Le 120 giornate di Sodoma
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Le 120 giornate di Sodoma

  1. 449 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Barricati per alcuni mesi in un remoto castello nella Foresta Nera, quattro libertini incalliti si fanno intrattenere dalle storie autobiografiche di quattro esperte prostitute e ruffiane, per poi tradurre in pratica il contenuto dei racconti su un gruppo di giovani vittime di ambo i sessi. È in questa cornice che Sade inscrive il microcosmo libertino delle 120 giornate, un mondo in miniatura che replica convenzioni e regole della società per ribaltarle in un'orgia di torture e sevizie di ogni genere. Questo romanzo, la cui perdita durante la presa della Bastiglia fece versare al Marchese "lacrime di sangue", come scrisse lui stesso, è una satira estrema sulla convenzionalità della vita sociale, un trionfo di humour nero e pornografia asfissiante che celebra il potere della parola.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817073318
eBook ISBN
9788858667828
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

PRIMA PARTE

LE CENTOCINQUANTA PASSIONI SEMPLICI,
O DI PRIMA CLASSE,
CHE COMPONGONO LE TRENTA GIORNATE DI NOVEMBRE
RIEMPITE DALLA NARRAZIONE DELLA DUCLOS,
INTERCALATE
DAI FATTI SCANDALOSI AVVENUTI NEL CASTELLO
DURANTE QUEL MESE, ESPOSTI IN FORMA DI DIARIO.

PRIMA GIORNATA

Il primo novembre ci si alzò alle dieci del mattino come prescritto dal regolamento, da cui ci si era mutualmente ripromessi di non discostarsi in nulla. I quattro chiavatori che non avevano condiviso il letto con gli amici, appena questi si furono alzati, condussero Zéphire dal duca, Adonis da Curval, Narcisse da Durcet e Zélamir dal vescovo. Erano ancora timidi e impacciati tutti e quattro, ma incoraggiati dalle loro guide si disimpegnarono con bravura, e il duca sborrò. Gli altri tre, più riservati e meno prodighi del loro sperma, si fecero penetrare quanto lui ma senza metterci alcunché di proprio. Alle undici si passò nell’appartamento delle donne, dove le otto giovani sultane fecero la loro apparizione nude e servirono la cioccolata. Marie e Louison, responsabili di questo serraglio, le aiutavano e le dirigevano. Ci furono molti palpeggiamenti, molti baci, e le otto piccole infelici, vittime della libidine più raffinata, arrossivano, si schermivano con le mani, tentavano di nascondere le loro grazie, ma mostravano tutto non appena si accorgevano che il loro pudore contrariava e indisponeva i padroni. Il duca, che ce l’aveva già duro di nuovo, mise a confronto la circonferenza del suo arnese con la vita sottile e delicata di Michette: c’erano solo tre pollici di differenza. Durcet, che era il responsabile del mese, effettuò le ispezioni e i controlli prescritti. Hébé e Colombe furono trovate in colpa, e la loro punizione venne scritta a registro e fissata per il sabato successivo all’ora delle orge. Piansero entrambe, ma nessuno si commosse. Poi si passò dai ragazzi. I quattro che non si erano fatti vedere la mattina, ovvero Cupidon, Céladon, Hyacinthe e Giton, si abbassarono i calzoni come da copione, e per un momento tutti rimasero a godersi il colpo d’occhio. Curval li baciò sulla bocca tutti e quattro e il vescovo li masturbò per un po’, intanto che il duca e Durcet facevano dell’altro. Si effettuarono le ispezioni e nessuno fu trovato in colpa. All’una, gli amici si trasferirono nella cappella dove, com’è noto, si erano allestiti i luoghi di rispetto. In previsione delle esigenze serali erano stati negati molti permessi, sicché si presentarono solo Constance, la Duclos, Augustine, Sophie, Zélamir, Cupidon e Louison. A tutti gli altri che avevano fatto richiesta si era ingiunto di resistere fino a sera. I nostri quattro amici, preso