
- 576 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
L'agente Aloysius Pendergast combatte da anni contro una verità che non riesce ad accettare: sua moglie Helen è morta. Poi all'improvviso, ecco quegli occhi inconfondibili, ecco Helen, viva e vegeta, a pochi passi da lui. Ma è un attimo: travolta da una raffica di colpi d'arma da fuoco, la donna sparisce di nuovo. Per Pendergast è arrivato il momento di placare la sete di vendetta e di scoprire un'agghiacciante verità . Una trama orchestrata con maestria, ricca d'azione e di colpi di scena per un emozionante capitolo delle avventure di Aloysius Pendergast, eroe anticonvenzionale dal fascino inimitabile.
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Informazioni
Print ISBN
9788817071598eBook ISBN
9788858667514Seconda parte
1
Alban Lorimer entrò nella hall del Marlborough Grand Hotel di New York. Gli occhi chiari osservavano bramosi i lucidi pavimenti di marmo italiano, l’illuminazione discreta, il gorgoglio della parete d’acqua che scrosciava in una piscina di fiori di loto: il vasto ambiente ovattato brulicava di gente.
Si fermò al centro dell’atrio, elettrizzato dall’andirivieni mattutino intorno a lui. Scelse alcuni individui a caso e seguì la loro traiettoria dentro e fuori la hall. Molti si mettevano in fila davanti al chiosco di Starbucks, da cui arrivava un profumo inebriante di caffè.
New York City…
La mano ben curata accarezzò il risvolto del completo di lana gessato; le dita esili ma forti apprezzavano la consistenza del tessuto costoso. Non aveva mai indossato niente del genere prima di quel momento. Anche le scarpe erano di ottima fattura. Si era pettinato con cura per avere l’aspetto migliore possibile, come se stesse per sostenere il colloquio più importante della sua vita. E si trattava in effetti di una specie di colloquio: era una giornata fondamentale, un giorno da ricordare; organizzato piuttosto in fretta, ma comunque essenziale. Inspirò a fondo. Che sensazione meravigliosa, che delizioso senso di sicurezza dava essere vestito in modo raffinato, con i soldi in tasca, nella hall di un hotel nella città più grandiosa del mondo. L’unica nota stonata nel suo impeccabile aspetto era la piccola fasciatura bianca sull’orecchio sinistro, ma ovviamente non poteva evitarlo.
Caffè? Magari più tardi.
Sistemandosi un’ultima volta il completo, Alban attraversò l’atrio, raggiungendo la fila di ascensori. Ne prese uno e premette il pulsante del quattordicesimo piano. Guardò l’orologio Breitling nuovo di zecca che gli era stato dato e che gli piaceva tanto: le sette e trentuno del mattino.
C’erano altre persone nell’ascensore: la maggior parte teneva in mano enormi tazze di caffè. Alban si stupì della loro dimensione. Gli abitanti di New York sembravano berne enormi quantità . Lui lo preferiva preparato all’italiana: forte, ristretto e nero. Rimase sorpreso anche nel constatare che molti turisti a New York non si vestivano adeguatamente. Persino lì, in quell’hotel bellissimo e costoso della Quinta Strada, pareva che stessero andando a prendere i bambini al parco giochi o fossero pronti per una corsa, con tute, scarpe da ginnastica, felpe, jeans. Ma pochi di loro stavano davvero andando a fare jogging, considerando il loro aspetto: molti uomini avevano il ventre prominente, mentre le donne erano alte, magre e pesantemente truccate. Non aveva mai visto tante persone in condizioni fisiche così pessime. Poi si ricordò: era il gregge della gente comune.
Scese al quattordicesimo piano e percorse il corridoio con passo spedito, rallentando a ogni angolo finché non raggiunse l’altra estremità , dove una porta d’emergenza conduceva a una scala. Si girò. C’erano otto stanze sulla destra e otto sulla sinistra. Fuori da ciascuna, era deposto un quotidiano ripiegato. Alcuni ospiti leggevano il «Times», altri il «Journal», e qualcuno «USA Today».
Attese, con le dita intrecciate e con tutti i sensi in allerta. Era perfettamente immobile. Sapeva che, dal momento in cui era entrato nell’hotel, la sua immagine era stata registrata da telecamere di sicurezza nascoste. L’idea gli piaceva molto. Più tardi, guardando quelle sequenze, la gente avrebbe commentato con frasi come Che uomo elegante! Che gusto nel vestire! Sarebbero stati tutti interessati a lui. Sarebbe potuto finire persino sui giornali.
In quell’istante, però, e in quel preciso punto, la telecamera che sorvegliava il corridoio si trovava proprio sopra la sua testa e non poteva inquadrarlo.
Attese ancora. Poi tornò sui suoi passi con fare deciso. Quando si trovò di fronte alla stanza 1422, la porta si aprì e una donna in accappatoio si chinò a raccogliere il «Wall Street Journal». Senza dare nell’occhio, deviò verso di lei e la spinse nella stanza, cingendole il collo con il braccio destro e serrandole la gola, in modo che la donna non potesse emettere alcun suono. Con la mano sinistra chiuse delicatamente la porta e girò la chiave.
