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Il giorno 3 maggio 1862, davanti al trionfo dell’economia e della scienza, il signor Alan John Huckabee, capitalista, sfruttatore e Padrone, capì all’improvviso che la rivoluzione operaia era persa. Solo a pensarci, si sentì molto vecchio.
Si ritrovava giusto al centro di un grande palazzo di vetro e metallo a South Kensington, presso i giardini della Royal Horticultural Society. Da quarantott’ore era arrivato il futuro. Le masse pagavano il biglietto, le macchine rendevano superflue le smanie dei lavoratori. E, quanto all’Internazionale, era soltanto, informalmente, l’Esposizione Internazionale di Londra, inaugurata da due giorni come trionfo di pace e concordia dalla regina Vittoria in persona. «Che meraviglia il progresso! Non trova?» diceva al suo fianco Natasha Ivanova, esule russa, intenta a sfiorare la macchina Gray, nuovo congegno all’avanguardia per la terapia elettrica delle nevrosi, uno sviluppo assicurato nel campo dell’elettroshock. «Che mondo grandioso che ci aspetta!» diceva candida, diafana, e rimirava a viso aperto il contraccettivo femminile a siringa proposto dalla Medicinisch-Polytechnische Union, pluripremiata compagnia prussiana. «Giustizia, benessere, un domani più umano! Huckabee, è splendido! Come mai non dice niente?»
L’Esposizione era pura vertigine. Il primo telegrafo parlante, la prima carrozza automatica a carica. Ben trentasei Paesi in gara, sei mesi di durata, trecento foto stereoscopiche scattate tra i vari padiglioni per fare sì che l’avvenire non fosse dimenticato, un domani. Soltanto l’uomo a cui la ragazza tirava la giacca non condivideva l’eccitazione del popolo, chiuso com’era tra pensieri un po’ ombrosi. Aveva chinato in avanti la schiena e se ne stava a esaminare anch’egli il suo pezzo di futuro. Guardava una sfera di cristallo: pareva promettere tragedie.
Era ricolma d’acqua limpida, e in mezzo all’acqua si agitavano gamberi. Dei gamberetti microscopici, affaccendati e incaponiti nella battaglia per la vita, e privi di classe dirigente a guidarli. Come spiegava l’inventore Hans Bernhard Lohmann, serio e convinto darwiniano austriaco, quel piccolo mondo era un sistema perfetto: i gamberi mangiavano le alghe, e le alghe potevano ricrescere grazie alle feci prodotte dai gamberi. L’aveva voluto chiamare “Utopia”, un universo di lavoro che funzionava per quattro anni senza bisogno d’intervento dell’uomo. Quattro anni in piena autonomia, prima che il fragile equilibrio morisse da sé per consunzione.
«Perfetto, scientifico!» esultava Natasha. «La coesistenza naturale in cui ciascuno prende e dà!»
Ma il signor Huckabee era torvo. Non gli riusciva di pensare se non a quel termine segnato, a quella scadenza di quattro anni, capace di rendere imbecilli tutti gli sforzi di generazioni di gamberi, vano il progresso, e inutile, stanca, immotivata, la lotta per la sopravvivenza. Premonizione: alzò lo sguardo verso le volte di metallo, e Londra, l’Europa, l’Ottocento gli parvero immersi in una sfera. Premonizione: guardò i volti, quei volti entusiasti; gli parvero tutti pateticamente a scadenza. E in ultimo intuì, ma sottopelle, che la sua stessa identità sarebbe stata cancellata dalla potenza del futuro incombente.
«Qualcosa la turba, signor Huckabee?»
Il corso del mondo era già scritto, ogni rivolta era illusoria. Essere chi doveva essere: questo era il solo futuro possibile. Essere ciò che voleva la Storia, un ruolo, una parte del sistema perfetto. Alan John Huckabee: Padrone. Il resto era solo un’utopia. Salutò in fretta Natasha Ivanova, mentre l’ennesima premonizione gli suggeriva che non si sarebbero rivisti. Si avviò verso casa, si ritirò nel proprio studio e, chino sopra al secrétaire, si apprestò a scrivere, mestissimo, la lettera che considerava il compimento del suo scopo epocale.