posto intorno al soglio fatto costruire appositamente, vi fecero accomodare uno dopo l’altro i sette soggetti e si ritirarono solo dopo essersi goduti fino in fondo lo spettacolo. Scesero in salotto e, mentre le donne pranzavano, conversarono tra loro finché non arrivò il momento di servirli. Ligi alla regola che si erano imposti, di tenere le donne alla larga dalla loro tavola, i quattro amici si sistemarono ciascuno tra due chiavatori, mentre le quattro spose nude, con l’aiuto di alcune delle vecchie vestite da suore di carità, servirono un pranzo principesco e succulento. Impossibile superare in abilità e raffinatezza le cuoche che si erano portati fin lì; del resto, erano così ben pagate e rifornite che tutto non poteva che funzionare a meraviglia. Poiché il pranzo doveva essere meno pesante della cena, ci si accontentò di quattro sontuose portate, ognuna composta da dodici piatti. Il vino di Borgogna fu servito con gli antipasti, il bordeaux con i primi, lo champagne con gli arrosti, l’hermitage al momento del dolce, il tocai e il madera al dessert. Poco alla volta gli animi si surriscaldarono. I chiavatori, investiti per l’occasione di pieni poteri sulle spose, cominciarono a importunarle. Constance ricevette qualche spintone e qualche percossa per non aver portato alla svelta un piatto a Hercule, il quale, sicuro di godere dei favori del duca, si sentì autorizzato a spingere l’arroganza fino al punto di picchiare e molestare sua moglie, con gran divertimento del marito. Curval, alquanto brillo al dessert, tirò in faccia alla moglie un piatto che le avrebbe spaccato la testa, se lei non lo avesse schivato. Durcet, notando che uno dei suoi vicini ce l’aveva duro, non fece tante cerimonie: benché a tavola, si sbottonò i calzoni e porse il culo. Il vicino lo penetrò e a operazione conclusa riprese a bere come se niente fosse. Il duca imitò con Bande-au-ciel il turpe siparietto offerto dal suo vecchio amico e scommise di scolarsi a bruciapelo tre bottiglie di vino mentre quel cazzo, quantunque smisurato, lo inculava. Ah, la noncuranza, la calma e il sangue freddo del libertinaggio! Vinse la scommessa e, poiché non beveva certo a stomaco vuoto e quelle tre bottiglie andavano ad aggiungersi a più di quindici altre, si rialzò un po’ tramortito. Il primo oggetto a cadergli sotto gli occhi fu sua moglie, in lacrime a causa del comportamento brutale di Hercule, e quello spettacolo lo eccitò al punto da spingerlo a compiere su di lei degli eccessi per il momento irriferibili. Il lettore, che vede con quante difficoltà tentiamo, in questo esordio, di mettere ordine nella nostra materia, ci scuserà se lo lasciamo ancora all’oscuro di qualche piccolo dettaglio. Infine si passò nel salotto, dove nuovi piaceri e nuove voluttà attendevano i nostri campioni. Il caffè e i liquori furono offerti da una quadriglia incantevole, composta per la parte maschile da Adonis e da Hyacinthe e per quella femminile da Zelmire e da Fanny. Thérèse, una delle sorveglianti, li dirigeva, poiché secondo il regolamento dovunque si trovassero riuniti due o tre bambini doveva esserci una sorvegliante a guidarli. I nostri quattro libertini, mezzi ubriachi ma risoluti a non violare le loro leggi, si accontentarono di baci e di palpeggiamenti che tuttavia la loro testa libertina non mancò di condire con tutte le raffinatezze del vizio e della lussuria. Per un momento sembrò che il vescovo si sarebbe lasciato sfuggire un po’ di sborra, per via delle cose straordinarie che pretendeva da Hyacinthe intanto che Zelmire lo masturbava. Aveva già i nervi scossi e tutto il corpo in preda alla tipica crisi convulsiva, ma riuscì a contenersi, allontanò da sé gli oggetti della tentazione prossimi a trionfare sui suoi sensi e, memore di quanto