La figlia del Nord
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La figlia del Nord

  1. 502 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La figlia del Nord

Informazioni su questo libro

Ebba Rose, sostiene sua madre Eugenia, è nata rivolta a Est. Ma invece di essere mansueta e diligente come i bambini nati verso oriente, si rivela fin da subito irrequieta e curiosa: una vera figlia del Nord. All'età di cinque anni, un orso bianco le salva la vita, ripescandola da un lago. É lo stesso strano orso parlante che, dieci anni dopo, si presenta alla porta della fattoria in cui Rose vive insieme ai genitori con una proposta: se lei accetterà di seguirlo, la sua famiglia ritroverà la prosperità perduta e la sorellina Sara guarirà dalla terribile malattia che la affligge. Così Rose parte per un lungo viaggio che la porta lontano, oltre il mare, fino a un castello scavato in una montagna. Là trascorre lente giornate in compagnia dell'orso bianco, e si abitua alla sua presenza gentile e alla sua voce. Ma qualcuno ogni notte si sdraia nel letto accanto a lei e si dilegua prima dell'alba. Vinta dalla curiosità, Rose accende una luce, un gesto che avrà conseguenze inaudite. L'avventura è solo all'inizio, tra incantesimi, viaggi e sotterfugi.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
Print ISBN
9788817077118
eBook ISBN
9788858675717

LIBRO SECONDO
SUD

Si spinsero lontano e l’orso bianco chiese:
«Hai paura?»
«No» rispose lei. «Non ho paura.»

