1
All’alpeggio
Le Vette brillavano, come fossero di vetro, nella luce dell’alba. Il vento del nord si era trascinato via le nuvole degli ultimi giorni, quelle che avevano lasciato una spruzzata di ricordo sulle cime, e aveva aperto la vista.
Appollaiato sulla staccionata del cortile, Giacomo fremeva di impazienza. Fernanda si attardava nel preparargli la colazione, come se quel poco cibo che si sarebbe portato all’alpeggio avesse potuto fare la differenza per il suo stomaco chiuso. Il ragazzo saltò giù dal legno e si chinò a sollevare una ranocchia che saltellava nel cortile. L’appoggiò nel fango, vicino all’abbeveratoio e piombò sull’uscio di casa.
«Devo andare, muoviti!»
Fernanda rise.
«Come sei serio, ragazzo. Pare che vai soldato!»
«Mi aspettano, lo sai.»
«C’è tempo. Bepi non è certo uno che gira con l’orologio nel taschino. Deve raggruppare le vacche dalle stalle e poi salire al Ponte. Finisce che aspetti per niente.»
«Meglio aspettare che fare aspettare» chiosò Giacomo. «Muoviti o parto senza cibo.»
Le sue quattro capre, Lina, Orsa, Macchia e Riccia, parevano impazienti come lui. Non ebbe nemmeno bisogno di chiamarle, ché, come si avviò sullo stradello, lo seguirono saltellando verso il bosco.
«Tuono non te lo porti?» chiese Fernanda.
«Certo che lo porto.»
«Ma non ci sono già i cani degli altri?»
«Quello delle vacche. Mi han detto di portar su il mio per le capre.»
«Allora ciao, eh!»
«Ciao!» urlò il bambino, ma la sua voce si perse nel greto del ruscello, diritto davanti a lui.
Al Ponte non c’era ancora nessuno. Giacomo tirò un sospiro di sollievo, si sedette, si rialzò. Stare tranquillo proprio non gli riusciva. Allora percorse il tratto di sentiero per il monte dentro il Vallone. Il monte Vallazza e il Pavione erano anch’essi innevati e immobili come giganti canuti. La Stua non si vedeva, nascosta dal bosco, ma il bambino sapeva esattamente dove si trovava, salito il sentiero del Vallone e superato il Bosco Tos oltre Le Prese. Proprio tra il Vallazza e il Pavione, lungo il crinale, lì avrebbe passato l’estate.
Gli esami di quinta elementare, terminati tra le risate solo due giorni prima, sembravano un ricordo lontano, di un’infanzia remota. E i suoi amici, in paese, erano già qualcosa che apparteneva al passato. Nel sentirsi grande, fu afferrato da un’improvvisa malinconia. Gli mancava Tobia, il suo vicino di casa con cui scendeva tutte le mattine giù in paese, ma più che altro gli mancava Rachele, con le sue idee strampalate e geniali. Avevano promesso di salire a trovarlo, accompagnando Anna nei suoi giri, e Giacomo si aggrappava a quella speranza per vincere la prospettiva di tre mesi con la sola compagnia degli adulti.
Avrebbe avuto per amiche le vacche e le capre, le marmotte, forse, e i camosci, e dall’alto lo avrebbero scorto le aquile nei loro cerchi maestosi. Meglio di niente, certo, ma a giocare sarebbe stato solo.
Alzò gli occhi sulla Val Masiera e più in alto, sulle Vette. Nascosti agli sguardi, in qualche casèra abbandonata stavano rintanati i partigiani. Ne parlavano in tanti, sottovoce, nell’osteria della chiesa e in piazza. Avevano attaccato i tedeschi a Pedavena e sulla strada di Feltre. Avevano distrutto il camion del mulino prima che il podestà lo portasse via. Soprattutto avevano appena fatto saltare la ferrovia, nella galleria del Tombion. Ma lui li aveva visti solo una volta, da lontano, attraversare i prati del Col dei Cavai. Aveva fatto in tempo a notare i fucili che ballavano sulle loro spalle prima che sparissero nel bosco verso la valle. Si era domandato a lungo dove andassero, verso quale rischiosa azione.
Respirò a fondo quell’aria fresca di inizio estate. La montagna era piena di segreti e di misteri affascinanti che gli riempivano i polmoni.