restava ancora da fare, si trattenne almeno fino alla fine della giornata. Furono bevuti sei diversi tipi di liquori e tre qualità di caffè, e finalmente, all’ora stabilita, le due coppie si congedarono per andare a vestirsi. I nostri amici fecero un sonnellino di un quarto d’ora e passarono nella sala del trono. Così si era deciso di chiamare il locale destinato alle narrazioni. Gli amici si sistemarono sui rispettivi canapè, il duca con ai piedi l’adorato Hercule e accanto a sé, nuda, Adélaïde, figlia del presidente; di fronte, collegata alla sua nicchia con due ghirlande, come è stato spiegato, aveva per quadriglia Zéphire, Giton, Augustine e Sophie in costume pastorale, con Louison nella parte della loro madre, vestita da vecchia contadina. Curval aveva ai suoi piedi Bande-au-ciel, accanto a sé Constance, moglie del duca e figlia di Durcet, e per quadriglia quattro giovani spagnoli, ciascuno in un elegante costume confacente al suo sesso, ovvero: Adonis, Céladon, Fanny e Zelmire, con Fanchon a fare da sorvegliante. Il vescovo aveva ai suoi piedi Antinoüs, accanto a sé Julie, sua nipote, e come quadriglia quattro selvaggi quasi del tutto nudi: erano Cupidon e Narcisse per i ragazzi e Hébé e Rosette per le ragazze, scortati da una vecchia amazzone interpretata da Thérèse. Durcet aveva Brise-cul per chiavatore, accanto a sé Aline, figlia del vescovo, e di fronte quattro piccole sultane, poiché i ragazzi erano vestiti come le ragazze, accorgimento che conferiva il massimo risalto alle figure incantevoli di Zélamir, Hyacinthe, Colombe e Michette. Conduceva la quadriglia una vecchia schiava araba, impersonata da Marie. Le tre storiche, sontuosamente vestite da prostitute d’alto bordo parigine, presero posto ai piedi del trono, su un apposito canapè, e madame Duclos, narratrice del mese, in una veste da camera succinta ed elegantissima, pesantemente truccata e ingioiellata, raggiunto il posto che le era destinato, diede inizio alla storia degli avvenimenti della sua vita, nella quale doveva includere i particolari di centocinquanta passioni primarie designate col nome di passioni semplici.
«Non è semplice, signori, prendere la parola al cospetto di un consesso come il vostro. Avvezzi a tutto ciò che le lettere producono di più raffinato e gradevole, con che pazienza sopporterete il racconto improvvisato e dozzinale di una creatura sventurata come me, la cui unica educazione ricevuta è stata quella del libertinaggio? Ma la vostra indulgenza mi rassicura. A voi non interessa che la verità detta nel modo più naturale, e a questa condizione potrò forse aspirare alle vostre lodi. Mia madre aveva venticinque anni quando mi mise al mondo, e io ero la sua seconda figlia: la prima aveva sei anni più di me. Le origini di mia madre non erano illustri. Era orfana di padre e di madre, e lo era diventata fin da giovanissima; siccome i suoi genitori risiedevano dai recolletti,21 a Parigi, quando si vide abbandonata e priva di risorse ottenne da quegli ottimi padri il permesso di andare a chiedere l’elemosina nella loro chiesa. Ma siccome un po’ di giovinezza l’aveva, e un po’ di fascino anche, cominciò con l’essere notata, e a un passo per volta dalla chiesa prese a salire nelle camere, da cui ben presto discese in avanzato stato di gravidanza. Era a una di queste disavventure che mia sorella doveva la sua nascita, ed è più che probabile che la mia non abbia un’origine diversa. Tuttavia gli ottimi padri, paghi della docilità di mia madre, vedendo quanti frutti dava alla comunità, la ricompensarono delle sue fatiche concedendole di affittare le sedie della loro chiesa. Appena mia madre ottenne quel posto, con il benestare dei suoi superiori sposò un portatore d’acqua della casa, che ci adottò immediatamente, mia