oggetto di dicerie – ma ora aveva lasciato Chicago ed era venuto a Est, in uno sfarzo che toglieva il fiato: per esempio, si era portato una sfilza di cavallini da polo da Lake Forest.4 Era difficile comprendere come un uomo della mia stessa generazione fosse ricco a tal punto da poterlo fare.
Perché fossero venuti a Est non lo so. Avevano passato un anno in Francia, senza alcuna ragione particolare, e poi avevano girovagato qua e là, irrequieti, ovunque ci fossero persone con cui giocare a polo ed essere ricchi insieme. Questo era un trasloco definitivo, disse Daisy al telefono, ma non le credetti – non riuscivo a scrutare nel cuore di Daisy ma sentivo che Tom avrebbe vagato per sempre cercando con un po’ di nostalgia la drammatica agitazione di qualche irrecuperabile partita di football.
E così accadde che una sera calda e ventosa raggiunsi in macchina East Egg per vedere due vecchi amici che in realtà conoscevo a malapena. La loro casa era ancora più elaborata di quanto mi aspettassi, una ridente villa coloniale georgiana rossa e bianca che dominava la baia. Il prato iniziava dalla spiaggia e correva verso la porta d’ingresso per un quarto di miglio, saltando meridiane e passeggiate di mattoni e giardini fiammeggianti – infine quando raggiungeva la casa si perdeva sulla facciata in rampicanti vivaci, come per l’impeto della corsa. La facciata era interrotta da una fila di porte finestre, che ora brillavano di oro riflesso, spalancate al vento caldo del pomeriggio, e Tom Buchanan vestito da cavallerizzo se ne stava in piedi a gambe divaricate sulla veranda anteriore.
Era cambiato dai tempi di New Haven. Adesso era un trentenne robusto, biondo-paglia, una bocca piuttosto dura e i modi altezzosi. Due occhi fulgidi e arroganti dominavano sul suo viso e davano l’impressione di sporgersi continuamente in avanti con fare aggressivo. Nemmeno l’effeminata ostentazione degli abiti da cavallerizzo riusciva a nascondere l’enorme potenza di quel corpo – sembrava riempire quegli stivali lucenti fino a forzarne i lacci superiori e, quando spostava la spalla sotto la giacca sottile, si vedeva un gran fascio di muscoli in movimento. Era un corpo capace di enorme forza – un corpo crudele.
Quando parlava, l’aspra e rauca voce tenorile rafforzava l’impressione di insofferenza che trasmetteva. Aveva un tocco di disprezzo paternalistico, anche verso chi gli piaceva – e c’erano stati uomini a New Haven che l’avevano odiato in modo viscerale.
“Ora, non crediate che la mia opinione su queste faccende sia definitiva,” sembrava dire “solo perché sono più forte e più uomo di voi.” Eravamo nella stessa Senior Society5 e benché non fossimo mai stati intimi amici avevo sempre avuto l’impressione che mi stimasse e cercasse di piace...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prefazione di Sara Antonelli
  5. Cronologia della vita e delle opere
  6. Bibliografia essenziale
  7. TRIMALCIONE
  8. Postfazione di Rossella Monaco