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Sorseggiando un cappuccino sotto gli ombrelloni del Caffè Elena, Bosdaves osservava i portici di piazza Vittorio che formavano una lunga alternanza di luci e ombre, scendendo eleganti verso gli argini del fiume. Non è facile notarlo, ma dal punto più alto, verso via Po, a quello più basso, dalla parte del ponte, la piazza ha un dislivello di più di sette metri. Una vera e propria salita, e chi usa la bicicletta la conosce bene.
Era stato un architetto dal nome infelice, Giuseppe Frizzi, a progettare nel 1825 gli edifici sui due lati della piazza. E li aveva costruiti in modo tale da nascondere la pendenza, che si può intuire soltanto camminando sotto i portici, sempre più alti man mano che si scende verso il fiume.
A Bosdaves piaceva quella luce e amava quell’apertura sulla collina, un ampio palcoscenico chiuso sul fondo dal tamburo della Gran Madre. Trovava piacevole studiare le facciate solenni, guardare la gente passare, respirare l’aria del fiume. Quello spazio enorme riempiva gli occhi dando la sensazione che, per un momento, il tempo potesse rallentare. Vi si affacciavano una dozzina di locali i cui tavolini, sparsi in giro per la piazza, erano un richiamo irresistibile per i perdigiorno. In tutti quei mesi, dal suo arrivo a Torino, quella piazza ancora non l’aveva vista sgombra. Tendoni, palchi, padiglioni, chioschi, c’era sempre qualche ridicola costruzione che deturpava l’imponente solennità del luogo.
Guardò l’ora: le dodici e trenta. Concludendo la sua ultima indagine coniugale, aveva appena rovinato la vita di due individui. Le foto del marito, abbracciato all’avvenente segretaria dello studio, erano adesso sulla scrivania di una moglie gelosa, persona sgradevole e facoltoso avvocato, che li avrebbe distrutti. Per questo si sentiva vagamente una merda.
Finì il cappuccino guardandosi attorno. Sotto un gazebo di tubi d’acciaio e plastica bianca, stazionavano due SUV neri, nuovi di zecca. Nonostante la presenza delle hostess, un paio di Winx in tailleur azzurro, i passanti si avvicinavano con poca curiosità e, dopo aver gironzolato attorno ai due mostri a quattro ruote, tiravano dritto.
Si alzò dal tavolino dando una sistemata alla giacca spiegazzata, pagò la cameriera e si avviò in direzione dei Murazzi. Sotto i portici il sole disegnava sul marciapiede grandi archi luminosi. Dopo la pioggia dei giorni precedenti, trovò piacevole il caldo quasi estivo.
Si stava specchiando nella vetrina di un piccolo negozio di abbigliamento, valutando la possibilità di permettersi un’elegante giacca dai colori chiari, quando all’altezza del ponte della Gran Madre si udì uno schianto di lamiere, seguito da grida e dal suono di clacson. Si voltò e vide frotte di passanti che correvano verso il fiume. Riprese a camminare per raggiungere il fondo della piazza mentre il baccano aumentava d’intensità.
Lasciò i portici per infilarsi nella scia di un gruppo di ragazzini eccitati. Attorno all’imbocco del ponte era scoppiato il pandemonio: il traffico completamente bloccato, e decine di persone accalcate lungo gli argini che affacciavano sui Murazzi. Attraversò il lungo Po infilandosi tra le macchine ferme, ma si dovette arrestare per la quantità di gente che riempiva il marciapiede. L’odore dei gas di scarico mozzava il respiro e il suono isterico dei clacson si era alzato di un paio d’ottave, ma nell’ingorgo che si era formato all’incrocio non c’era traccia dell’incidente.
Facendosi largo tra la folla, una coppia di vigili urbani stava cercando di raggiungere il ponte. La donna urlava nella sua ricetrasmittente con voce concitata. Bosdaves si spostò verso corso San Maurizio e, a spintoni, riuscì a scivolare in mezzo a un gruppo di curiosi per guardare oltre il parapetto.