Si sistemò lo zaino, legandolo bene in vita, e ne ripassò tutto il contenuto alla ricerca di eventuali dimenticanze. Il pane, il lardo e la lattuga per i primi giorni, le quattro albicocche dell’albero di casa, il coltellino a serramanico, i preziosi bottoni con le immagini dei ciclisti nel loro sacchetto di pelle, l’ultimo numero dell’“Audace”, che in realtà risaliva a un anno prima, la borraccia militare dello zio Claudio, e poi i pantaloni lunghi, il maglione e le mutande pulite. Aveva attaccato una piccola lampada a carburo sul lato esterno dello zaino, ché dentro avrebbe impestato ogni cosa del suo odore nauseante. Non aveva portato le biglie, perché non sapeva se ad Alpina piaceva giocarci o no. Al massimo le avrebbe chieste ad Anna in uno dei suoi primi viaggi.
I campanacci delle capre lo riportarono alla realtà. Richiamò Tuono con un fischio, rimise in movimento le bestie e ritornò al crocicchio del Ponte dove aveva appuntamento.
Alpina era seduta su una pietra, con i piedi nudi già sporchi di terra. Le sue gambe, anch’esse nude, portavano segni di sbucciature in più punti, specialmente sulle ginocchia. Una lunga camicia a quadri le copriva quasi per intero il corpo spigoloso e la rivestiva come una tovaglia troppo larga. I capelli corti le davano un’aria selvatica e ribelle. L’unico elemento femminile era il viso perfettamente rotondo, e il naso e le orecchie minute, e le sopracciglia sottili e ben divise sugli occhi scuri. A Giacomo, che la ricordava molto più piccola e in maniera assai vaga, piacque subito.
«Ehi, Scotòn!» lo chiamò lei ridendo.
La sua voce quasi fischiava, attraverso la larga fessura tra gli incisivi superiori.
«Ehi, Monzena!» rispose lui. «Sei sola?»
«Ho dietro il maiale e basta.»
«E gli altri?»
«Sono già su. Vedrai che ti passa presto la voglia di stare con mio zio.»
Giacomo, intimidito, scosse la testa.
Alpina allungò la mano verso il bambino e gli strappò di mano la bustina di pelle.
«Ehi!» gridò lui.
«Te la ridò subito, fammi solo vedere.»
Aprì il laccio ed estrasse una manciata di bottoni che poi fece scivolare di nuovo dentro, come rivoli di una fontana.
«Un patrimonio» commentò.
Giacomo ne approfittò per riprendersi il sacchetto e girarsi di spalle.
«Ehi, come ti arrabbi facile, tu.»
Lui infilò il naso tra i bottoni, come a voler controllare con il fiuto che ci fossero tutti.
«E dai, scusa! Facciamoci una partita, piuttosto. Scommetto che sei bravo a rondella.»
Il broncio del bambino si aprì d’incanto in sorriso. Le sue spalle si girarono di scatto e i loro occhi si incontrarono in un lampo.
«Ci puoi giurare!» esclamò. «Vediamo piuttosto come te la cavi tu!»
2
In malga
La prima sera, Giacomo sentì nostalgia di casa. Non era tanto la lontananza, quanto la ruvidità di Bepi e il cattivo umore di Sergio a rendere l’aria del tramonto densa e gravida di pensieri tristi.
Lui e Alpina avevano portato su solo quattro capre, un maiale e un cane. Più di tre ore di marcia su un sentiero – Giacomo lo sapeva per averlo percorso più volte gli anni passati – che ne richiedeva in genere due sole. Alla malga avevano trovato gli altri, Giuseppe il casaro, detto Bepi, Sergio, il pastore, e tutte le altre bestie. Contando anche le loro, quindici vacche da latte, undici manze, tre muli, tredici capre, tre maiali e due cani.
Bepi e Sergio avevano sistemato il calieron per il latte, che pendeva di lato, zeppandolo con un cuneo. Alpina aveva scaricato il peso dei muli: la calièra, la nuova zangola a manovella, la farina di granturco e i sacchi di foglie. Aveva sistemato i polverosi locali e riempito i materassi, maledicendo la strampalata idea di far tutto in un giorno solo. Lui intanto era stato spedito a far legna nel bosco, con la scure in una mano e la sega in quell’altra. Giacomo ci si era messo di lena ed era tornato con rami lunghissimi e spessi, che aveva poi tagliato a mezzo metro sul ciocco della malga.
Ora, scesa la sera, le mani gli dolevano, le braccia tremavano, il latte della prima mungitura riposava nella vasca e la polenta si gonfiava troppo lentamente nella calièra. In più Bepi e Sergio parevano orchi ingrugniti e Alpina, che si rammendava un bottone della camicia, non lo degnava di una parola.
