1
Giacomo
Londra, 21 settembre 1981
La donna indossava un cappotto giallo. Aveva aperto la portiera, era scesa e si era messa una mano sulla bocca e l’altra sul petto: guardava il muso distrutto della sua Mini Cooper rossa. L’uomo nell’altra macchina era rimasto aggrappato al volante, forse intontito dal tamponamento. Le teste dei passanti erano scattate all’unisono, attirate dal rumore violento dello scontro. Tutti gli occhi erano puntati verso il luogo dello schianto. Tranne i loro, fissi sull’ospedale.
«Non entrare, vieni via. Ti prego, andiamo.»
Claire si voltò verso Giacomo, la mano destra quasi inerte tra le sue. Tentava di trattenerla, ma lei non voleva incontrare il suo sguardo. Osservò le pietre dell’edificio di fronte e i piccoli archi ai balconi del secondo piano. Poi si slacciò l’impermeabile, che all’improvviso le aveva dato un senso di oppressione, anche se dentro di sé sapeva che non poteva già essere diventato stretto.
Un soffio di vento insolitamente freddo spostò un ciuffo biondo sfuggito alla grossa treccia di Claire, che si girò di nuovo verso il St Mary’s Hospital. Si chiese se quel minimo rigonfiamento sul ventre sarebbe sparito subito o dopo qualche giorno. Notò sulla facciata una targa, diceva che in quel palazzo Alexander Fleming aveva scoperto la penicillina. Ma per quello che doveva fare lei non bastava una puntura e non esisteva un vaccino.
Scosse la testa, era un pensiero assurdo.
«Dài, vieni via» ripeté Giacomo. «Abbiamo sbagliato. Ho sbagliato. Ti prego…»
Questa volta fu lei a cercare il suo sguardo. D’istinto, come aveva fatto tante volte, gli risistemò il colletto della camicia, uscito dal girocollo grigio che lei gli aveva regalato e che lui aveva indossato sotto la giacca. Lentamente, staccò le mani di Giacomo dalla sua e gli accarezzò il viso.
Poi, quasi di scatto, si incamminò verso l’ingresso.
Salì i sei gradini che la separavano dal portone. Varcò la soglia, sotto le arcate di mattoni rossi, sola. Dietro il banco dell’accettazione sedeva un’infermiera grassa.
Lui, immobile, si toccò la guancia e si annusò la punta delle dita: cercava il profumo di Claire, invece sentì soltanto l’odore del dopobarba. Fissò la strada trafficata del lunedì mattina, gli uomini che correvano verso gli uffici o la stazione di Paddington e le donne che trascinavano ragazzini indolenti a scuola. Un bambino con un caschetto di capelli rossi, in lacrime, provava a convincere la madre a tornare indietro.
2
Viola
Milano, 8 febbraio 2010
«Dài, papà, alzati!»
Viola appoggiò la tazza della colazione nel lavandino: lo sapeva che suo padre si arrabbiava quando non si sforzava nemmeno di metterla nella lavastoviglie, ma era più forte di lei.
«Non abbiamo sentito la sveglia e alla seconda ora ho il compito in classe di matematica.»
Tornò in bagno, si lavò i denti e, come sempre, restò un attimo davanti allo specchio, facendo le boccacce, sbattendo le palpebre, scoprendo le gengive, prima di gridare di nuovo: «Quella mi ammazza… Dài papà, per favore».
Si sciolse i capelli lunghissimi ancora legati per la notte e iniziò a pettinarli, con la spazzola che sfrigolava.
Poi chiamò più forte: «Papààà! Cavolo, ma perché fai così?».
Rientrò in camera. Da quando i suoi genitori si erano separati, suo padre viveva in un appartamento che definiva «di passaggio». Un passaggio che durava ormai da due anni.
Un salottino con cucina a vista, dove l’unico lusso era un grande televisore al plasma davanti a uno striminzito divano a due posti, un bagno e la stanza con un letto matrimoniale e un altro, pieghevole, accanto. A volte, all’inizio, Viola aveva dormito con lui, ma adesso preferiva non farlo: ormai era grande.
A quel punto rischiavano di essere in ritardo anche per l’inizio della seconda ora. Così si avvicinò e lo toccò leggermente.