Alla cortese attenzione
del dottor Karl Marx,
filosofo
Egregio affittuario,
scaduto in data 1° maggio il termine massimo per il pagamento del canone, sono spiacente di constatare di non avere a tutt’oggi ricevuto da lei il compenso pattuito. Viste e considerate le mensilità pendenti (febbraio-marzo-aprile) e il fatto che lei, a quanto si dice, ha una qual certa competenza in dati economici e rapporti sociali, forse già immagina dove vada a parare questa mia lettera ufficiale, l’ultimo atto della nostra dialettica, che oggi mi lascia un poco amaro ma da cui, sembra, non possiamo sottrarci. Con questa mia lettera le ingiungo lo sfratto dall’interno sette, da intendersi con decorrenza immediata, pena il ricorso alle forze dell’ordine e tutto ciò che ne consegue.
Questa mia lettera di sfratto non è un attacco personale: è il mero prodotto di una lotta fra classi. Questa mia lettera di sfratto, a cui allego il sunto delle mensilità inevase, ha una sua necessità razionale, e quindi avrà un ruolo, un ruolo storico, che sto vivendo sulla pelle e che brucia. Prima di andarsene, perciò, lasci le chiavi giù in androne. E quindi analizzi, e stabilisca quello che è mio e quello che è suo; chi è il traditore e chi è il fedele; e cosa vuol dire avere o perdere, in questa vita che è in affitto. Addio, dottor Marx.
Suo
A.J. Huckabee
Padrone di casa
2
Sei mesi prima dello sfratto, il signor Huckabee era a casa, a Bloomsbury, nel suo studiolo al piano terra e senza il minimo sospetto di come, spesso, basti poco per dare il via a un processo storico.
«Ha detto perciò… sì, il dottor Marc.»
«Marx.»
«Marcs.»
«Karl Marx. E signora.»
«E figli, suppongo.»
«Tre. Femmine.»
«Stranieri?»
«Questo le fa differenza?»
«Mi prende in giro? Ho ospitato italiani fino all’anno scorso. Sono partiti, ora hanno una patria.»
«In tanti sono ancora a Londra.»
«Ma quelli sono ricercati. Ha presente, no? Sediziosi, sobillatori. Qui c’è gente per bene. Il signor Marx di dov’è?»
«Prussiano.»
«Prussiano.»
«Come me, d’altronde.»
«E voi una patria ce l’avete?»
«Sì.»
«E perciò…»
«E perciò?»
«Senta, io, guardi, me ne infischio. Mi basta che non sia un anarchico.»
«Li odia.»
«Vede? Ci s’intende. Uh, la politica! Di professione, se permette, che fa?»
«Scrive.»
«Scrive? Cioè… è uno scrittore? Un romanziere, un poeta?»
«…»
«Perché sorride? Lo dico con massima stima. Io amo la letteratura. Ha mai letto Dickens?»
«Ha scritto qualcosa in gioventù.»
«Come tutti.»
«Può darsi. Ma… non aveva trovato un suo genere.»
«Sempre così, quando siamo ragazzi: ci crediamo speciali, e finiamo per scrivere come tutti gli altri.»
«Bene, ora Marx vuole essere proprio “come tutti”. Forse per questo è eccezionale.»
«Eccezionale, addirittura! Dovrò proprio leggerlo, non crede?»
«Collabora soprattutto ai giornali.»
«Stranieri? O inglesi?»
«Ancora: le fa differenza?»
«Ovvio! Sennò non posso leggerlo. Ma insomma, perché sorride di nuovo?»
«A tempo debito, signore, le farò avere qualcosa di suo. Mi creda: il dottor Marx suscita sempre delle reazioni discordi.»
Huckabee si tirò un poco indietro per appoggiarsi allo schienale. Fissò al di là della scrivania l’uomo che gli parlava. Cortese. Elegante. Tranquillamente sorridente sotto la gran barba castana. Ma con un tratto di furbizia negli occhi che provvedeva a lasciarlo irrequieto. Tramava qualcosa, era evidente. «Dottor…?»
«Engels.»
«Engels, ha detto. È un angelo dunque?»
«Non certo del genere degli sterminatori, tranquillo. Io faccio solo annunciazioni.»
«Divertente. Pensavo piuttosto…»
«A cosa?»
«Pensavo a un angelo custode.»
