Mémé
eBook - ePub

Mémé

  1. 144 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Una casa in Normandia così umida da sembrare un sottomarino disperso ma un cuore caldo; un borsellino vuoto ma una tavola sempre apparecchiata, magari con gli avanzi; un'infanzia rubata a colpi di necessità per far posto a una vita grama ma non un lamento. Questa è mémé, nel ritratto pieno di affetto, tenerezza e nostalgia che Torreton dedica a sua nonna, una donna semplice e straordinaria, magnifica nella sua normalità, parca di parole ma generosa in prove d'amore e sacrifici. Mémé che gli ha insegnato a vivere con i piedi per terra, a fare quel che si può con quel che si ha, che gli ha trasmesso il buon senso figlio della miseria e gli ha lasciato in eredità il rispetto. Nel ricordo vivido e incisivo dell'autore, la casa di mémé diventa un luogo della memoria per tutti noi, di un tempo che non c'è più, ma che oggi potremmo rimpiangere. Una lettera d'amore che colpisce, commuove e fa riflettere. Mémé mi manca. I suoi silenzi, le sue parole semplici a Scarabeo, la sua casa sepolta sotto i meli e la sua credenza d'anteguerra. Questo libro è soggettivo, parziale, pieno d'amore, non è un'inchiesta, non è una biografia, è ciò che ho visto, e più o meno capito, ciò che ho perso e voluto trattenere un'ultima volta.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
Print ISBN
9788817078146
eBook ISBN
9788858674802

Mémé era nata il 6 marzo del 1914, era dei pesci. Il suo cognome da ragazza era Gosselin, poi era diventata Lehoc e infine Porte.
Ragazza!
Nonostante continui a guardare le rare fotografie in bianco e nero che la ritraggono da ragazza, vedo solo la nonna, non ancora in perfetta tenuta da nonna, ma già nonna, programmata per diventare nonna da una vita di fatica. In quei tempi non troppo lontani, si andava dalla palla alla pialla senza passare per la casella «ragazzi».
Da giovane, mémé abitava in una vallata dominata da un castello in rovina di proprietà del marchese Michel de Saint-Pierre, partigiano e monarchico, che si disperava nel vedere il suo mondo scivolare via attraverso la breccia aperta dal Concilio Vaticano II. La valle era stata lentamente scavata da un piccolo corso d’acqua. Le mie fantasie guerriere ne avevano fatto il luogo ideale per girare una scena di battaglia ambientata ai tempi di Guglielmo il Conquistatore. Gli alberi al limitare del bosco che ricopriva le colline erano potati tutti alla stessa altezza, quella del collo delle vacche teso al di là del recinto. Il mio immaginario infantile aveva trasformato quella foresta nella culla della morte del cigno di Čajkovskij che la maestra di seconda elementare ci aveva fatto ascoltare un sabato mattina. Il posto esatto si trovava tra la casa e il bosco alle sue spalle, senz’ombra di dubbio.
In quella vallata arcaica c’era anche un bel maniero. La fattoria attigua era un miracolo di malta e di travi, e nei laghetti all’ombra degli ippocastani centenari sguazzavano due cigni. Che avrebbero trovato la loro messa a morte in musica proprio dietro casa nostra.
È qui che la nonna aveva iniziato il suo lungo apprendistato di mémé, in questa Normandia intatta, nonostante si trovasse a un tiro di scoppio da Honfleur e dalla Côte de Grâce che portano dritti alle passerelle ricoperte di sabbia del lungomare di Deauville.
Era nata a due passi dal mare. Ma la terra è la terra, e il mare è il mare. Non ci andavamo mai, c’era troppa gente, era troppo lontano, e poi per fare cosa? Le uniche volte in cui siamo andati insieme sulla costa è stato per raccogliere le cozze, a Hennequeville. Mémé in spiaggia, con il grembiule arrotolato come le mondine nelle risaie, mémé a piedi nudi, contadina di mare che raccoglie cozze. Non sono sicuro che ti concedessi il tempo di appoggiarti a una roccia per guardare le onde che ti lambivano i piedi. Riempiti i secchi, ripartivamo per andare a pulire e mangiare le cozze, immerse in un lago di panna.