Giacomo seguì il fiotto di luce che entrava dalla porta e si sedette fuori, sulla panchina. Le Vette splendevano di un viola intenso e saturo come i suoi pensieri, che, compressi nel lavoro, ora gli si espandevano nella mente, trasformandosi in lunghe immaginazioni fantasiose.
Bepi era davvero strano. Parlava poco e lanciava ordini come sassi ruvidi, scuotendo in alto e in basso i baffi appuntiti. Aveva una corporatura imponente, pur essendo tarchiato e molto più basso di suo padre, da quel che ricordava. Gli dava delle carezze sulla testa che lo scuotevano tutto e gli incuteva un timore tale che non osava guardarlo negli occhi. S’immaginò di disobbedire a un suo comando, e di fuggire sopra il tetto della malga mentre Bepi, con una frusta, cercava di colpirlo, come faceva il domatore con l’orso del circo che aveva visto alla fiera l’estate passata.
Scacciò quell’immagine dolorosa e si costrinse a pensare a Sergio. Forse era troppo presto per dire se gli piaceva oppure no: non si erano ancora neanche rivolti la parola.
Infine c’era Alpina, la nipote di Bepi. Lavorava lentamente, per di più in silenzio, muovendo le sopracciglia e le labbra come se stesse pensando intensamente a qualcosa che non osava dire. Si vestiva come un ragazzo, sempre con la stessa camicia larga, salvo poi curarsi le unghie con una limetta che teneva chissà dove. Se a volte reagiva urlando agli ordini di Bepi o di Sergio, con Giacomo era sempre sorridente e affettuosa.
Attirata come una falena dalla luce dei pensieri del bambino, Alpina si affacciò proprio in quel momento dalla cucina.
«Dentro è troppo buio» si giustificò.
Giacomo la guardava infilare l’ago nel tessuto, girare intorno al bottone e poi infilare l’ago nuovamente. Per maggiore stabilità aveva appoggiato un piede sulla coscia. La pianta era tutta tagliuzzata, come scavata, ma senza sangue. Alla fine, si portò il filo alla bocca e lo recise con i denti. Si girò verso Giacomo e gli fece un veloce occhiolino.
Lui ritrasse veloce lo sguardo e, spostandolo sulle Vette Grandi, sorrise.
«Alpina!» ringhiò Bepi dall’interno. «Il tavolo è vuoto e noi abbiamo fame!»
Giacomo saltò in piedi come se l’ordine fosse rivolto a lui e si affrettò a rientrare. Alpina lo trattenne per un braccio e mormorò: «Aspettami.»
Poi si alzò indolente e lo seguì all’interno.
La sera Giacomo tardava ad addormentarsi. Accanto a lui, il respiro leggero e regolare di Alpina, che di tanto in tanto muoveva a scatto un braccio o una gamba. Più in là il russare irregolare di Bepi.
La coperta era ruvida e il buio quasi totale, solo una fenditura nella finestrella in alto riusciva a indicare a Giacomo l’orientamento della stanza. Pensò alla sua famiglia, sicuramente riunita in cortile a scherzare. Perfino quella lagna di sua sorella Vittoria gli mancava. E sua madre, poi, e sua sorella Fernanda, che gli faceva la carezze sulla schiena, quando lui le si sdraiava a pancia in giù sulle ginocchia.
L’odore intenso delle vacche era lo stesso della stalla di casa, ma il rumore dei campanacci, di notte, era nuovo. Avrebbe voluto aprire la finestra per vedere la luna, ma non osava muoversi per non disturbare i suoi compagni. La mattina dopo c’era la sveglia all’alba, la mungitura, il fuoco, il burro, l’alpeggio, le vacche, le capre, il cane... e in quel turbinio di immagini, esausto, finalmente Giacomo si addormentò.
3
Le casère alte
Dal prato del costone, Giacomo fischiò e Tuono girò di colpo le orecchie verso di lui. Il bambino fece un ampio gesto con le braccia, a indicare un gruppo di capre che si stava allontanando sul versante di destra della valletta. Il cane si guardò intorno, poi prese a correre a più non posso verso il suo padrone.
Il bambino agitò le mani disperato. Erano già diversi giorni che tentava di istruirlo, con risultati piuttosto deludenti.
«Non di qui, testone! Vai a prendere le capre!»
Un istante dopo Tuono gioiva festante davanti a lui, convinto di aver fatto il suo dovere rispondendo al richiamo.
Con le mani tra i capelli, Giacomo sospirò. Poi si avviò di buon passo verso le fuggitive, per riportarle nel gruppo. La montagna andava pascolata in mani...