Taipi
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Taipi

  1. 384 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Taipi è il primo libro dello scrittore statunitense Herman Melville, apparso nel 1846, è in parte autobiografico.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817129121
eBook ISBN
9788858666708

TAIPI

CAPITOLO I

Il mare. - Gran desiderio di scendere a terra. - Una nave col mal di terra. - Destinazione dei viaggiatori. - Le Marchesi. - Avventure della moglie di un missionario tra i selvaggi. - Tipico aneddoto a proposito della regina di Nukuheva.
Sei mesi in mare! Sì, caro lettore, come è vero che sono al mondo, sei mesi senza veder terra; a caccia di capodogli sotto il sole torrido dell’equatore, sbattuti dalle ampie ondate del Pacifico... Sopra di noi il cielo, tutt’attorno il mare, e niente altro! Da molte settimane non abbiamo più cibi freschi. Non c’è rimasta nemmeno una patata dolce, nemmeno un ignamo. Quegli splendidi caschi di banane che ornavano la poppa e il cassero sono, ahimè, scomparsi! E le succose arance che erano appese ai supporti e alle sartie... anche di quelle non ce ne sono più! Sì, sono tutte finite e non c’è rimasto che un po’ di carne salata e qualche galletta. Oh, voi passeggeri che ve ne state in cabina e fate tanto strepito per una traversatina dell’Atlantico che dura un paio di settimane; che raccontate tanto pateticamente le privazioni e le difficoltà che avete dovuto sopportare, voi che dopo una giornata fatta di colazioni, pranzi e cene di cinque portate, di chiacchierate, di partite di whist, e di bevute di champagne, avete la fortuna di ritirarvi in piccole cabine di mogano e acero, e dormire per dieci ore, senza niente o nessuno che vi disturbasse, fatta eccezione per quei “marinai buoni a nulla che non fecero che camminare e urlare sul ponte soprastante”, che direste dei nostri sei mesi in alto mare?
Quel che non avremmo dato per la consolante vista di un filo d’erba! per sentire anche un momento la fragranza di una manciata di umida terra! Non c’è proprio nulla di fresco intorno a noi? Non possiamo vedere un po’ di verde? Certo, l’interno delle murate è dipinto di verde; ma che tinta vile e schifosa è mai questa, come se nulla che si avvicini, anche soltanto un poco, al verde della natura, possa prosperare a questa lagnosa distanza da terra. Perfino la corteccia della legna da ardere è stata strappata e divorata dal maiale del capitano; ma accadde tanto tempo fa che anche il maiale, a sua volta, ha conosciuto quella stessa sorte. Nel pollaio c’è rimasto un solo inquilino, un galletto, un tempo allegro e tutto lustro, che si comportava così bravamente con le timide galline. Ma guardatelo adesso; se ne sta lì abbacchiato dalla mattina alla sera, ritto su quell’unica zampa. Guarda con disgusto il granturco ammuffito che gli han messo davanti e l’acqua limacciosa del suo trogolino. Si lamenta senza dubbio per la perdita delle compagne che gli sono state letteralmente rubate, una dopo l’altra, senza che le potesse più rivedere. Ma i suoi giorni di lutto non dureranno a lungo; Mungo, il nostro cuoco negro, ieri mi ha detto che l’ordine era finalmente arrivato e che il destino dello sfortunato Pedro era stato deciso. Domenica prossima il suo magro corpicciolo sarà servito sulla tavola del capitano, e molto prima che annotti sarà sepolto con le dovute cerimonie sotto il panciotto di quel degno individuo. Chi potrebbe credere che ci sia qualcuno tanto crudele da attendere con ansia la decapitazione dello sfortunato Pedro? Eppure i marinai, egoisti, pregano perché la vita del misero pennuto gli venga tolta al più presto. Dicono che il capitano non darà mai ordine di far rotta verso terra finché gli rimarrà un piatto di carne fresca da consumare. E questo infelice pennuto è l’unico che possa procurarglielo; quando l’avrà mangiato, il capitano tornerà a ragionare. Non per augurarti del male, Pietro, ma dal momento che presto o tardi dovrai pure subire il destino a cui è condannata tutta la tua razza, e siccome il momento della tua fine segnerà quello della nostra liberazione, ecco – in verità –, io mi auguro che ti si tiri il collo in questo preciso momento; oh, sapessi quanta voglia ho di vedere la terra, dove c’è vita! Anche questa vecchia barca vorrebbe guardare una volta ancora la terra attraverso le sue cubie, e Jack Lewis aveva ragione l’altro giorno, quando il capitano trovò da ridire sul modo come governava.