Tutti pensano che la Normandia sia un susseguirsi di spiagge che in tempo di guerra si prendono d’assalto arrivando dal mare in tuta mimetica, e in tempo di pace si raggiungono dall’entroterra con il fuoristrada nero e la famiglia in Lacoste. Invece la Normandia è nata a Saint-Pierre-du-Val.
Il vero padrone di casa era il maestro elementare, era lui che sapeva cosa scrivere sui documenti richiesti dall’amministrazione. Un certo Monsieur Feret, un maestro grosso come un vichingo, dalle sopracciglia bianche e incolte, che aveva spedito sua figlia a Rouen, piazzandola a pensione dai Torreton, in boulevard Beauvoisine. Un maestro che lanciava lo zoccolo in fondo alla classe quando gli alunni disubbidivano e li bacchettava sulle mani con il righello quando commettevano errori, perché, con il dovuto rispetto, anche allora i banchi in ultima fila erano i banchi in ultima fila. Un maestro che continuava il suo lavoro ben oltre l’orario di apertura e il perimetro dell’istituto. Prova ne è che la famiglia di mio padre ha conosciuto quella di mia madre grazie a lui, sicuramente fermandosi a chiacchierare la sera a scuola o bevendo una tazza di caffè seduti attorno al tavolo di mémé. Il maestro avrà certo risposto alla proposta caffeinica con un «in effetti, se ce n’è» di cortesia, ben sapendo che lì come altrove, dove si lavora sodo per due soldi, in effetti, di caffè ce n’è sempre. Lo si prepara la mattina e lo si riscalda un po’ alla volta quando serve, e pazienza se di tanto in tanto, appena il pentolino con il fondo deformato e bombato inizia a gorgheggiare schizzando liquido nero, si sente risuonare nella stanza un «caffè riscaldato caffè rovinato».
Quando la nonna è venuta al mondo in quella vallata, probabilmente nel cimitero municipale non c’erano monumenti ai caduti. Dubito che la guerra del 1870 avesse fatto molte vittime da quelle parti. Gli ultimi conflitti che avevano interessato la zona dovevano risalire al tempo in cui la guerra faceva un rumore da ferramenta ambulante e si tirava con l’arco mostrando il dito medio al nemico. Mémé era nata a ridosso della Prima guerra mondiale, la preferita di Brassens. Era nata in un mondo senza plastica, senza telefono, senza radio, senza televisione, senza e-mail, senza cliniche né pediatri, senza congedi di maternità. Era nata sotto un cielo non ancora solcato da quelle rotaie bianche che tradiscono la presenza di un aereo di linea, era nata quando il nostro Paese era solo alla sua terza Repubblica. Quando la Francia aveva neri, gialli e arabi che sgobbavano e morivano in nome della sua grandeur, tutta gente che non è passata abbastanza alla storia, come diceva qualcuno. All’epoca, Dien Bien Phu non era altro che una tranquilla conca piena di bufali neri, e l’Aurès non creava ancora problemi ai ragazzi di vent’anni.
Mia nonna era venuta al mondo nel 1914, qualche mese dopo Nixon. Era nata in un’epoca in cui al cinema vedevi la gente camminare a scatti, in modo per niente naturale. Anche le automobili e i cavalli sfrecciavano velocissimi per le strade. Le persone aprivano la bocca ma non emettevano suoni, si sentiva solo il pianoforte suonato fuoricampo.
A quell’epoca la Rete era la rete da pesca, Internet era la piazza del mercato, si «chattava» davanti alle bancarelle, dietro le vacche, sopra le gabbie delle galline e le cassette di verdura. A mercato chiuso, per tornare a connettersi bisognava attendere la settimana successiva, oppure cambiare operatore andando in un altro mercato, in un altro paesino che finiva per «ille», Beuzeville, Fort-Moville, Triqueville, Fatouville, Toutainville, Martainville, Trouville, Hennequeville, Conteville eccetera.
Nonostante quei villaggi sperduti avessero tutti nomi simili, chi nasceva a Triqueville restava per sempre uno di Triqueville, per gli altri era uno straniero, un forestiero, come si diceva nella Normandia dei ricchi, dall’altra parte della Senna. Per non essere del luogo bastava qualche chilometro, un paio di campi, un bosco, un fiume, anche se la pioggia era la stessa e le strade erano tutte uguali.