Le quattro ruote di una grossa auto, una berlina grigia, affioravano dall’acqua assieme a parte della carrozzeria. La vettura doveva essere caduta dal ponte e la corrente di piena l’aveva trascinata nei pressi della diga di sbarramento dove si era infine arenata. In acqua non scorse alcun movimento.
«Che cosa è successo?» chiese al tizio che aveva accanto.
«Ha visto che roba?» urlò quello agitando le braccia. «Sembra di stare al cine.» Parlava con forte accento locale.
«Sì, ma…» insisté Bosdaves.
«Quel pazzo ha dato il giro giù dal ponte» disse ancora con un sorriso incredulo. Scosse in maniera energica la testa e si allontanò per cercare un posto migliore dal quale godersi la scena.
Altri due civic erano intanto scesi da un’auto di servizio per raggiungere a piedi la piazza, mentre un paio di volanti si stavano avvicinando sulla sponda opposta del fiume, in direzione di corso Moncalieri.
Bosdaves decise che non valeva la pena farsi schiacciare come una sardina in mezzo a quella confusione. Riuscì a levarsi dalla calca a gomitate e attraversò la strada superando la lunga fila di vetture ferme. Trovò il marciapiede libero e si allontanò a passo svelto lasciandosi alle spalle il frastuono.
All’angolo di via Napione rischiò ancora di farsi investire da due auto della polizia che provenivano dal centro a sirene spiegate. Fece una corsetta veloce per saltare sullo spartitraffico mentre quelle sfrecciavano lì accanto a cento all’ora. Svoltarono sul lungo Po facendo stridere le gomme, riuscirono a percorrere una trentina di metri, poi finirono imbottigliate anche loro nella lunga coda di veicoli fermi.
Proseguì per raggiungere il portone dell’ufficio, al numero 6 della via. Davanti al cancello barocco che chiudeva l’androne il postino stava dividendo la corrispondenza. Prese dalle sue mani uno spesso plico di fatture per l’agenzia e infilò l’ingresso di destra.
La scala era fresca, salendo rabbrividì. Sul vetro smerigliato del portoncino campeggiava la scritta BOSDAVES INVESTIGAZIONI PRIVATE. Aveva scelto un carattere elegante, un “graziato open face” – così definito dal tizio che l’aveva dipinto – con sottili lettere nere dall’interno dorato. Secondo Pietro Bona, il suo segretario, “faceva vecchio”. Bosdaves, al contrario, lo trovava molto “occhio privato”. L’aveva ritenuto di buon auspicio; lasciare la polizia per mettersi in proprio poteva rivelarsi un’avventura difficile.
«Cos’è tutto ’sto casino?» domandò Pietro dalla sua scrivania.
Il suono delle sirene giungeva attutito, come una specie di cantilena. Alle prime se n’erano aggiunte diverse altre. Chiuse la porta alle proprie spalle.
«C’era un’auto nel fiume, è caduta dal ponte della Gran Madre.»
Sgranando lo sguardo attraverso un paio di occhiali dai colori assurdi, il segretario aprì la bocca con aria sorpresa, ma non disse nulla. Bosdaves gli consegnò la posta, poi sfilò dal fodero la .38 Special e la ripose nell’armadietto blindato delle armi.
«La cosa non mi sorprende» decretò facendogli l’occhiolino. «In questa città guidate tutti come pazzi.»
«Io non guido come un pazzo…» chiarì Pietro.
Si passò una mano tra i folti capelli neri che gli incorniciavano la testa come uno schizzo a carboncino. Venticinque anni, laureato in Giurisprudenza, disoccupato, non avendo trovato niente di meglio da fare, aveva accettato come ripiego il lavoro all’agenzia. «Potevi restare a vedere» rimarcò, «magari ne veniva fuori un po’ di lavoro. Abbiamo un mucchio di conti da pagare.»
«La settimana scorsa ho messo un annuncio sulla “Stampa”» lo rassicurò. «Finora nessuno, ma prima o poi qualcuno chiamerà.»