sorella e me, senza la minima riluttanza. Nata in chiesa, abitavo per così dire molto più in chiesa che nella nostra casa. Aiutavo mia madre a sistemare le sedie, davo una mano ai sacrestani nei loro diversi compiti, avrei persino servito la messa, se ce ne fosse stato bisogno, benché non avessi ancora compiuto i cinque anni. Un giorno, mentre me ne tornavo dalle mie pie occupazioni, mia sorella mi chiese se non avevo ancora incontrato padre Laurent… “No” le dissi. “Be’,” mi disse lei “ti sta facendo la posta, lo so: vuol farti vedere quel che ha mostrato a me. Tu non scappare, guarda e non spaventarti: non ti toccherà, ma ti farà vedere qualcosa di molto strano, e se lo lasci fare, ti ricompenserà generosamente. Siamo in più di una quindicina, qui nei paraggi, alle quali ha fatto vedere la stessa cosa. Ci va matto, e a tutte ha fatto un regalino.” Come potete immaginare, signori, c’era più di quanto basta non solo per non scappare da padre Laurent, ma per mettersi a cercarlo. Il pudore parla bisbigliando all’età che avevo, e il suo silenzio, uscendo dalle mani della natura, non è forse una prova certa che questo sentimento fasullo dipende più dall’educazione che dalla madre prima di ogni cosa? Mi precipitai in chiesa e, mentre percorrevo il cortiletto tra l’ingresso della chiesa dalla parte del convento e il convento, andai quasi a sbattere contro padre Laurent. Era un religioso sui quarant’anni, di aspetto piacevolissimo. Mi ferma: “Dove vai, Françon?” mi disse. “A sistemare le sedie, padre.” “Oh, ma quelle le sistemerà tua madre. Vieni, vieni in questo stanzino,” mi disse, attirandomi in un ripostiglio lì accanto, “che ti farò vedere qualcosa che non hai mai visto.” Lo seguo, chiude la porta alle nostre spalle e dopo avermi sistemato proprio di fronte a lui, “Toh, Françon,” mi disse estraendo dai calzoni un cazzo talmente colossale da farmi temere che sarei svenuta dallo spavento “guarda, bambina mia,” proseguiva, masturbandosi, “hai mai visto niente di simile a questo?… È quel che si chiama un cazzo, piccola mia. Sì, un cazzo… Serve a scopare, e quello che vedrai fuoriuscire tra poco è il seme con cui sei stata fatta. L’ho fatto vedere a tua sorella, lo faccio vedere a tutte le ragazzine della tua età. Portamene, portamene, fa’ come tua sorella, che me ne ha fatte conoscere più di venti… Gli mostrerò il cazzo e gli farò schizzare in faccia la sborra… È la mia passione, bambina mia, non ne ho altre… e lo vedrai.” In quell’istante mi sentii ricoprire da una rugiada bianca che mi macchiò tutta; qualche goccia mi era schizzata fino agli occhi, perché la mia testolina si trovava proprio all’altezza dell’abbottonatura dei calzoni di Laurent. Lui intanto gesticolava: “Ah, che sborrate… che sborrate mi faccio” esclamava. “Sei bagnata fradicia!” Calmandosi poco a poco, rimise disinvoltamente al suo posto l’arnese e sgattaiolò via, non prima di avermi fatto scivolare in mano dodici soldi22 raccomandandomi di portargli qualcuna delle mie amichette. Come vi sarà facile immaginare, niente mi parve più urgente che correre a raccontare ogni cosa a mia sorella, la quale mi pulì dappertutto e coscienziosamente, in modo da cancellare ogni traccia, e poi, con la scusa di avermi procurato quel piccolo colpo di fortuna, pretese la metà del mio guadagno. Ammaestrata da quell’esempio, e contando su una analoga spartizione del bottino, non mancai di portare a padre Laurent quante più ragazze potevo. Ma quando gliene condussi una che conosceva già, la rifiutò, pur regalandomi tre soldi a titolo di incoraggiamento. “Non le vedo mai una seconda volta, bambina mia” mi disse. “Portamene di sconosciute e lascia perdere quelle che ti diranno di aver già avuto a che fare con me.” Mi ci misi d’impegno, e nel giro di tre mesi