Un anno dopo la nascita della nonna, nonostante gli sforzi di Jaurès, l’Europa capiva troppo tardi che quella guerra avrebbe dovuto essere l’ultima. Mémé era cresciuta in uno strano periodo di pace, durante il quale tutti erano convinti di poter relegare le guerre nel dimenticatoio della Storia a forza di congressi, patti e trattati. Ma firmando quei documenti, ci si tappava già gli occhi di fronte a ingiustizie perpetrate in tutto il mondo. Seppellivamo Jaurès per la terza volta, ma stavolta con la repubblica dei mutilati dietro al feretro, e sapevamo di essere gli zimbelli – i tacchini, come li chiamava mémé – di una triste farsa, perché come diceva Dorgelès «suvvia, di guerre ce ne saranno sempre».
E ci saranno sempre delle nonne come la mia che andranno a sbatterci contro, e si vedranno distruggere la prima infanzia e annerire di mortifera fuliggine i trent’anni!
Quando i crucchi sono tornati per la seconda passata, mia nonna era praticamente sola, suo marito Lucien era un debole, mancava di carattere, come si diceva allora, e in quelle campagne essere un debole voleva dire bere. E Lucien beveva! Ufficialmente lavorava come fabbricante di zoccoli, ma ben presto la sua attività si era ridotta ad accettare qualunque mansione a destra e a manca in cambio di un bicchiere di acquavite.
Mandare avanti una fattoria è dura, ma farlo senza un marito è un inferno, e un giorno quelle fiamme infernali hanno bruciato la pancia di mia madre. Aveva tre anni come la guerra, suo padre si era appisolato a tavola e lei stava giocando con una paletta per la cenere rimasta nella brace… Pare che le urla si siano udite fin dentro la stalla… Mémé è corsa a chiamare una donnina del paese che aveva la fama di saper spegnere il fuoco, come si usava dire, la donnina ha vegliato la piccola per giorni, salmodiando preghiere, e il fuoco se ne è andato a tormentare altri corpi… Un’altra volta fu Bijou, la grossa giumenta, a salvarla. Si rifiutò di far girare la mola del torchio, un’enorme pietra tonda che pressava i frutti, perché mia madre si era addormentata nel canaletto delle mele. Suo padre non si era accorto di niente, ma Bijou l’aveva intuito e nonostante le strigliate non si mosse.
Tre figlie, di cui una in fasce, una fattoria che cadeva a pezzi, qualche animale, un marito che si addormentava sul carretto tornando dal mercato e una giumenta con il GPS, questo era lo stato delle truppe di mémé quando i crucchi si sono rimessi gli stivali neri. Lupo ci sei? Mi senti? Aggiro la linea Maginot passando per le Ardenne…
Ha avuto i tedeschi in casa, mémé. Facevano cavalluccio con la piccola «Sciodin» sulle ginocchia mentre mia nonna riempiva di latte e sidro il loro sacco di tela, tenendo d’occhio il fienile dove di tanto in tanto suo fratello minore si nascondeva insieme ai compagni partigiani. Andavano da mémé per rimettersi in forze. I tedeschi in cucina e una parte della brigata Surcouf nel fienile, un marito alla frutta e tre figlie da sistemare, bisognava stringere i denti nonostante la paura! Un giorno mi hai raccontato che una donna della brigata era scesa dal fienile e aveva urlato la sua rabbia in faccia a due o tre teutonici che prelevavano la decima in nome del Reich. Aveva spiattellato tutto quello che sapeva, parole di lacrime e sangue, i treni senza ritorno, i bambini con la stella gialla, le esecuzioni degli ostaggi, tutto. Pensavi di essere spacciata, ti vedevi già salire su un camion coperto da un telone insieme alle tue figlie.
Povera mémé!