Lei lottò con tutte le sue forze mentre l’uomo la trascinava al centro della stanza. Gli piaceva sentire i muscoli della prigioniera che si contraevano mentre si dibatteva, il suo diaframma sollevarsi e il busto atletico contorcersi nel tentativo di sottrarsi alla stretta. Era una combattente, una sportiva, non come i grassoni incontrati in ascensore. Pensò di essere stato fortunato. Aveva probabilmente trent’anni, bei capelli biondi, nessuna fede al dito. Nella zuffa, l’accappatoio era scivolato via e poté vederla nuda. Continuò a stringerla, sempre più forte, finché lei smise di lottare.
Allora allentò un po’ la presa per lasciarla respirare, ma non abbastanza da permetterle di gridare. Le consentì di riprendere fiato una volta, due, prima di tornare a stringere.
Rimasero lì, agganciati, con la schiena di lei premuta sul suo petto; il corpo della donna tremava e infine crollò, con le gambe che le si piegavano per il terrore.
«Stai dritta» le intimò lui.
Lei obbedì, docile.
«Ci vorrà solo un momento» le disse. Doveva farlo, voleva farlo, ma qualcosa in lui desiderava prolungare quel meraviglioso istante in cui aveva potere assoluto su un altro essere umano, quel crogiolarsi nell’immaginare il brivido della sua paura. Era di certo la sensazione più bella del mondo. Di sicuro la sua preferita.
Con un certo rammarico, estrasse dalla tasca un coltellino affilato. Con un gesto rapido le conficcò la lama nella gola. La tenne lì per un delizioso, prolungato attimo, ascoltando il gorgoglio della trachea perforata. Poi recise abilmente sia la trachea sia la carotide, come se stesse sgozzando un maiale. Mentre il corpo della donna era in preda agli spasmi, la lasciò andare e si ritrasse, facendola cadere a faccia in giù, lontano da lui, con il sangue che zampillava. Sarebbe stato un errore sporcare di sangue il completo; un grosso errore. Non l’avrebbero approvato.
La vittima piombò prona sulla moquette, senza fare troppo rumore; era il tipo di tonfo sordo che faceva pensare a un mobile che veniva spostato. Alban attese, guardando con interesse finché l’agonia terminò e il sangue smise di sgorgare.
Controllò di nuovo l’orologio: le sette e quaranta. Schön.
Inginocchiandosi, come se stesse pregando, estrasse un piccolo involto di cuoio dalla tasca, lo srotolò sulla moquette e predispose gli strumenti essenziali. Si mise al lavoro.
Per le otto si sarebbe goduto il suo doppio espresso da Starbucks.
2
Ancora una volta, la nebbia si dirada e l’uomo sorride. Toglie la sicura dalla pistola e prende la mira.
«Auf Wiedersehen» dice. Sorride con cattiveria, mentre assapora il momento.
La giovane donna, con la mano ancora nella borsa, trova quello che le serve. «Aspetta. Ho… i documenti.»
Un’esitazione.
«I documenti di… di Laufer.» Un nome che ha scorto su uno dei fogli è saltato fuori per caso dalla sua memoria.
«Impossibile! Laufer è morto.» L’uomo, il nazista, sembra colto di sorpresa, mentre la crudele sicurezza sul suo viso lascia il posto alla preoccupazione e all’incertezza.
Le dita della ragazza stringono alcuni documenti, piegandoli e sgualcendoli un po’, mentre li estrae dalla borsa abbastanza da mostrare la svastica nera sull’intestazione. Impaziente, l’uomo muove un passo per afferrarli. Ma nascosto tra i fogli c’è lo spray Mace, che lei gli spruzza in pieno viso.
L’uomo vacilla con un grido soffocato, lascia cadere la pistola e si porta le mani alla faccia. I fogli si sparpagliano sul pavimento e, subito dopo averli raccolti, la ragazza dà un calcio alla pistola e scatta verso la porta. Raggiunge le scale e si lancia giù verso il secondo piano, tre gradini per volta; lo zaino pesante sembra un macigno sulle sue spalle. È in quel momento che inizia a provare la sensazione di andare alla deriva, di pesantezza alle gambe, di una sorta di paralisi. Dal piano superiore le giungono le gutturali imprecazioni in tedesco, e i passi pesanti dell’uomo.
Supera la stanza dei falsari, le camere da letto, sentendo sempre dietro di sé il suono martellante dei passi. Corre verso il primo piano, ansimando per lo sforzo e per la paura, ma riesce a raggiungere la porta principale e afferrare la maniglia. È chiusa a chiave, come tutte le finestre del primo piano.
Mentre si volta, parte uno sparo dietro di lei; il proiettile stacca una scheggia dal telaio della finestra. Sfreccia verso il salotto, infilandosi dietro una grande vetrinetta leggermente staccata dal muro. Premendo la schiena contro la parete per sostenersi, solleva le gambe; un attimo dopo l’uomo entra e la ragazza gli spinge il mobile addosso. Lui fa un balzo mentre le stoviglie, il vasellame, i libri e i pannelli di vetro si schiantano sul pavimento. L’uomo però non riesce a scampare completamente all’urto; il bordo superiore della vetrinetta lo colpisce al ginocchio, facendolo cadere a terra e urlare di dolore.