feci conoscere a padre Laurent oltre una ventina di nuove ragazze con cui, per ottenere il suo piacere, si comportò esattamente come aveva fatto con me. Insieme alla condizione di sceglierle a lui sconosciute, osservai anche quella che mi aveva ripetutamente raccomandato e che riguardava l’età: nessuna che avesse meno di quattro anni e più di sette. I miei piccoli affari andavano a gonfie vele allorché mia sorella, accortasi che le facevo concorrenza, minacciò di dire tutto a mia madre, a meno che non interrompessi quell’ameno commercio. E così piantai in asso padre Laurent.
«Tuttavia, le mie mansioni mi portavano sempre nei paraggi del convento, e così il giorno stesso del mio settimo compleanno feci la conoscenza di un nuovo amico la cui ossessione, anche se decisamente infantile, sembrava un po’ più inquietante. Costui si chiamava padre Louis. Era più vecchio di Laurent, e con un non so che di molto più libertino nel modo di fare. Mi trattenne mentre stavo varcando il portone della chiesa e mi invitò a salire in camera sua. Inizialmente feci qualche resistenza, ma quando mi ebbe assicurato che anche mia sorella ci era salita, tre anni prima, e che di ragazzine della mia età lui ne riceveva tutti i giorni, lo seguii. Appena entrati nella sua cella, la chiuse religiosamente a chiave, versò un po’ di sciroppo in un bicchiere e me ne fece bere il contenuto tre volte di seguito. Compiuto quel preliminare, il reverendo, più espansivo del suo confratello, si mise a baciarmi e continuando a scherzare mi slacciò la gonna e, sollevata la camicia fin sopra il corsetto, nonostante le mie deboli proteste, si impadronì di tutte le parti davanti che aveva scoperte e dopo averle palpeggiate ed esaminate con comodo mi chiese se non avevo voglia di pisciare. Straordinariamente stimolata dalla robusta dose di bevanda che mi aveva fatto trangugiare, lo assicurai che in me quel bisogno era quanto mai impellente, ma che non mi andava di farla davanti a lui. “Oh, perdio, sì, birbantella,” disse il vizioso “oh, sì, perdio, la farete davanti a me, e quel che è peggio, su di me. Ecco,” aggiunse, tirando fuori il cazzo dai calzoni, “ecco l’arnese che dovrete inondare: pisciateci sopra.” Mi afferrò, mi sistemò su due sedie, una gamba sull’una e una gamba sull’altra, le divaricò al massimo e infine mi disse di accovacciarmi. Tenendomi in quella posizione, collocò un vaso sotto di me e si accomodò su un piccolo sgabello all’altezza del vaso, con l’arnese in mano posto esattamente sotto la mia fica. Con una mano mi reggeva per i fianchi, con l’altra si masturbava e siccome, data la posizione, la mia bocca si trovava parallela alla sua, la baciava. “Su, piccina, piscia,” mi disse “inondami il cazzo con quel liquore incantevole il cui fiotto caldo rende schiavi i miei sensi. Piscia, tesoruccio, piscia e bada a inondare la mia sborra.” Louis si dimenava, si eccitava: era facile capire che quell’operazione stravagante appagava in sommo grado i suoi sensi. L’estasi più dolce lo coronò nell’istante stesso in cui i liquidi di cui mi aveva gonfiato lo stomaco zampillarono fuori a più non posso, ed entrambi riempimmo il medesimo vaso, lui di sborra e io di orina. Conclusa l’operazione, Louis mi fece più o meno lo stesso discorso di Laurent. Volle fare della sua puttanella una ruffiana; ma stavolta, infischiandomene delle minacce di mia sorella, fui così audace da procurare a Louis ogni bambina di cui ero a conoscenza. A tutte fece fare la stessa cosa, e siccome le rivedeva volentieri due o tre volte senza problemi e mi pagava sempre, indipendentemente da quanto toglievo alle mie piccole compagne, prima di sei mesi misi da parte un gruzzoletto che usai a mio piacimento con la sola precauzione di non farmi notare da mia sorella.»