Dov’eri quando il messaggero della morte è venuto a dirvelo? Avevi trent’anni e tre mesi. Che cosa stavi facendo? Eri nella stalla? Nei campi? È arrivato qualcuno. Un vicino, un parente, e ti ha comunicato che tuo fratello non c’era più. Il resistente aveva finito di resistere, era stato trafitto da una pallottola nel giorno del D-Day. Il giorno più lungo è stato il più breve per il tuo Bernard, certamente svegliato all’alba da un messaggio in codice, «la bimba ha la varicella» o «mamma Michelle ha perso il gatto». Giusto il tempo di dire addio alla sua bella di Conteville, già quasi vedova, ed è partito nella notte. È caduto all’alba, la sera stessa o il giorno dopo qualcuno è venuto a dirvelo… L’inverno è arrivato a giugno in quel 1944.
E il silenzio si è infittito in quella famiglia già taciturna.
Tuo padre deve aver ruminato il suo dolore e la sua rabbia in solitudine, seduto a capotavola, e il risultato di quel boccone amaro è stato l’odio.
Doveva giusto condurre alcuni buoi da un pascolo all’altro, perché la fattoria andava avanti. La fattoria se ne infischia dei morti. Un vicino di casa gli dava una mano, dovevano camminare lentamente impedendo che il bestiame si ingozzasse di erba sulle scarpate, con un rametto di nocciolo in mano per correggere le traiettorie dei più ingordi. È probabile che le imprecazioni si fossero sostituite alla conversazione, già in tempi normali non si parlava granché, ma ora tutti avevano in testa la disgrazia. Hanno incrociato una pattuglia di tedeschi punti sul vivo dall’invasione delle spiagge, bisognava nascondersi, lasciare che raggiungessero la costa per tentare di arrestare l’ondata di americani. Sì, era meglio nascondersi, i tedeschi erano piuttosto nervosi in quei giorni, il loro muro atlantico imbarcava acqua dalla Manica.
Non si sa esattamente cosa sia successo, e quelli che sapevano non ne parlavano, ma probabilmente il mio bisnonno ha pensato che fosse arrivato il momento di dire ad alta voce ciò che il suo silenzio gli faceva sussurrare tra i denti, che fosse giunta l’ora di incanalare le lacrime nella giusta direzione, le lacrime che dal 6 giugno inondavano i suoi pensieri più che le sue mani callose, che fosse giunta l’ora di mettere al corrente l’occupante della sua impazienza di celebrare la fine del Reich senza aspettare i risultati delle corse a Deauville, di informarlo che per lui il dovere della memoria cominciava in quel preciso istante. Si era mimetizzato dietro una scarpata, e pare sia sbucato fuori all’improvviso insultando la schiera di «Gott mit uns». Il vicino di casa ha udito delle urla, degli insulti, poi una raffica di colpi, ed ecco l’ennesimo corpo irrigidito dalla guerra, un corpo nel fossato, trafitto, con fori rossi da tutte le parti. Le dormeur du val, il dormiente di Saint-Pierre-du-Val, era il mio bisnonno, caro Rimbaud, si chiamava Albert Gosselin.
Un altro morto da comunicare a mémé senza troppi giri di parole, con la rassegnazione di chi guarda la tempesta divellere la tettoia o la pioggia inondare il raccolto…
Durante una partita domenicale a Scarabeo, in mezzo alle parole semplici e schiette che componevi di solito – perché non andavi mai a spulciare il dizionario alla ricerca di vocaboli astrusi che dessero più punti – ci hai confidato, probabilmente appigliandoti alla parola piazzata sul tabellone da gioco, che spesso facevi un sogno in cui ti rimproveravi di non portare abbastanza fiori sulla tomba di tuo fratello Bernard. Lo sognavi quasi tutte le notti…
Il dolore ha la scorza dura, come quei vecchi ceppi che rifiutano di morire, continuano a germogliare, si intrufolano sotto le pietre e le assi, nelle fessure del sonno, e non smettono di farci piangere. Il tuo fratellino, credo lo amassi più di tuo marito… Ricordo che ci rimanevi male quando non vedevi il suo nome citato negli articoli dedicati alle commemorazioni. In compenso, è inciso sul granito nel cimitero di Saint-Pierre-du-Val, subito a sinistra dell’ent...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Dormivo accanto a mémé, così
  6. Mi ricordo l’espressione del tuo
  7. Tutte le istruzioni che cerchiamo
  8. Mi manca la cantina con
  9. Mémé era nata il 6