Dopo aver scavalcato il mobile, la ragazza corre verso la sala da pranzo. Un altro sparo riecheggia; all’improvviso avverte un colpo a un fianco e un calore così intenso che quasi la fa cadere.
Inciampa lungo la stretta scala che conduce al seminterrato, oltrepassa le pile di libri e si contorce per infilarsi in un’apertura nella finestra. Sente il rumore sordo dei passi sopra di lei: l’uomo ha ripreso a muoversi, ma procede più lento, a fatica, zoppicando.
La donna oltrepassa l’ailanthus e arriva a un muro di mattoni alto due metri e mezzo; salendo sul tavolo malfermo lì accanto riesce a scavalcarlo. Atterra nel cortile della sua amica Maggie.
Il silenzio è totale, ma deve continuare a scappare. Entra nel patio, poi nella cucina di Maggie, chiudendo con delicatezza la porta e lasciando spente le luci.
È l’una di notte: la sua amica non è ancora tornata dal lavoro. Si controlla il fianco, che sanguina copiosamente, ma è sollevata quando vede che il proiettile l’ha colpita solo di striscio.
Si aggira velocemente per la casa buia e silenziosa, fino all’ingresso. Poi, con molta, moltissima attenzione, socchiude la porta e sbircia fuori. East End Avenue è quieta, qualche auto passa sotto la debole luce dei lampioni. Esce in fretta, si chiude la porta alle spalle e corre verso nord, cercando un taxi, affaticata dal peso della borsa. Non ne trova neanche uno.
E poi accade. Come sempre: lo stridere di freni, la portiera che sbatte, il rumore di passi che corrono.
«Halt!» urla una voce aspra. «Hände hoch!»
Un altro uomo si muove verso di lei, con la pistola spianata.
Con un grido di frustrazione e disperazione, entra nella porta più vicina: un negozio di gastronomia aperto tutta la notte. Anche a quell’ora è pieno di clienti, in piedi al bancone, che si servono al buffet. Lei scappa, rovesciando pile di prodotti in scatola, facendo cadere il cibo del self service e i piatti: qualsiasi cosa pur di rallentare il suo inseguitore. Nel negozio si levano grida di protesta. Lei raggiunge la cucina sul retro, poi si precipita lungo un breve corridoio e si infila in un’altra cucina, più grande e in penombra: sembra un ristorante più elegante. Piomba nel locale silenzioso, oltrepassa i tavoli già apparecchiati per il giorno seguente, spalanca la porta d’ingresso e si ritrova su East End Avenue, a quindici metri da dove era prima.
Si guarda intorno frenetica. Ancora nessun taxi. Sarà solo una questione di minuti, forse secondi, prima che il nazista ricompaia. I suoi occhi scorgono qualcosa tra il fogliame di Carl Schurz Park, dall’altro lato della strada: un muro di mattoni, con un cancello chiuso e – al di là – la sagoma gialla di un imponente edificio in stile federale.
Gracie Mansion.
In un attimo attraversa la strada, si arrampica sul cancello e raggiunge la sommità del muro di mattoni. Sa che l’attuale sindaco non vive lì: disdegna la tenuta, preferendo il suo lussuosissimo appartamento, ma il luogo sarà comunque ben sorvegliato.
Si volta ed ecco il secondo nazista che esce dal negozio di gastronomia. Lui la vede e comincia a correre. Maledicendo la propria lentezza, la ragazza oltrepassa il cancello e va verso la tenuta. L’interno è buio, i riflettori illuminano il giardino. Corre incontro a un poliziotto in uniforme a un angolo della struttura.
«Agente» esclama, cercando di riprendere fiato, spostando la borsa per coprire la macchia di sangue sotto il braccio. «Sa dirmi come arrivare a Times Square?»
Il poliziotto la guarda come se fosse pazza.
Lei si mette tra la casa e l’agente. «Mi sono persa e sto cercando di tornare al mio albergo, può aiutarmi?»
Alle spalle del poliziotto, vede il secondo nazista, che sbircia oltre il muro di mattoni.
L’agente aggrotta la fronte. «Signorina, sa dove si trova?»
«Mmm… a Central Park?»
Il poliziotto ora sembra convinto di trovarsi di fronte a una drogata. «Questa è una proprietà privata. E lei l’ha violata. Temo che dovrà venire con me.»
«D’accordo.»
Cammina accanto al poliziotto verso la facciata della casa. Voltandosi, nota che il nazista è scomparso. Ora però deve liberarsi dell’agente: non può rischiare che il suo nome venga segnalato. L’agente apre il cancello con la chiave, scortandola verso l’auto di pattug...
Indice dei contenuti
- Cover
- Frontespizio
- Copyright
- Dedica
- Prima parte
- Seconda parte
- Conclusione
- Ringraziamenti