«Duclos,» interruppe a questo punto il presidente «non siete stata avvisata che nei vostri racconti i dettagli devono abbondare in quantità e precisione? Che solo se non ometterete alcuna circostanza potremo giudicare in che rapporto sta la passione da voi narrata con i costumi e con il carattere dell’uomo? E che le più piccole sfumature servono all’eccitazione dei sensi che ci ripromettiamo di ricavare dai vostri racconti?» «Sì, monsignore,» disse la Duclos «sono stata avvisata di non trascurare alcun dettaglio e di entrare nei minimi particolari ogniqualvolta servono a far luce sui caratteri o sul genere. Ho commesso qualche omissione in questo caso particolare?» «Sì,» disse il presidente «non so niente del cazzo del secondo recolletto, e neanche del suo orgasmo. E poi: vi masturbava la fica? Vi faceva toccare il cazzo? Vedete quanti dettagli tralasciati?» «Chiedo scusa,» disse la Duclos «rimedierò subito ai miei errori e farò attenzione a non ripeterli in avvenire. Padre Louis aveva un membro normalissimo, più lungo che grosso e nell’insieme di aspetto abbastanza comune. Rammento anche che faticava a diventare duro e che prese un po’ di consistenza solo al momento dell’estasi. Non mi masturbò la fica, si limitò ad allargarla più che poteva con le dita per facilitare l’emissione dell’orina. Vi accostò il cazzo un paio di volte e l’orgasmo fu breve e violento: le uniche parole che gli sfuggirono furono: “Ah, cazzo, piscia, bambina mia! Piscia, bella fontanella, avanti, piscia: non vedi che sto sborrando?”. E intanto mi copriva la bocca di baci che avevano assai poco di libertino.» «Così va bene, Duclos,» disse Durcet «il presidente aveva ragione. Non riuscivo a rappresentarmi niente durante il primo racconto, mentre adesso vedo il vostro uomo come se fosse presente.» «Un istante, Duclos,» disse il vescovo, notando che si accingeva a riprendere. «Per quanto mi riguarda ho un bisogno un po’ più impellente di quello di pisciare, e siccome è da troppo che mi trattengo, sento che lo devo soddisfare», e mentre diceva questo attirò a sé Narcisse. Gli occhi del prelato mandavano scintille e il suo cazzo, incollato al ventre, schiumava: era sborra trattenuta che voleva uscire a tutti i costi e che sarebbe esplosa solo ricorrendo a mezzi estremi. Trascinò sua nipote e il ragazzo nello stanzino. Tutto si bloccò: un orgasmo era giudicato qualcosa di troppo importante perché non si interrompesse tutto nel momento in cui si voleva averne uno, e perché tutto non concorresse a procurarlo nel modo più delizioso. Ma stavolta la natura non assecondò i voti del prelato, il quale, pochi minuti dopo essersi chiuso nello stanzino, ne uscì furibondo e ancora in stato di erezione, e rivolgendosi a Durcet, che era responsabile del mese, «Mettimi in punizione questo piccolo lavativo per sabato,» gli disse allontanando da sé il bambino con violenza «e che sia severa, per favore». Apparve evidente che il ragazzino non era riuscito a soddisfarlo, e Julie ne informò suo padre a bassa voce. «Eh, perdio! Prenditene un altro,» gli disse il duca «sceglilo tra le nostre quadriglie, se il tuo non ti soddisfa.» «Per il momento, la mia soddisfazione è lontanissima da ciò che