«Me lo auguro, qui non si batte un chiodo. Dopo cinque anni di università, quest’ufficio non è proprio il posto che mi aspettavo, ma è sempre meglio di niente. Mi seccherebbe se dovessi chiudere.»
«Molto gentile» replicò Bosdaves.
Nei dieci mesi dall’apertura dell’agenzia non era successo granché: tre casi di sospetto adulterio, una piccola indagine per una faccenda di spionaggio industriale e poco altro. Il solo beneficio che ne aveva ricavato era stato familiarizzare con la città. Di soldi se n’erano visti pochi.
Lasciò Pietro al suo lavoro e si chiuse in ufficio per archiviare il materiale accumulato nell’ultima indagine. La scrivania era coperta di carte, rapporti, ritagli di giornale e istantanee rubate. Dopo una veloce rinfrescata in bagno, cominciò a raccogliere tutto, dividendo per tipo i vari documenti e infilandoli in buste di plastica. Si trovò tra le mani le fotografie dei due amanti che si baciavano. C’erano volute tre settimane per riuscire a vincere la loro riservatezza. Sicuri di non essere visti, si erano infine lasciati prendere da una sorta di danza sentimentale.
Sfogliò quelle immagini con un senso di disagio. Aprendo l’agenzia, non aveva messo in conto le doti necessarie per quel tipo di attività: opportunismo, mancanza di scrupoli, insolenza, avidità, indifferenza e una buona dose di conformismo. Tutte qualità di cui, fino a quel momento, aveva fatto volentieri a meno.
Quella mattina aveva giusto ottenuto i suoi trenta denari. Anche per questo, Bosdaves avrebbe ricordato quel giorno, per questo e perché, quel lunedì, era passato esattamente un anno dal suo arrivo a Torino. Un anno complicato nel quale aveva in qualche modo dovuto rimettere insieme la sua vita. O, comunque, trovarne una nuova in grado di funzionare.
Erano le sei passate quando finì di archiviare la pratica. Infilò la giacca e lasciò l’agenzia per tornarsene a casa. Non aveva voglia di vedere nessuno e pensò che una lunga passeggiata sarebbe servita come distrazione. L’aria era trasparente, quasi azzurrina. Si allontanò dal traffico intenso camminando fino in via Artisti e scese i pochi gradini che conducevano alla passeggiata lungo il fiume. I residenti la chiamavano Shit Alley, per via dell’enorme quantità di cacche di cane che nessuno raccoglieva.
In mezzo alle altre, si disse, una merda in più non poteva fare alcuna differenza.
2
Doveva muoversi in fretta. Sparò al tizio che si sporgeva da dietro il muro e, mentre lui cadeva, si spostò di lato e colpì anche il suo compare. Si fermò alla base della scala e ricaricò l’arma. Toccava proseguire. Salì i primi quattro scalini e voltò l’angolo. Uno di loro cercò di ripararsi in una specie di vano. Aprì il fuoco attraverso la porta e pure quello crollò in avanti rotolando sul pianerottolo.
Riprese a salire tenendo la schiena attaccata al muro. Nella stanza al primo piano ce n’erano altri due. Centrò il primo e arretrò di un paio di gradini per mettersi fuori tiro. L’altro corse sul pianerottolo sparando alla cieca. Si abbassò e lo abbatté con una raffica. Raggiunse la cima della rampa ed entrò scavalcando i due cadaveri. Si guardò alle spalle. Da una specie di armadio a muro ne venne fuori un altro, era armato di mitra e lo puntò nella sua direzione. Si buttò a terra e lo colpì. Il tipo si piegò in due nel tentativo di mettersi al coperto. Sparò ancora e anche quello finì lungo e tirato sul pavimento. Si rimise in piedi ricaricando e raggiunse il balcone. Dalla strada giungevano grida e spari. Un gruppetto era asserragliato in una specie di bar. Per terra vide un fucile Dragunov con cannocchiale. Lo raccolse e controllò il caricatore; conteneva ancora cinque proiettili. Mirò verso la vetrina; nonostante la distanza, i tre apparivano molto vicini. Trattenne il fiato e premette il grilletto. Il primo lo beccò alla testa, gli altri due si chinarono per nascondersi. Dall’alto del balcone poteva vedere la schiena del secondo. Mirò e fece fuoco. Anche lui ruzzolò a terra, mentre il terzo correva al riparo dietro un bancone sul fondo del locale. Qualche proiettile ronzò lì accanto, nella stanza, si rese conto di non essere al coperto, e piegando le gambe si mise fuori tiro. Cercò di nuovo il terzo nel tondo del cannocchiale. Ne vide la fronte che sporgeva dietro il vetro di un espositore del bar. Prese la mira.