«Papà, per favore…»
Non si mosse. Viola scostò il piumino e vide suo padre steso su un fianco e accartocciato su se stesso, le ginocchia piegate, la mano destra che stringeva la maglia del pigiama all’altezza del petto, gli occhi chiusi forte, in una smorfia. Lo scosse ancora, questa volta in modo più energico, afferrandolo per le spalle e spingendolo avanti e indietro.
«Papà…»
Restò per un istante paralizzata, china su di lui. Poi lasciò la presa e si girò, andò verso la porta d’ingresso ma cambiò idea ed entrò in bagno, aprì l’acqua del lavandino e il getto uscì così forte che le schizzò la maglietta e i jeans: che cosa stava facendo?
Tornò accanto al letto, vide il cellulare sul comodino e lo prese. Fece scorrere l’elenco delle chiamate recenti: FuN, Fulvio Natali.
Squillò a lungo prima che una voce assonnata rispondesse dall’altra parte: «Pronto, Giacomo, ma cosa succede?».
«Scusa, Fulvio, sono Viola…»
Il tono cambiò, un colpo di tosse per schiarire la gola: «Ehi, ciao Viola, sei tu. Che c’è? Tutto bene?».
«Il papà non si sveglia.»
3
Viola
Milano, 21 giugno 2010
Ho aperto gli occhi e il pungiglione del ragno che cercava di avvelenarmi era il dito di mia madre che mi batteva sulla fronte.
«Muoviti, Viola, làvati, vèstiti e vieni di là che dobbiamo uscire in fretta.»
Mi sveglia sempre così, picchiettando sulla mia testa. Mi dà fastidio, lo sa, sono sicura che lo sa.
«Viola? Allora?»
È già uscita dalla camera. Ha alzato la tapparella, spalancato la finestra e se n’è andata. Io ho richiuso gli occhi, un po’ perché sono rimasta abbagliata dalla luce e un po’ perché volevo controllare che il ragno fosse sparito. Il fatto di non riuscire più a parlare in questi casi è quasi un vantaggio: urlo solo nei sogni.
Mi annuso le mani, prima la punta delle dita, poi i palmi. È un gesto che faceva sempre anche papà, ma la mamma lo detesta.
«Viola?»
I passi di mia madre scricchiolano sul parquet dell’anticamera. L’anta del frigorifero si apre facendo tintinnare le bottiglie. Mi metto seduta sul letto, infilo le infradito e vado in bagno. Gli asciugamani sono allineati, tutti dello stesso colore: grande per la doccia, medio per la faccia, piccolo per il bidet. Gli spazzolini nel bicchiere, il dentifricio spremuto dal fondo, ma io ogni tanto lo schiaccio in mezzo. Apposta per vedere se, almeno una volta, mamma smette di menarmela.
«Sbrigati, la colazione è in tavola. Ti ricordi che oggi viene la direttrice del collegio?»
E come potrei dimenticarlo dato che me lo ripeti da un mese?
«Guarda che è un posto bellissimo, in mezzo al verde.»
Ma dài? Non me l’hai mai detto.
«In un ambiente così guarisci e torni come tutte le persone normali.»
Io sono normale: solo che sto zitta. La mia voce se n’è andata. Non un suono, neanche la strana cantilena nasale dei sordomuti o il gracchiare di chi è stato operato alle corde vocali. Ho visto tutti questi tipi di problemi negli infiniti controlli con non so quanti specialisti. Non ci sono difetti apparenti: è come se le parole si fermassero prima di arrivare alla gola, come se non volessero uscire dalla mia testa. Lo chiamano “mutismo selettivo”: tutto funziona, ma qualcosa dentro di me ha deciso che non devo parlare e io non mi so opporre. Come non mi oppongo alle continue rotture di mia madre.
«Non capisco perché non mangi i corn-flakes…»
Perché non mi piacciono, mamma. Mi fanno schifo. Ogni mattina io mi sforzo di buttarne giù un po’ solo per farti contenta.
«E stai composta, non ti accasciare sui gomiti, sembra che ti stia per cascare la faccia nella tazza. Schiena dritta, avambracci sul tavolo!»
Fai sempre così: alzi la voce, ti arrabbi, poi ti penti e cambi tono.