REGINA DEI TROLL

Adesso è vicino. Molto vicino. E tutto si svolgerà come avevo previsto fin dall’inizio.
«Ti va di giocare?» aveva chiesto. Era un ragazzo con le labbra arricciate e la voce morbida come di neve appena caduta. Con quelle parole arrivò il desiderio. E tutto cambiò. Per sempre.
All’epoca ero una Principessa, e Il Diario che mi aveva donato mio padre era ancora nuovo. Me l’aveva regalato alla vigilia del mio primo viaggio verso le terre verdi, affinché annotassi gli avvenimenti della mia vita da Principessa.
Oggi vado nelle terre verdi, non posso crederci. La mia vecchia balia Urda mi racconta storie sul popolo dei pellemorbida fin da quando ero piccola. Ora finalmente li vedrò con i miei occhi.
Quando il primogenito del re raggiunge l’età della ragione, è tradizione portarlo a vedere le terre verdi che si trovano fuori da Huldre. Mio padre dice che è un mondo strano, che esiste principalmente per soddisfare le nostre esigenze, una riserva di schiavi e materie prime.
Dice che gli abitanti, i pellemorbida, sono molto strani, diversissimi da noi. Sono primitivi e ingenui. Hanno vita breve. Non hanno i nostri poteri. A parte pochi, vivono in piccole e squallide baracche, come quelle dei nostri servi, e i loro gioielli non brillano. Mi sembra tutto così strano.
Ma Urda mi ha raccontato altri particolari, mi ha parlato di tante cose, cose meravigliose. C’è una cosa chiamata musica. Tantissimi tipi di animali. Esplosioni di colori e profumi che spuntano dalla terra, si chiamano fiori. Cibi teneri, esotici e con tanti sapori diversi; mio padre li considera ripugnanti e dice che fanno male, ma io sono curiosa.
Il viaggio è stato lungo, ma la slitta era comoda e avevamo un mucchio di slank caldo da bere. A un certo punto ha cominciato a fare così caldo che poco per volta siamo stati costretti a toglierci tutte le nostre pellicce. Come fanno i pellemorbida a sopportare questo caldo opprimente? Io mi sento soffocare e prudere dappertutto.
Resteremo nelle terre verdi per una settimana. Alloggiamo in un palazzo di pietra, mio padre dice che non è niente in confronto al Palazzo di Ghiaccio di Huldre. Mi ha spiegato anche che quel palazzo viene usato poco, solo quando abbiamo bisogno di venire qua per trovare nuovi servi. E che è celato alla vista dei pellemorbida.
I pellemorbida non vivono a lungo quanto noi e devono essere sostituiti spesso. Dunque noi veniamo qui ogni venti o trent’anni per prenderne altri. Mio padre dice che è meglio non rapire i bambini, ma solo persone indesiderate e non sposate, perché quando spariscono pochi li reclamano. Comunque sia è difficile che ci trovino. Sarebbe un viaggio troppo lungo, duro e sconvolgente per i pellemorbida. E poi per loro la nostra terra è troppo fredda; senza slank morirebbero in poche ore, al massimo un giorno se ben equipaggiati. Mio padre mi ha raccontato di un gruppo di pellemorbida, chiamati esploratori, che sono arrivati a un centinaio di miglia dalla nostra terra. Ne abbiamo catturati uno o due, e si sono dimostrati servi particolarmente utili proprio perché erano così forti.
L’aspetto dei pellemorbida non è come il nostro, ma noi riusciamo a muoverci in mezzo a loro con facilità per via dei nostri poteri, e loro nemmeno si accorgono che ci siamo. Domani Urda mi porta a vedere i pellemorbida. Non vedo l’ora.
Non riesco a dormire. È successa una cosa meravigliosa. Ho incontrato un vero esemplare di pellemorbida! Un bambino. Gli ho toccato la pelle ed era morbida come dicono. Più morbida! E la sua voce… era come… non so. Era come il canto delle creature che loro chiamano uccelli che abbiamo sentito mentre andavamo a sud, ancora più strano e bello.
A Huldre ho visto gli schiavi pellemorbida soltanto da lontano: fanno i lavori più umili nelle cucine e nelle stalle (gli schiavi troll servono a tavola presso la famiglia reale). I nostri pellemorbida sono apatici e indeboliti dalla vita a Huldre, per cui non sapevo come fossero veramente. Urda mi aveva raccontato che erano brutti e che le loro voci avevano un suono orribile, sottile e acquoso, ma si sbagliava.
Urda si è addormentata; essendo vecchia, ha sempre sonno e ha bevuto molto slank durante il picnic che abbiamo fatto. Quindi mi sono messa a girare per conto mio. Ho camminato in mezzo all’erba verde. Ho fatto scorrere le dita lungo le punte degli esili fili e ho sentito che erano soffici. Tutti quei profumi mi hanno quasi stordita. Dolci ed emozionanti. E poi la sensazione sempre diversa del vento leggero sulla pelle. Tutta diversa dal vento forte e sempre uguale di Huldre.
Poi da lontano ho visto dei bambini che giocavano e ho deciso di usare i miei poteri per avvicinarmi senza essere vista, ma di colpo hanno smesso di giocare e se ne sono andati via tutti.
Tutti meno uno, che è tornato indietro.
«Ti va di giocare?» mi ha detto, porgendomi un oggetto rosso e tondo.
Grazie ai miei poteri ho capito la sua lingua, ma non ho potuto far altro che restarmene lì a guardarlo. Che cosa mi succede, mi sono chiesta, non respiro bene. Poi la cosa rotonda è volata verso di me e io mi sono chinata.
Lui ha arricciato le labbra e ha mostrato altri denti ed è corso a prendere la cosa rotonda. «È un pallone» ha detto. «Ti insegno a prenderlo al volo.»
Quelle parole e le sue labbra arricciate mi fecero una strana impressione, di caldo e di scioglimento, come quando bevi un sorso di slank a stomaco vuoto. «Fammi vedere» dissi impaziente nella sua lingua.
A quel punto lui mi guardò incuriosito. «Sei stata ammalata? Hai una voce…» disse prima di fermarsi.
Da quel momento smisi di parlare, ma cominciai a capire come funzionava il gioco di tirare e prendere al volo quella cosa che lui chiamava pallone.
«Non avrai mica pensato che ti prendevo in giro» disse lui. Non capivo cosa intendesse per “prendere in giro”, ma poi continuò: «La tua voce non è strana» disse. Io, comunque, tenevo la bocca chiusa, e così continuammo a tirarci il pallone.
Poi si sentì qualcuno che chiamava e lui disse che doveva andare perché i suoi servi lo stavano cercando ma che magari avremmo potuto giocare un’altra volta.
Lo osservai ridiscendere dalla collina, verso una grande costruzione. Si muoveva in fretta, con grazia.
Urda mi stava cercando, ancora intontita dal pisolino. Le dissi che avevo fatto una passeggiata. Decisi di non parlarle del ragazzo. Il giorno dopo avrei fatto in modo di farmi di nuovo portare lì e di farla bere ancora di più.