«Hai visto chi c’era nell’auto che è caduta dal ponte?» disse Pietro entrando nel suo ufficio.
Bosdaves mise in pausa Call of Duty 4 e si voltò verso di lui. Il giovane aveva in mano un giornale aperto che stese sulla scrivania davanti al computer. L’articolo occupava una pagina e mezza; nella foto grande la gru dei pompieri stava ripescando la Thesis. Le ruote della vettura erano rivolte verso l’alto e una cascata di acqua melmosa sgorgava dall’abitacolo schiacciato.
Più piccoli, i ritratti di Leone Dalmazzo e del suo autista erano incolonnati accanto al titolo:
MUORE IL NUMERO UNO DI GLOBAL MEDICA.
«L’ho saputo ieri sera dal telegiornale» borbottò Bosdaves scorrendo il pezzo. «Dalmazzo era il proprietario di una delle più grosse industrie italiane. Se ne parlerà per giorni.»
«Pare che un fuoristrada lo abbia spinto di sotto» sbadigliò Pietro.
A parte esprimere il cordoglio del mondo politico e finanziario, l’articolo non raccontava molto più di quanto avesse già detto il giornalista del tg3. Un grosso veicolo, un Dodge Nitro, aveva compiuto un sorpasso molto azzardato chiudendo la Thesis contro il parapetto del ponte. Il peso della vettura aveva fatto il resto. Sfondata la balaustra di ghisa, era caduta di sotto. Leone Dalmazzo era morto sul colpo. L’autista, intrappolato nell’auto, aveva fatto la fine del topo.
A tarda sera, il rottame bruciato del fuoristrada era stato trovato su una strada sterrata dalle parti della Venaria Reale. Nel veicolo, rubato il giorno prima a San Salvario, la polizia aveva tuttavia raccolto diversi elementi che la procura stava esaminando con attenzione.
L’ispettore capo Michele Feruglio, intervistato dal giornalista, si teneva abbottonato; le indagini seguivano più piste e, al momento, era troppo presto per fare delle ipotesi. In breve, non sapevano che pesci prendere. Bosdaves conosceva bene Michele, anni prima erano stati colleghi alla questura di Udine. Ricordava un poliziotto brusco, che seguiva la propria strada con determinazione.
«Avranno di che divertirsi» commentò passando alle pagine cittadine.
Anche nella cronaca la morte dell’industriale occupava parecchio spazio. Dalmazzo di qui, Dalmazzo di là; vita, morte e miracoli di un personaggio eccellente. Una donna molto bella, vestita da montagna, sorrideva da una foto a colori. Accanto a lei un ragazzino di una decina d’anni scrutava l’obiettivo con aria imbronciata.
Prima di chiudere il quotidiano Bosdaves cercò l’annuncio dell’agenzia. Lo trovò accanto al meteo; il suo nome, in grassetto, garantiva la pronta soluzione di ogni problema per il quale fossero necessarie efficienza e discrezione. Con gli ultimi soldi in cassa aveva comprato una trentina di uscite, da pubblicare nel giro di sei mesi. Grazie a Matteo, un amico cronista di nera, non erano costate nemmeno troppo.
Pietro tornò alla sua scrivania e Bosdaves poté terminare il livello di Call of Duty. Ci giocava una mezz’ora ogni tanto per scaricare i nervi e allentare la tensione: sparare a nemici virtuali si era rivelato un ottimo rimedio contro lo stress.
Passò parte della mattinata telefonando ai creditori per rassicurarli e ai debitori per sollecitarli, l...