«Dài, tesoro…»
Infatti…
«I professori sono stati generosi con te: ti hanno promosso basandosi solo sugli scritti. Ma era la terza media e dicono che, se il tuo problema continua, alle superiori sarà difficile trovare qualcuno che chiuda un occhio. E non vogliamo iscriverci a una speciale, vero? Il collegio è un posto magnifico: antico, con un parco enorme.»
Lo so, mi hai mostrato il sito mille volte.
«E se non fosse stato per Gian, che ha studiato lì, sarebbe stato impossibile essere accettati.»
Grazie, avvocato Giancarlo Maria Medusian. Ma se è un luogo così bello, perché non ci mandi anche il tuo, di figlio?
«Buongiorno, Arianna… Viola…»
Eccolo qui, Tancredi Medusian, che gli amici chiamano Tan ma che io, per dispetto, ho soprannominato Credino. Vive più in questa casa che con sua madre, un’americana di Washington che lo vede solo una volta all’anno, in estate. D’altra parte, avere a che fare con lo studio legale internazionale Medusian & Associati non deve essere stato facile per lei. Ma a Credinetti – altro suo nomignolo, questo inventato da papà – non sembra dispiacere la situazione: qui ha tutto quello che vuole, PlayStation, XBox, Wii, PSP, Nintendo DS. È un piccolo genio dell’elettronica, anche se ha solo undici anni.
«Ciao, Tancredi, tesoro, hai dormito bene?»
Lui non la guarda nemmeno, invece io la fisso: da dove la tiri fuori questa vocina, mamma? E perché non ti arrabbi se lui non risponde?
«Adesso voi due finite la colazione, io mi preparo e poi usciamo.»
Pettinato, i capelli gellati, una riga che sembra tirata con il laser. Credino è concentrato sui corn-flakes. È a lui che piacciono, non a me…
«Che cosa c’è, muta?»
Mi chiama sempre così quando mia madre non c’è, trascinando la emme: mmmuta.
«Non ho sentito. Ti spiace parlare più forte?»
Mi alzo di scatto dalla sedia, tocco involontariamente la tazza e quel goccio di latte rimasto sul fondo si versa sul tavolo. Credino mi osserva, socchiude gli occhi. Impugna per il manico la sua tazza, piena di corn flakes inzuppati, e la rovescia, bagnando la tovaglietta e buttandosene un po’ anche sui pantaloni. Mi scruta di nuovo e lancia un urlo.
«Nooo! Viola, sei una scema!»
Mia madre arriva a passi svelti. Entra in cucina: io sono in piedi accanto al tavolo inondato.
«Che disastro! Viola, ma cosa devo fare con te? Dài, muoviti che dobbiamo andare. E tu, Tancredi, cambiati per favore. Abbi pazienza, scusala.»
Mi strattona fuori tirandomi per un braccio. Io mi volto e Credino incrocia il mio sguardo, stringe le labbra e scuote appena la testa, un “mmm” di scherno silenzioso mentre mi mostra il dito medio. Io sollevo gli occhi verso mia madre, ma lei non si gira. Mi dice di aspettarla in camera, che appena arriva Margot, la tata di Tancredi, usciamo. Proprio in quel momento suona il campanello.
«Buongiorno, Margot.»
«Buongiorno, signora Arianna.»
«Per favore, sistemi subito la cucina. Viola ha combinato un pasticcio e Tancredi si deve cambiare. Ci vediamo per pranzo.»
«Va bene, signora.»
«Viola, sei pronta?»
Mia madre è ossessionata dai tempi, l’idea di arrivare in ritardo per lei è sconvolgente. Mi trascina in ascensore, sale in macchina e guida senza rivolgermi mai la parola. Non accende nemmeno la radio, le dava fastidio anche quando stava con papà.
Con lui, ho iniziato ad ascoltare musica in auto solo dopo che si sono separati. Ricordo che un’estate, prima di un viaggio lungo, avevamo fatto un accordo: ognuno si era portato i suoi cd e ne sceglievamo uno a testa. Solo che quando ne mettevo uno mio lui mi diceva sempre di abbassare: lo faceva apposta, carogna…
Io e mamma fissiamo la strada e in un attimo siamo arrivate. Come al solito, in un anticipo esagerato.
È la seconda volta che entro nello studio di Gian: sulla porta...