ROSE

L’orso bianco si diresse verso sud, tenendosi tra i boschi e lontano dai luoghi abitati.
Era una notte gelida e serena e le stelle brillavano nel cielo nero. Di solito, la visione delle stelle in notti limpide come quella mi piaceva così tanto da togliermi il fiato, e non mi stancavo di guardarle. Ma quella notte quasi non mi accorsi nemmeno del cielo.
Cavalcare l’orso non era come stare a cavallo. Innanzitutto l’orso era molto più grande e non si può stare a cavalcioni. Dapprima restai ferma nella stessa posizione in cui mi ero trovata quando gli ero montata sulla schiena: accovacciata, con le gambe piegate sotto di me. Quando l’orso cominciò a muoversi gli afferrai d’istinto un grande ciuffo di pelo dietro il collo per evitare di scivolare giù.
Dopo poche ore ero tutta indolenzita. Avevo l’impressione che avremmo viaggiato a lungo, così mi feci coraggio e iniziai a spostare il corpo per trovare una posizione comoda. Alla fine mi sistemai con una gamba a penzoloni e l’altra piegata sotto di me. Andavamo molto veloci, ma l’orso bianco manteneva un’andatura incredibilmente elastica e aveva una groppa così ampia che, tenendomi stretta alla spessa pelliccia, non correvo il pericolo di cadere.
La pelliccia dell’orso bianco era straordinaria. Era soffice come quella di un coniglio, ma più spessa e più voluminosa. Quando vi affondai le mani, cosa di cui trovai il coraggio solo quando non sentivo più le dita dal freddo, le vidi scomparire nel pelo fino al gomito. E poi era così caldo! Dopo pochi istanti le dita mi si scongelarono del tutto. Anche le gambe stavano al calduccio, nascoste in quella pelliccia.
Il resto del mio corpo, il viso e il busto, era al freddo, meno male che avevo il mantello. Pensai a Neddy che aveva cercato gli spilli per rimettere insieme con cura i brandelli e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Meglio non pensare a Neddy.
Pensavo invece alla creatura che stavo cavalcando. Mi venne in mente l’amico immaginario della mia infanzia. Quante volte avevo sognato di farmi trasportare di notte da uno splendido orso bianco?
Procedeva più veloce di quanto avessi immaginato, date le sue dimensioni, e all’alba eravamo già lontani, in terre che non avevo mai visto. C’erano molte foreste; le conifere erano ormai poche e abbondavano le latifoglie. Stavamo ancora puntando a sud.
Il viaggio durò sette giorni, ma l’orso si fermò una sola volta.
Per tutto quel tempo ero stata in una specie di trance, o forse ero preda di un incantesimo, fatto sta che non mangiai né bevvi, e neppure dormii. La cosa più strana era che non mi sentivo diversa dal solito, ero soltanto estremamente vigile e cosciente. Mi sembrava del tutto naturale; mi nutrivo di tutto quello che vedevo e sentivo, dei colori vividi delle piante sconosciute, del richiamo lontano di strani uccelli, perfino dell’odore del mare, che sentivo avvicinarsi.
Quando l’orso si fermò, fui colta di sorpresa e, senza accorgermene, scivolai giù dalla sua groppa, cadendo malamente sulla sabbia. Ripresi fiato, mi sedetti e mi guardai intorno. Ci trovavamo su una remota lingua di sabbia bruna con le onde che si frangevano a pochi metri da noi. Era l’alba, e dietro alla mia spalla destra stava cominciando a spuntare il sole. Vista la direzione che avevamo tenuto, dovevamo essere nella parte meridionale del Njordsjoen, il Mare del Nord. E anche se c’era un enorme orso bianco a non più di un metro da me, il fatto di essere lì mi diede un brivido di meraviglia. Mio nonno aveva navigato quel mare e il mio bisnonno prima di lui. Mi ero sempre ripromessa di andare fino al Njordsjoen un giorno, ma mai avrei pensato di farlo in questo modo.