“Ecco, vedete, capitano Vangs,” dice Jack senza alcun timore “io sono uno dei più abili marinai che mai governarono una nave, ma nessuno di noi riesce più a tenerla, la vecchia. Non si riesce più a tenerla in rotta, signore. Si può stare attenti fino a cavarsi gli occhi, ma lei devia comunque; e poi, signore, anche se giro il timone con delicatezza e cerco di persuaderla a fare il suo dovere, lei non sente ragione, mi scivola quasi dalle mani; e tutto questo perché s’è accorta che la terra sta a sottovento, e lei di andare controvento non ha la minima voglia.” Certo, e perché dovrebbe? Forse che le sue robuste assi non sono cresciute a terra? E non dovrebbe avere anche lei dei sentimenti come li abbiamo noi?
Povera vecchia! Da come guarda, si capisce subito quel che desidera: vedeste in che stato è ridotta! La vernice delle fiancate, bruciata dal sole, s’è tutta gonfiata e screpolata. Si trascina dietro un mucchio di alghe; attorno alla poppa si sono abbarbicati quegli orribili grappoli di molluschi, e ogni volta che si alza sulle onde mostra i rivestimenti di rame ridotti in brandelli.
Povera vecchia! Lo ripeto, per sei mesi ha sopportato rullii e beccheggi senza riposare un istante. Ma fatti coraggio, bella mia, spero proprio di vederti tra non molto a poche braccia dalla terra felice, che ti dondoli, mentre te ne stai dolcemente all’ancora in qualche verde insenatura, al riparo dai venti impetuosi.
“Evviva ragazzi! È fatta; la settimana entrante si fa vela per le Marchesi!” Le Marchesi! Quali fantastiche visioni vengono in mente anche solo a sentirle nominare! Uri nude, festini di cannibali, boschetti di cocchi, scogliere di corallo, gran capi tatuati, templi di bambù; valli soleggiate ricche di alberi del pane, canoe intagliate che si cullano sulle luminose acque azzurre, foreste selvagge custodite da idoli spaventosi, riti pagani e sacrifici umani.
Queste le strane e confuse fantasie che mi tennero compagnia durante il viaggio di ritorno dalle zone di caccia. Provavo un’irresistibile curiosità di vedere quelle isole che gli antichi viaggiatori descrissero con parole così eccitanti.
L’arcipelago verso il quale stavamo dirigendoci (benché sia stato tra i primi su cui gli europei misero piede; fu esplorato per la prima volta nel 1595) continua ad essere abitato da tribù selvagge e barbare come poche. I missionari, inviati qui per compiere i loro celesti doveri, navigarono intorno a queste incantevoli spiagge, ma le lasciarono poi ai loro idoli di legno e di pietra. E le circostanze in cui furono scoperte, forse che sono poco interessanti? Navigando lungo queste distese marine in cerca di qualche Eldorado, Mendana1 vide queste isole spuntar fuori come una visione di incanto, e per un momento il navigatore spagnolo credette che il suo sogno di gloria si fosse realizzato. Le chiamò Marchesi, in onore del marchese di Mendoza, allora viceré del Perù, che aveva patrocinato la spedizione. Tornato in patria, Mendana scrisse un magnifico resoconto sulle bellezze di queste isole, la cui fama fece il giro del mondo. Le Marchesi tuttavia, rimaste per anni indisturbate, ripiombarono nell’oscurità che fino allora le aveva avvolte, ed è solo di recente che si sono avute ulteriori informazioni. Una volta ogni mezzo secolo capitava che qualche avventuroso viaggiatore interrompesse la loro pacifica quiete e, impressionato dall’insolito spettacolo, fosse tentato di vantarsi di una nuova scoperta.
Se si escludono le poche parole dedicate alle Marchesi nelle relazioni di viaggi nei mari del Sud, ben poco è stato detto a proposito di questo interessantissimo arcipelago. Cook 2, CHE circumnavigò il globo parecchie volte, ne toccò appena le sponde, e tutto quel che sappiamo su di esse deriva da descrizioni di carattere generale. Due soltanto sono degne di particolare menzione. Pare che la Relazione dei viaggi compiuti dalla fregata statunitense “Essex” nel Pacifico, durante l’ultima guerra del Porter3 contenga delle notizie interessanti sugli abitanti delle isole. Tuttavia è un’opera sulla quale non sono mai riuscito a posare gli occhi; anche Stewart, il cappellano della Vincennes, una nave da guerra americana, ha dedicato allo stesso argomento una parte del suo libro, Navigando nei mari del Sud.