desideravo poco fa» disse il prelato. «Sapete bene dove ci conduce un desiderio inappagato. Preferisco trattenermi. Ma non abbiate riguardi per quel piccolo lavativo,» proseguì «soprattutto questo mi raccomando.» «Oh, ti garantisco che sarà conciato per le feste» disse Durcet. «È giusto che il primo dia l’esempio agli altri. Mi duole vederti in questo stato. Prova dell’altro, fatti scopare.» «Monsignore,» disse la Martaine «mi sento molto ben disposta a soddisfarvi, e se Vostra Altezza volesse…» «Eh no, perdio, no» disse il vescovo. «Non lo sapete? Infinite sono le occasioni in cui non si desidera un culo di donna. Aspetterò, aspetterò… Che la Duclos continui. Vedremo stasera. Bisogna solo che ne trovi uno che piace a me. Continua, Duclos.» Dopo che gli amici ebbero riso di gusto alla battuta libertina del vescovo («infinite sono le occasioni in cui non si desidera un culo di donna»), la storica riprese il suo racconto in questi termini:
«Avevo appena compiuto sette anni quando un giorno, portando come il solito una delle mie amichette da Louis, trovai da lui un altro suo confratello. Non era mai successo prima: sorpresa, feci per uscire, ma dopo che Louis mi ebbe tranquillizzata, la mia compagna e io entrammo senza esitare. “Visto, padre Geoffroi?” disse Louis al suo amico, spingendomi verso di lui. “Te l’avevo detto che era carina.” “Sì, effettivamente” disse Geoffroi prendendomi sulle sue ginocchia e baciandomi. “Quanti anni hai, piccina?” “Sette, padre.” “Cinquanta meno di me” disse l’ottimo padre baciandomi di nuovo. Mentre si teneva questo dialoghetto, lo sciroppo veniva preparato e, come di consueto, dovemmo trangugiarne tre bicchieri ciascuna. Ma poiché non avevo l’abitudine di berne quando portavo delle prede a Louis, perché ne dava solo a quella che gli conducevo mentre io in genere non mi trattenevo, anzi, me ne andavo subito, quella volta rimasi stupita da quel provvedimento e gli dissi, nel tono dell’innocenza più sprovveduta: “Perché mi fate bere, padre? Volete che pisci?”. “Sì, bambina mia” disse Geoffroi, continuando a tenermi sulle sue gambe e cominciando a frugare con le mani sul davanti. “Sì, vogliamo che pisci, ma stavolta è con me che avverrà la cosa, e sarà forse un po’ diversa da come l’hai provata. Vieni nella mia cella, lasciamo padre Louis con la tua amichetta e andiamo a sbrigare anche noi le nostre incombenze. Quando avremo finito, ci ritroveremo.” Uscimmo. Louis mi bisbigliò di essere gentile con il suo amico e che non avrei avuto di che pentirmene. La cella di Geoffroi era poco distante da quella di Louis, e ci arrivammo senza essere visti. Appena entrati, Geoffroi diede un paio di mandate e mi disse di sbarazzarmi della gonna. Eseguii. Lui stesso mi sollevò la camicia fin sopra l’ombelico e, dopo avermi fatto sedere sul bordo del letto, divaricò il più possibile le mie cosce continuando a spingermi indietro, in modo che pro...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dodici metri di vertigine di Marco Cavalli
  5. Cronologia
  6. Bibliografia ragionata
  7. Giudizi critici
  8. LE 120 GIORNATE DI SODOMA
  9. Introduzione
  10. Prima parte
  11. Seconda parte
  12. Terza parte
  13. Quarta parte