Capitolo 1
Non è solo questione di mira: bisogna considerare diversi fattori e saperne calcolare altri. La visibilità , per esempio. La distanza del bersaglio. La direzione del vento. La corretta postura del corpo. La totale saldezza della mano. Se però, mentre fai partire il colpo, hai lo stesso coefficiente alcolico di Bukowski a un raduno alpino, la mira e tutto il resto sono inutili: puoi anche essere un cecchino della SWAT, o crederti Jigen, ma senza una botta di culo – o l’improvvisa intercessione di Santa Barbara, protettrice degli artiglieri – fallirai miseramente.
È notte. Qualche minuto dopo le tre. I lampioni del vialetto sono spenti. La luce della plafoniera, un’orrenda colomba in ferro battuto, definisce a malapena i contorni della porta d’ingresso. La pioggia, sottile e fittissima, rende la missione ancora più disperata. Oltre a ricordare che il cielo friulano, con buona pace degli operatori turistici, è storicamente impassibile alle lusinghe dell’estate.
«Cazzo.»
Primo lancio: troppo lungo.
«Cazzo.»
Secondo lancio: troppo lungo.
«Io. Adesso. Ti. Distruggo.»
Terzo lancio: troppo corto. Il cuore di porcellana è sempre là , beffardo e penzolante, appeso al tetto con un filo da pesca. Due nomi scritti in bianco sullo smalto rosso: «Alfio & Stefania». È più orrenda la plafoniera o l’e commerciale? Meglio non lasciarsi distrarre dai dettagli. Meglio concentrarsi. Buio, sbronza, temporale. Il quarto lancio è quasi perfetto, Santa Barbara vede e provvede, ma la parabola non si spegne sul prato all’inglese come le precedenti: si spegne contro la grondaia. Sdeeng! Quanto rumore produce una grondaia centrata da un sasso alle tre del mattino? Meglio non lasciarsi distrarre dalle domande. Meglio dileguarsi alla velocità della luce, sperando che le gambe reggano. Le gambe incerte e molli di un ubriaco.
Sabato 6 luglio 2013
«Pa-pa-paolo! No!»
«No cosa?»
Ernesto sospira. E, dentro quel sospiro, c’è tutta la pazienza che un povero cristo può accumulare in una vita intera.
«Non co-co-così.»
«Non co-co-così cosa?»
Ernesto sospira di nuovo. Sa perfettamente che Paolo è un provocatore, uno stronzo, una causa persa, ma la sindrome del missionario vince su tutto.
«Gu-gu-guarda. Si fa così.»
Mezzo minuto. Ci vuole solo mezzo minuto per impiattare decentemente il purè e le polpette. Quante volte gliel’ha spiegato? E quante volte Paolo se n’è fottuto?
«Scusami, Ernestino, hai ragione.»
Paolo afferra il cucchiaio e lo immerge nella pentola. Sorridendo. Poi lo tira fuori e scaraventa il purè sul piatto, come farebbe un capomastro con la malta e la cazzuola.
«Pa-pa-paolo!»
«Quelli sono morti. Morti! E io non spreco tempo per i morti.»
«Quelli sono a-a-anziani. E noi abbiamo il do-do-dovere di trattarli bene.»
Paolo scaraventa sul piatto anche le polpette.
«Morti.»
«Prendiamoci un attimo. Qui c’è bi-bi-bisogno di rilassarci un po’. Cantiamo.»
«Non azzardarti!»
Ernesto si schiarisce la voce.
«Sme-smetti di brontolare e se-seguimi.»
«Ho detto…»
Ernesto attacca Signore delle cime, dirigendo un coro invisibile con la punta degli indici, e Paolo abbassa la testa, digrignando i denti.
«Dio del cielo… Signore delle cime… Un nostro amico hai chiesto….»
«Giuro che ti prendo a padellate.»
Ernesto non molla. Chiude gli occhi e continua a cantare.
«Santa Maria… Signora della neve… Copri col bianco…»
«Ma allora vuoi la guerra!»
Paolo appoggia il cucchiaio sul piano d’acciaio, si volta verso i fornelli e agguanta la prima padella che gli capita.
«Io ti avevo avvertito, eh?»
Errore fatale: il manico è incandescente. L’urlo fantozziano di Paolo rimbalza contro ogni spigolo della cucina e la padella schizza in aria, tipo frisbee, spargendo il sugo delle polpette.
«Sa-santi numi! Ti sei bru-bru-bruciato?»
«Non si dice santi numi, si dice porca troia! Si dice merda! Oppure si può anche dire…»
«No! Ti prego!»
La bestemmia è talmente poderosa che Ernesto indietreggia, coprendosi le orecchie.
«Ne vuoi sentire un’altra?»
Paolo infila la mano sotto il getto dell’acqua fredda. Ha lo sguardo iniettato di sangue. E quando un bestione di centotrenta chili ha lo sguardo iniettato di sangue, un ometto filiforme può solo tacere. O, almeno, sarebbe la strategia migliore. Sindrome del missionario permettendo.
«Pa-pa-paolo… Cerca di calm…»
«Muto, Ernestino!»
Il bestione di centotrenta chili spinge l’ometto contro il frigorifero e spalanca la porta della cucina con una pedata.
«Devi stare muto!»
La porta si richiude mentre Paolo attraversa furiosamente la sala mensa, affollata di anziani, dov’è calato un silenzio irreale. Ogni passo una madonna. Sembra la bambina dell’Esorcista, al netto di barba e stazza, ma è molto più blasfemo. Esce dalla casa di riposo, raggiunge il parcheggio, esita, torna dentro.