Durante gli ultimi anni, navi americane e inglesi a caccia di balene nel Pacifico, se a corto di provviste, hanno gettato, qualche volta, l’ancora in una facile insenatura che si trova in una delle isole; ma la paura degli indigeni, basata sul ricordo dell’orribile destino a cui andarono incontro molti bianchi per opera di quelli, ha trattenuto gli equipaggi dal familiarizzare a sufficienza con la popolazione locale per poter conoscere un po’ a fondo i suoi costumi e le sue abitudini.
Sembra che le missioni protestanti abbiano lasciato cadere ogni speranza di redimere queste isole dal paganesimo. Il trattamento che i padri ricevettero dagli indigeni fu tale che intimidì anche i più audaci. Ellis, nel suo Ricerche sulla Polinesia, racconta con parole piuttosto eloquenti degli sfortunati tentativi che la missione di Tahiti compì per stabilirne una sussidiaria su alcune isole dell’arcipelago. Poco tempo prima che giungessi alle Marchesi successe, sempre a proposito di quei tentativi, un fatto abbastanza divertente che non posso fare a meno di raccontare.
Un intrepido missionario, per nulla scoraggiato dall’insuccesso incontrato dai suoi predecessori, e facendo grande affidamento sul potere di persuasione delle donne, portò fra i selvaggi la sua giovane ed attraente moglie, la prima donna bianca che avesse mai visitato quelle plaghe. Gli abitanti, dapprima, guardarono con muti occhi di meraviglia un tal prodigio di natura e parevano inclini a considerarlo una qualche nuova divinità. Dopo poco tempo, però, abituatisi a vedere il suo gentile aspetto, per curiosità di appurare quale forma si nascondesse sotto le sue vesti, tentarono di lacerare il sacro velo di calicò che la proteggeva come una reliquia; e, pur di appagare la loro curiosità, oltrepassarono a tal punto i limiti della buona creanza che la pudicizia della signora ne risultò offesa. Una volta stabilito il sesso di quella creatura, la loro idolatria si tramutò immediatamente in disprezzo e le contumelie che i selvaggi, esasperati dall’inganno in cui credevano di esser stati tratti, cominciarono a gridarle dietro non avevano più fine. Davanti agli occhi inorriditi del suo affezionato sposo, fu spogliata di tutti gli indumenti e le si fece capire che non avrebbe più potuto continuare i suoi inganni senza subirne poi le conseguenze. La gentildonna non era animata da sufficiente carità cristiana per poter sopportare un tale affronto e, temendo che le si recassero altre offese, obbligò suo marito ad abbandonare l’impresa che si era prefisso, ed insieme fecero ritorno a Tahiti.
Non altrettanto restia a far mostra delle proprie grazie era invece la regina dell’isola, la florida moglie di Mowanna, re di Nukuheva. Circa due o tre anni dopo le avventure di cui si parla in questo libro – ero allora imbarcato su una nave da guerra –, mi capitò di ritornare alle Marchesi. I francesi s’erano da qualche tempo impadroniti dell’arcipelago e avevano già trovato modo di inorgoglirsi dei benefici effetti della loro amministrazione, come si poteva chiaramente vedere dal comportamento degli indigeni. In verità, proprio mentre compivano uno dei loro sforzi per applicare le riforme, a Whitihoo, ne massacrarono circa centocinquanta... ma lasciamo correre. Questa volta invece le navi della flotta francese stavano convenendo all’appuntamento che s’erano dato nella baia di Nukuheva e, durante un colloquio che uno dei loro capitani ebbe con il nostro commodoro, il francese suggerì che, essendo la nostra la nave ammiraglia della flotta americana, ricevesse a bordo, con tutte le cerimonie, la coppia regale. L’ufficiale francese aggiunse anche, con evidente soddisfazione, che, grazie ai loro ammaestramenti, il re e la regina s’erano resi conto di quel che implicava il loro rango e che, nelle cerimonie, si comportavano con conveniente dignità. Di conseguenza si fecero tutti i preparativi necessari per ricevere le loro maestà.
Uno splendido pomeriggio di sole, vedemmo un’imbarcazione, tutta pavesata a festa, staccarsi dal fianco di una delle fregate francesi e dirigersi direttamente verso la nostra passerella. A poppa, sdraiati su delle stuoie, Mowanna e consorte. Come giunsero in prossimità della nave, tributammo tutti gli onori dovuti alle loro altezze reali; demmo mano alle corde per issare il pavese, sparammo una salve di saluto e facemmo un prodigioso baccano.