Con la coda dell’occhio notai che l’orso stava armeggiando con le grandi zampe: tirava e modellava un materiale scuro simile a caramello, e più lo tirava più si allungava.
Io osservavo, affascinata e confusa, quando, all’improvviso l’orso si fece più vicino e, prima che mi rendessi conto di quel che stava succedendo, mi buttò addosso una cosa morbida e malleabile che mi avvolse dalla testa ai piedi. Era marrone e puzzava di pesce e muschio e pensai che potesse essere pelle di foca. L’orso poi mi coprì anche gli occhi e cominciò a darmi colpetti dappertutto, era una sensazione simile a quella che provavo da bambina, quando, nelle sere più fredde, venivano a controllare che le lenzuola fossero ben rimboccate e strette. D’un tratto sentii un peso dietro al collo e alle spalle, come una morsa che mi teneva ferma. Mi stava sollevando e intanto sentivo che ci stavamo muovendo. Poi la luce diventò più fioca e i suoni intorno si fecero più attutiti e distanti.
Non vedevo niente, ma sapevo che eravamo sott’acqua.
Sul momento mi spaventai, mi chiedevo come avrei fatto a respirare, ma presto scoprii che potevo respirare normalmente e mi abbandonai alla sensazione di essere sotto il mare, avvolta in pelle di foca e trasportata, sospettavo, nelle fauci di un grande orso bianco.
Il viaggio subacqueo durò poco. Se non altro, l’orso nuotava più veloce di quanto corresse. Quando mi tirò fuori dall’acqua e mi depose sul terreno mi sentii invasa da una strana sensazione di rimpianto. L’orso mi liberò dal bozzolo in pochi minuti e poco dopo ero di nuovo sulla sua groppa e stavamo procedendo veloci per terre completamente sconosciute.
L’orso parlò solo una volta. Accadde poco dopo la traversata marina. Stavamo attraversando una valle lussureggiante e rocciosa, con rapidi ruscelli e grosse pietre scivolose.
«Hai paura?» furono le parole che uscirono dalle profondità del suo enorme torace.
«No» risposi io, ed era vero. Ero stata troppo occupata a guardare e ascoltare, ad assorbire ogni sensazione, dal vento in faccia al dondolio ritmico del mondo subacqueo al profumo di fiori nell’aria mentre ci spostavamo a sud. Ero stata catturata dalla grazia leggera dei movimenti dell’orso e avevo prestato poca attenzione a dove stavamo andando e a quello che sarebbe successo una volta arrivati a destinazione.
Ma più tardi, la quinta o sesta notte, cominciai a pensarci. Forse sentivo che ci stavamo avvicinando alla fine del viaggio.
Dalla notte della nostra partenza la luna era calata, ma era ancora luminosa e il paesaggio che mi circondava era ben visibile. Era un paesaggio di montagna, ma i rilievi erano bassi e verdi, non imponenti e frastagliati come nel Njord. Non c’erano pini, solo latifoglie rigogliose, alcune con macchie di fiori dai colori brillanti. Anche l’odore era diverso: era un odore più intenso e ricco di terra e fiori e frutti maturi.
All’improvviso mi resi conto di avere fame e sete, e mi domandai se anche l’orso fosse affamato. Un pensiero mi passò per la mente: ero io il pasto della creatura, adesso che quel lungo viaggio era finito. Fui percorsa dai brividi, anche se faceva caldo.
Stavamo costeggiando la base di una montagnola, eravamo in mezzo a una fitta foresta di grandi alberi dall’odore pungente che non avevo ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Prologo
  6. Libro Primo – EST
  7. Libro Secondo – SUD
  8. Libro Terzo – OVEST
  9. Libro Quarto – NORD
  10. Libro Quinto – EST
  11. Glossario
  12. Le origini di La figlia del Nord
  13. Ringraziamenti