«C’è puzza di morto! Andatevi a comprare un deodorante, cazzo!»
L’osteria è là , dove finisce lo sterrato. Bisogna uscire dal centro, svoltando subito dopo la chiesa, poi bisogna costeggiare il fiume e poi, ancora, i filari delle viti. Cinque minuti in macchina, dieci in motorino, venti in bici. A piedi non si sa, perché a piedi non ci va mai nessuno: i clienti fissi di Gustino sono tutti troppo vecchi, troppo malconci o troppo ubriachi. E i clienti occasionali? E la gente di passaggio? Anche ammesso che ce ne possa essere, e non ce n’è, come farebbe a capire che quella è proprio un’osteria?
Muri bianchissimi all’esterno, senza l’ombra di un’insegna, muri bianchissimi all’interno, completamente nudi. Le finestre non hanno tende, il soffitto è basso, lo stanzone è lungo e profondo. Così profondo che, durante le vendemmie, diventa il quartier generale della deraspatura e della pigiatura per mezzo paesello. Ai due angoli del lato est sono accatastate botti e damigiane, ai due angoli del lato ovest sono accatastate vecchie gomme di auto e di camion. Gustino si ripromette sempre di gettarle in discarica, ma alla fine non ci va mai. E la montagna cresce, cresce, cresce, perché gli amici, intanto, continuano ad aggiungerci altri copertoni. «Offro servizi alla comunità , cosa c’è di strano?» dice lui, serafico, ed è serafico sul serio: fino a poche settimane prima, dietro i copertoni, faceva bella mostra di sé un trattore. Il mitico trattore che Gustino si è dolorosamente rassegnato a vendere, dopo aver cercato di ripararlo per circa vent’anni.
«Apri! Tanto lo so cosa stai facendo!»
«Dai, Gustino, lasciala in pace. Non è più una bambina.»
«No che non la lascio in pace, Fausto: è sotto la mia tutela»
Gustino bussa più forte.
«Apri!»
Sciacquone. Chiave che gira nella toppa. Maniglia che si abbassa. Clara esce dal bagno, guardando il figlio con aria fintamente colpevole, e scoppia a ridere.
«Quante volte devo ripeterti che non puoi bere?»
«Non ho bevuto.»
Il merlo indiano di Gustino, Merlot, si agita nella gabbia e comincia a gracchiare.
«Bevuto! Bevuto! Bevuto!»
«Zitto! Non vedi che sto parlando con la mamma?»
Clara barcolla fino al bancone e scuote nervosamente la gabbia di Merlot.
«Non ho bevuto neanche un goccio!»
«Goccio! Goccio! Goccio!»
«E allora perché cammini come un astronauta?» incalza Gustino.
«Sarà il mal di schiena.»
Jozko è seduto. Bicchiere, brocca di vino bianco e mazzo di carte, in attesa che arrivi qualche anima pia con cui giocare a briscola o a tressette. Un’attesa che dura da secoli, dato che nessuno sopporta più i suoi monologhi. Il secondo tavolo è quello di Fausto l’alpino, detto Fata Piumetta per via della penna sul cappello, che fuma la pipa immerso nel «Corriere dello Sport». Il terzo è quello di Giuseppe, detto Linobanfi per via dei natali pugliesi, che dilapida scientificamente la pensione da ferroviere tra puttane e sbronze epocali.
«Ragazzi, vi cerca don Guido. Ha chiesto se potete mettervi d’accordo per morire tutti e tre lo stesso giorno, così fa una cerimonia unica.»
Jozko, Fata Piumetta e Linobanfi si grattano simultaneamente le palle. Paolo, soddisfatto, raggiunge il bancone.
«Che il Signore sia con te, Gustino.»
«Cos’hai fatto alla mano?»
«Sono un martire del lavoro.»
Gustino osserva la fasciatura di fortuna, ricavata da un tovagliolo, e storce la bocca.
«Paolo, tesoro, mi dispiace tanto» dice Clara.
«Eh. Solo tu mi capisci.»
Clara sorride e arranca fino al tavolo di Linobanfi. Gustino riempie il bicchiere di Paolo, sbuffando. L’irruzione di Ernesto coglie tutti di sorpresa.
«Pa-pa-pa-pa-paolo!»
«Pa! Pa! Pa!» gracchia Merlot.
Paolo non si scompone. Guarda Ernesto, sorseggia rumorosamente il bianco, poi guarda Gustino.
«Lo prende per il culo anche il merlo! Forza, aggiungi un bicchiere. Brindiamo con questo simpatico giovanotto.»
Gustino resta immobile. Paolo allunga la mano sinistra, cattura un bicchiere e, faticando vistosamente, versa il vino da solo.
«Io non voglio essere licenziato per co-co-colpa tua!»
«Tranquillo, Ernestino, tranquillo. Non ti licenziano.»
«Oggi è pu-pure un giorno speciale. È San Berardo ma-ma-martire.»
«Berardo? Ma se ti chiami Ernesto.»
«Berardo è il santo che mi ha assistito qua-qua-quando cercavo lavoro.»
«Complimenti, Berardo. Bel lavoro del cazzo.»
Ernesto fruga nel borsello e porge a Paolo il cellulare.
«Chia-chiama su-su-subito.»
«Su-su-subito? Non è meglio tra ci-ci-cinque minuti?»
«Subito!»
Paolo sorride e, annaspando con il pollice sinistro, digita il numero della cooperativa sociale.
«Ciao, sono Bressan. Senti… Puoi avvertire Alfio che abbiamo avuto un problema in cucina? Sì… No, no, niente di serio. Ora siam...