Re e regina salirono su per la scaletta di abbordaggio; il commodoro, col berretto in mano, diede loro il benvenuto a bordo, e un plotone di marinai, schierati sul cassero, presentò le armi mentre la banda attaccava Il re delle isole dei cannibali. Fin qui tutto andò bene. Gli ufficiali francesi atteggiavano il volto e sorridevano in armonia col loro eccessivo buon umore, tutti grandemente compiaciuti della discrezione con cui i distinti ospiti si comportavano.
I vestiti che s’erano messi addosso, li avevano certamente scelti con l’intenzione di far colpo. Sua maestà il re indossava una magnifica uniforme militare, ornata di pizzi dorati e di ricami; e nascondeva il cranio rasato sotto un enorme chapeau bras su cui ondeggiavano piume di struzzo. Nel suo aspetto, tuttavia, c’era una piccola stonatura. Il suo volto, all’altezza degli occhi, era tutto coperto di tatuaggi, e, a qualche distanza, si sarebbe potuto credere che sua maestà portasse un enorme paio di occhiali. E un re con siffatti occhialoni, a dire il vero, faceva un po’ ridere. Ma i sarti della marina francese aveva profuso la gaiezza del loro gusto nazionale soprattutto nel confezionare l’abito che adornava il bel corpo della di lui consorte. Indossava uno sgargiante vestito scarlatto, ricamato in seta gialla, che le arrivava appena sotto le ginocchia e metteva così in mostra le gambe nude, abbellite da un tatuaggio a spirale che ricordava vagamente i bassorilievi della colonna traiana. In testa aveva un bizzarro turbante di velluto viola, lavorato con argentei motivi floreali e sormontato da un ciuffo di penne multicolori.
Gli uomini dell’equipaggio, che facevano ressa intorno al barcarizzo, attrassero subito l’attenzione di sua maestà la regina. Guardò in particolare le braccia, i piedi e il’ petto di un vecchio lupo di mare, letteralmente ricoperti di iscrizioni in inchiostro di china, al punto che assomigliavano al coperchio di un sarcofago egizio. Nonostante tutti i timidi ammiccamenti degli ufficiali francesi, la regina si diresse verso di lui, gli slacciò del tutto la giubba già mezza aperta, gli alzò una gamba dei larghissimi calzoni e ammirò estatica i tatuaggi rossi e azzurri venuti così alla luce. Abbracciò addirittura il marinaio, lo accarezzò ed espresse tutta la sua gioia in una varietà di selvagge esclamazioni e di gesti. Sarà facile immaginare l’imbarazzo di quegli ufficiali francesi così preoccupati dell’etichetta; ma figuratevi la loro costernazione quando sua altezza reale, desiderosa di mostrare i geroglifici che adornavano la sua gentile figura, si chinò un istante e, girandosi tutt’a un tratto, sollevò il vestito e mise in mostra una vista davanti alla quale gli spaventati francesi si ritirarono precipitosamente e, buttandosi letteralmente nella loro imbarcazione, scapparono dal luogo di una tale catastrofe.

CAPITOLO II

Dai banchi di pesca alle Marchesi. - Pigre giornate a bordo. - Lo scenario dei mari del Sud. - Terra! Terra! - Avvistata la flotta francese all’ancora nella baia di Nukuheva. - Uno strano pilota. - “Rimorchiati” dalle piroghe. - Una flottiglia di noci di cocco. - Arrivano a nuoto delle visitatrici. - Le stesse all’arrembaggio della Dolly. - Quel che ne segue.
Non dimenticherò mai i diciotto o venti giorni durante i quali il leggero soffio degli alisei ci spinse verso quelle isole. Seguendo la scia dei capodogli, ci eravamo tenuti sulla linea dell’equatore, circa venti gradi a ovest delle Galapagos: una volta fissata la rotta, tutto quel che ci restava da fare era di mantenere dritti i pennoni e la nave sotto vento; a tutto il resto pensavano la nave e il vento. Il pilota non doveva neppure infastidire la vecchia con delle accostate superflue: aveva tutto l’agio di appoggiarsi alla barra e di passar le ore sonnecchiando. Ben conscia dei suoi doveri, la Dolly teneva dritta la rotta e, proprio come quei tipi che danno il meglio di sé quando sono lasciati in pace, scodinzolava per il suo cammino da quella veterana del mare che era.
Che ore deliziose, pigre, languide, passammo cos...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I mari del Sud di Melville di Fernanda Pivano
  4. Illustrazioni
  5. TAIPI
  6. Appendice
  7. Una notizia
  8. La storia di Toby