L’altro sorrise, annuì lentamente. «Lei, signor Huckabee, si sta domandando perché sia qui io e non il dottor Marx. Perché mi stia offrendo di far da garante a un uomo che non mi è parente, e le abbia portato tre mesi d’affitto…»
«Oh, be’, ma quella è la caparra, è d’obbligo! E in più ci sarebbero… quattro sterline e venti di tasse.»
«E perciò, insomma, perché mi prenda tanto cura di un altro.»
«La carità è un sentimento…»
«Non è carità!» proruppe il tedesco. «La carità è lo sport con cui l’ingiustizia si lava la coscienza. No, signor Huckabee, non è questo. È solo che Marx è un uomo assai…» Fece un gesto nell’aria.
«Fumoso?»
«Idealista. La burocrazia, le scadenze, le faccende di casa, gli mettono una grande ansia.»
Huckabee corrugò la fronte: povero Marx, non era vero? Troppa pena la vita, troppa pena il lavoro! Come se lui si divertisse! Ne aveva già vista di gente così…
«Si sta dedicando a un’opera nuova, manca un nonnulla per portarla a termine… così mi assicura, per lo meno. Ma proprio per questo: ora ha bisogno di concentrazione assoluta. Tranquillità, capisce? Silenzio. Io stesso non ho esitato a consigliargli di abbandonare l’abitazione precedente solo perché la trovava chiassosa. Perciò, signor Huckabee, mi creda: io sono un uomo benestante…»
«Ma non osavo dubitarne.»
«La mia è una famiglia d’industriali, siamo stimati imprenditori del tessile. Possiedo un’azienda al cinquanta percento: “Ermen & Engels”. Solidissima. A Manchester.»
«Dunque è una sorta di… mecenate, lei, no?»
«Se serve qualche referenza…»
«Non serve.»
«Le garantisco i pagamenti, rispondo di tutto in prima persona. Ma non disturbi il dottor Marx, mi ha capito?»
«Non è mia abitudine.»
«Lo lasci pensare, lavorare.»
«Io non disturbo gli ospiti che non mi disturbano. E insomma: il pensiero non disturba nessuno.»
«Lei crede?»
«Lei no? Solo… mi tolga una curiosità: davvero, chi è lei? Un editore, un buon amico? Tiene più a Marx o a questa sua… opera?»
Engels sorrise nuovamente: «Ormai la cosa è indistinguibile».
«Perché, se tiene alla sua opera, forse spesarlo, mantenerlo, ecco, non è che abbia troppo senso, scusi. Conosco i segreti del lavoro: niente fa scrivere più in fretta del bisogno di soldi. A volte anche l’arte è economia.»
Qui Engels parve fulminarlo.
«Dicevo… così, per paradosso.»
«Io sono… colui che si sacrifica: prendo la vita sulle spalle, così gli lascio il campo libero.»
«La libertà ha la sua importanza.»
«Huckabee, senta, le dico sul serio: il suo nuovo ospite non è propriamente una persona ordinaria. Stiamo parlando di… uno Spirito Grande.»
I due rimasero per qualche istante in silenzio, a fissarsi, quasi per ponderare bene l’aria sacrale che si era creata. Dopodiché Engels schioccò la lingua e si alzò. Gli strinse la mano e ricalzò guanti e bombetta. «Il dottor Marx traslocherà fra qualche giorno. Lei ha il mio biglietto da visita. Perciò, siamo intesi.» Si avviò alla porta, poi si voltò: «Uno Spirito Grande. Me lo tratti bene».
Ne parla quasi fosse suo, pensò il signor Huckabee, guardandolo uscire dallo studio. Poi perse tempo come meglio poteva, ovvero come usava fare se aveva bisogno di placare l’ansia. Il suo studiolo offriva spunti interessanti: una collezione di orologi da tasca riposti per bene sottovetro; si mise a caricarli tutti. Passò a un catalogo di immagini sconce che aveva nascosto dentro un libro, e intanto pensava, un po’ perplesso, che Marx era un uomo fortunato: aveva qualcuno che credeva in lui. Ma al tempo stesso, continuava a dirsi, la sua condizione – almeno così, da una prima impressione – sembrava la stessa di una bestia allo zoo. Davvero, andiamo: era possibile spesare qualcuno senza sperare di ottenerne ...